Ateismo e legislazione italiana

UN PODI STORIA
LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA
SVILUPPI SUCCESSIVI
UNINTESA CON LO STATO
NUOVI ORIENTAMENTI, VECCHIE DISCRIMINAZIONI?
NORMATIVA INTERNAZIONALE
PERCORSI DI APPROFONDIMENTO

UN PODI STORIA

La civiltà umana è stata sempre caratterizzata dalla presenza di strutture religiose e di più o meno numerosi miscredenti, questi ultimi quasi sempre nella veste di perseguitati.

Guarda caso, il primo rogo di libri conosciuto nella storia è quello degli scritti di Protagora (415 a.e.v.), colpevole di aver teorizzato l’inesistenza degli dei.

Con Platone si arrivò anche a teorizzare delle pene: nel decimo libro delle Leggi, il filosofo propose per gli atei almeno cinque anni di isolamento in una casa di correzione. Per quelli più dissoluti, in particolare, la condanna ritenuta idonea era il carcere a vita, per i pertinaci la morte.

Ciononostante, la diffusione delle idee filosofiche e una certa libertà di pensiero favorirono comunque l’espandersi nel mondo classico di concezioni areligiose tra la popolazione, perlomeno tra le classi più colte.

La presa del potere da parte del cristianesimo interruppe questo processo: nel breve volgere di un secolo gli editti di vari imperatori lo imposero come religione di stato, unico culto ammesso, giungendo in breve alla distruzione di qualsiasi tempio “pagano” e alla previsione della condanna a morte per chiunque avesse propagandato concezioni del mondo diverse.

Dovettero passare quasi 1400 anni affinché, col riemergere di uno spirito critico e il diffondersi delle idee illuministe, in Europa si potesse tornare a dubitare pubblicamente dell’esistenza di Dio senza rischiare processi per empietà.

Ancora nel 1850, la Cassazione del regno piemontese così sentenziava: «per costituire il reato di attacco alla religione dello Stato… basta la manifestazione dei principî alla medesima contrari».

La nascita del regno d’Italia, e soprattutto il modo in cui nacque, portarono a un conflitto tra i Savoia (comunque cattolici) e il papa rinchiuso nei suoi palazzi vaticani. Tracce di questo conflitto, più antipapista che anticattolico, si notano agevolmente negli articoli del Codice Penale del 1889: si era sicuramente liberi di professare una qualsiasi fede religiosa, ma si era veramente liberi di non professarne alcuna?

Una riprova che nello stato liberale l’ateismo veniva pur sempre visto come un pericolo si aveva con la legislazione relativa alle carceri, dove alla confessione cattolica veniva per legge attribuita una funzione rieducativa, e i detenuti erano costretti (tutti) a partecipare alle funzioni religiose.

Con il fascismo si ritornò al vero e proprio stato confessionale: attraverso il mutuo riconoscimento che regime e Chiesa cattolica si diedero per mezzo del Concordato, la religione tornò a interpretare addirittura una funzione di ordine pubblico. Contemporaneamente ritornarono i crocefissi appesi ai muri, i cappellani militari, il reato di vilipendio, l’obbligo di istruzione religiosa, nonché un nuovo Codice di Procedura Penale che previde espressamente un giuramento «davanti a Dio».

LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA

Il ritorno alla democrazia non rappresentò immediatamente un miglioramento significativo per le condizioni degli atei. Già all’Assemblea Costituente alcuni ferventi cattolici tentarono di caratterizzare in senso confessionale il testo che andavano ad approvare. Giorgio La Pira voleva addirittura far cominciare la Costituzione con una invocazione a Dio; Aldo Moro voleva inserirvi anche l’ora di religione.

Nonostante l’approvazione dell’art. 7 (Concordato) l’impianto del testo costituzionale è sostanzialmente laico, lasciando peraltro molto nel vago ogni definizione certa di religione, ed evitando accuratamente di citare i non credenti.

In particolare, l’articolo 19 recita:

«tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume».

Mentre il comma 1 dell’articolo 21 sostiene:

«tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».

Qualcuno si sentì di concludere, interpretando alla sua maniera il combinato di questi due articoli, che l’ateismo era sì lecito, ma irrilevante, se non addirittura illecito nella forma attiva propagandistica, in quanto il legislatore aveva con questi due articoli tutelato positivamente ed espressamente il solo sentimento religioso: mentre l’ateismo veniva tutelato dal solo articolo 21.

In pratica la giustizia continuò a sentenziare come sotto il fascismo (le cui leggi non vennero mai abrogate): ad esempio la Corte di Cassazione sostenne che, sì, lo Stato italiano garantisce la libertà di non credere, ma identifica comunque nella fede «un mezzo di perfezionamento morale». Diverse sentenze di tribunale si appellarono proprio a queste “interpretazioni” per affidare la prole al genitore credente nelle cause di separazione (Ferrara 1948, Trani 1949, Rovigo 1952: per quest’ultimo era addirittura lecito indagare su una persona per verificare la portata del suo ateismo). Negli anni 1960/1961 due sentenze della Corte Costituzionale ancora negarono l’incostituzionalità del giuramento su Dio: visto che l’ateo non crede, era la tesi sostenuta, il suo giuramento vale come se fatto davanti agli uomini che, in Italia, sono a grande maggioranza credenti.

SVILUPPI SUCCESSIVI

Ancora nel 1973 lo studioso Carlo Cardia era costretto ad ammettere nel suo testo Ateismo e libertà religiosa: «qualcuno può stupirsi di fronte all’affermazione che in Italia non si è liberi (o lo si è molto scarsamente) di essere atei, eppure è una verità tra le meno difficili da dimostrare».

Fortunatamente i tempi stavano per cambiare: una nuova generazione di giudici era maturata, il Parlamento aveva introdotto il divorzio, e anche le masse avevano dimostrato col referendum sullo stesso tema che oramai la presa della Chiesa cattolica era alquanto meno ferrea.

Inoltre, le interpretazioni del testo costituzionale si soffermavano maggiormente sull’articolo 3, comma 1, che ribadiva come «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».

Con la legge 354/1975 si interruppe il monopolio della religione cattolica nelle carceri: mentre, finalmente, il 2 ottobre 1979 la storica sentenza n. 117 della Corte Costituzionale dichiarò illegittimo il giuramento su Dio, riconoscendo altresì come l’ateismo andasse tutelato anche nell’ambito dell’articolo 19 (libertà di religione, quindi, pur di segno negativo e opposto) e non dal solo articolo 21. Un concetto confermato dalla sentenza n. 203/89, che ribadiva il divieto a che «il pluralismo religioso limiti la libertà negativa di non professare alcuna religione».

Tradurre in pratica tale giurisprudenze è però ancora difficile, anche a decenni distanza. Piccole e grandi discriminazioni sussistono ancora, come ben mostra il Freedom of Thought Report.

UNINTESA CON LO STATO

L’UAAR fin dalla sua fondazione, al fine di porre fine alle discriminazioni nei confronti di atei e agnostici, formulò la richiesta alla Presidenza del Consiglio di addivenire alla stipula di un’Intesa, che l’articolo 8 della Costituzione riserva alle confessioni religiose. Si ricorda, in proposito, che esse non devono necessariamente contemplare la richiesta dell’Otto per Mille, e che riguardano questioni fondamentali quali, per esempio, la presenza della religione a scuola, l’assistenza morale nelle strutture obbliganti, il diritto matrimoniale, la libertà di espressione, la tutela penale del sentimento religioso.

Nel 1996 il Sottosegretario di Stato Lamberto Cardia rispose che tali Intese non possono essere applicate “ad altre associazioni che non abbiano natura religiosa e confessionale”: per cui, mancando i requisiti, la richiesta non poteva essere accettata.

Il 30 maggio 1996 l’UAAR ha presentato — e vinto — un ricorso straordinario al Capo dello Stato motivato, oltre che da evidenti violazioni della legge nell’iter e nella stesura della risposta, anche dalla mancata considerazione delle sentenze costituzionali che equiparano le norme riferite a confessioni e culti agli enti che si pongono sul medesimo piano, pur non avendo, ovviamente, carattere religioso positivo. In data 27 novembre 2003 il Consiglio dei Ministri si è pronunciato negativamente. L’UAAR, nel febbraio 2004, ha presentato un nuovo ricorso. Nel 2008, il TAR del Lazio le ha detto di no, sostenendo che quello del governo era un atto politico, e dunque non suscettibile di controllo giurisdizionale.

L’UAAR ha deciso di impugnare tale sentenza innanzi al Consiglio di Stato. Che, con una sentenza depositata il 18 novembre 2011, le ha dato ragione, rimandando la richiesta al TAR. Secondo la suprema Corte amministrativa, il giudice deve poter entrare nel merito della legittimità delle decisioni degli organi politici: “nella specie ci si trova in presenza di una scelta dell’Amministrazione non insindacabile, ma presentante i tratti tipici della discrezionalità valutativa come ponderazione di interessi”. Il Tar è pertanto chiamato a pronunciarsi nuovamente sull’argomento, e questa volta non potrà sottrarsi alla valutazione della legittimità della decisione del governo. Contro la sentenza del Consiglio di Stato, tuttavia, il Governo Monti ha incredibilmente presentato ricorso in Cassazione. Tuttavia, nel giugno 2013 le Sezioni Unite gli hanno dato torto. La palla è tornata al TAR che ha dato nuovamente torto all’associazione. Che ha preannunciato l’impugnazione della sentenza davanti al Consiglio di Stato. Il governo, dal canto suo, ha presentato ricorso alla Corte Costituzionale contro la sentenza della Cassazione, ricorso accolto nel marzo 2016.

Nel novembre 2005 l’UAAR ha ulteriormente rilanciato: ha infatti provocatoriamente presentato domanda di riconoscimento alla Direzione centrale per gli affari dei culti.

Del resto, l’ateismo e la fede rappresentano risposte diverse agli stessi quesiti. Per quale ragione il primo dovrebbe avere meno diritti della seconda?

NUOVI ORIENTAMENTI, VECCHIE DISCRIMINAZIONI?

Negli ultimi anni la costante decadenza della Chiesa cattolica ha favorito non solo una crescita dell’ateismo e dell’indifferentismo, ma anche il proliferare di una serie di culti prima assenti sul territorio nazionale: fenomeni a cui si devono aggiungere le confessioni religiose giunte in Italia al seguito degli immigrati. Questa situazione non ha spinto il legislatore ad accentuare la laicità dello Stato: anzi, le Intese sottoscritte e ratificate con numerose confessioni religiose di minoranza dimostrano come alcune forze politiche vogliano procedere a tappe forzate verso uno Stato multiconfessionale.

È ovvio che in questo caso i diritti degli atei verrebbero ulteriormente scalfiti: se fino a qualche tempo fa i credenti acattolici pativano anch’essi delle discriminazioni, un domani costoro si troveranno nella stessa situazione privilegiata dei cattolici. E contro una coalizione fideista i margini di manovra diverrebbero ancora più stretti.

Ne è una riprova il progetto di legge 3947 (XIII legislatura) di iniziativa governativa sulla libertà di coscienza e di religione: sono ampiamente elencati i diritti e i doveri della varie confessioni, mentre vengono inizialmente dimenticati i diritti dei non credenti, ricompresi nella “libertà di coscienza” e/o di “credenza non religiosa”. Solo in sede di commissione è stato inserito il diritto di non avere alcuna religione, mentre si persevera nel non voler citare i diritti delle associazioni filosofiche non confessionali. Si rischia di tornare, insomma, alle “interpretazioni” degli anni Cinquanta.

Il Progetto di Legge non è comunque mai arrivato alla votazione finale; pertanto, nella XIV Legislatura, è stato ripresentato tale e quale col numero 1576 da 40 deputati, primo firmatario l’On. Valdo Spini (DS).

Il primo marzo 2002 il Progetto è stato fatto proprio dal Governo, con modifiche marginali (testo integrale del disegno di legge governativo). La relazione introduttiva, commentando l’articolo 2, esplicita per la prima volta i diritti degli atei e delle associazioni in cui si riuniscono. L’UAAR aveva in precedenza avviato una campagna di sensibilizzazione volta proprio a ottenere tale riconoscimento.

Il 22 ottobre 2002 una delegazione UAAR è stata ascoltata dalla commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati durante la discussione sul succitato Progetto di legge governativo (il memorandum presentato, in PDF).

Nel 2003, l’iter si è nuovamente bloccato a causa dei dissidî all’interno della maggioranza di centrodestra sull’eventuale concessione di privilegî alle organizzazioni islamiche.

Nell’autunno 2006 sono riprese le discussioni in commissioni. Nel gennaio 2007 è stata avviata anche una nuova indagine conoscitiva: è stata ascoltata anche una rappresentanza dell’UAAR. Una seconda audizione si è svolta il 16 luglio 2007: nel corso della stessa l’UAAR ha presentato un memorandum con le sue richieste.

Con l’avvio della XVI legislatura il progetto sembra essersi definitivamente arenato.

NORMATIVA INTERNAZIONALE

L’ateismo è generalmente accettato dalla giurisprudenza nella forma “surrogata” della libertà di pensiero, o di coscienza.

La Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (1950), mutuata dall’art. 18 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, all’articolo 9 recita:

  1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti.
  2. La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la pubblica sicurezza, la protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e della libertà altrui.

Il documento conclusivo della riunione di Vienna dei rappresentanti degli Stati partecipanti alla Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (1986-1989), all’articolo 16 recita:

Al fine di assicurare la libertà dell’individuo di professare e praticare una religione o una convin­zione, gli Stati partecipanti, fra l’altro, 1. adotteranno misure efficaci per impedire ed eliminare ogni discriminazione per motivi di reli­gione o convinzione nei confronti di individui o comunità per quanto riguarda il riconoscimento, l’esercizio e il godimento dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in tutti i settori della vita civile, politica, economica, sociale e culturale e assicureranno l’effettiva uguaglianza fra credenti e non credenti; 2. favoriranno un clima di reciproca tolleranza e rispetto fra credenti di comunità diverse nonché fra credenti e non credenti.

Il commento generale n. 22 (1993) dell’ufficio dell’Alto commissario ONU per i diritti umani ha sancito che l’articolo 18 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo «protegge le convinzioni non-teistiche e atee» e «include il diritto di sostituire la propria fede o convinzione con un’altra o di adottare punti di vista atei».

Sia nell’ambito del Trattato di Amsterdam, sia in quello dell’approvazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la Chiesa cattolica e quelle protestanti hanno richiesto uno specifico riconoscimento dell’importanza dei loro culti e del retaggio “religioso” europeo.

La dichiarazione numero 11 adottata in allegato al Trattato di Amsterdam (1997) garantisce che «l’Unione Europea rispetta e non pregiudica lo status previsto nelle legislazioni nazionali per le chiese e le associazioni o comunità religiose degli Stati membri. L’Unione Europea rispetta ugualmente lo status delle organizzazioni filosofiche e non confessionali»: in sostanza equipara le associazioni dei non credenti alle chiese. Questa formulazione è stata ripresa nell’articolo I-52 della Costituzione Europea.

L’articolo 10, comma 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (2000) recita: «ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti».

Il documento finale della Conferenza Consultiva Internazionale sull’educazione scolastica in relazione con la libertà di religione e credenza, tolleranza e non-discriminazione, organizzata a Madrid dall’ONU nel novembre 2001, precisa che il documento è stato redatto «con l’intesa che la libertà di religione o credenza include convinzioni teiste, non teiste e atee, così come il diritto di non professare alcun credo o religione».

PERCORSI DI APPROFONDIMENTO

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