Ricorso straordinario al Capo dello Stato

Ricorso straordinario al Capo dello Stato

della

Unione degli atei e degli agnostici razionalisti (UAAR),
in persona del segretario Romano Oss,
domiciliato ai fini del presente atto a
38100 Trento, in via dei Mille 28,

contro:

  • Governo della Repubblica italiana, in per­sona del Presidente del Consiglio dei ministri pro-tempore,

e nei confronti di:

  • Tavola valdese,
  • Unione italiana delle Chiese cristiane avventiste del settimo giorno,
  • Assemblee di Dio in Italia,
  • Unione delle Comunità Ebraiche italia­ne,
  • Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia,
  • Chiesa Evangelica Luterana in Italia

per l’annullamento

del rigetto dell’istanza di intesa ai sensi dell’art. 8 III Cost., espresso dal Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri con atto protocollato DAGL 1/2.5/4430/23 e comunicato al­l’UAAR con lettera datata 20 febbraio 1996.

FATTO

L’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti (UAAR) è un’associazione che si è costituita di fatto nel 1987 e legalmente, come associazione non riconosciu­ta ai sensi degli artt. 36 ss. c.c., con atto notarile del 13 marzo 1991. Essa è l’unica associazione italiana di atei ed agnostici e si propone i seguenti scopi generali (art. 2 dello Statuto):

  1. promozione della conoscenza delle teorie atee e agnostiche e di ogni visione razionale del mondo, dell’uomo e della sua vita;
  2. sostegno alle istanze pluralistiche nella divulgazione delle diverse concezioni del mondo e nel confronto fra di esse, op­ponendosi all’intolleranza, alla discriminazione e alla prevaricazione;
  3. riaffermazione, nella concreta situazione italiana, della completa laicità dello Stato lottando contro le discriminazioni giuridiche e di fatto, aperte e subdole, contro atei ed agnostici, pretendendo l’a­bo­lizione di ogni privilegio accordato alla religione cattolica nella società e nella scuola in particolare, promuovendo la stessa abrogazione del­­l’art. 7 della Costituzione che fa propri i patti lateranensi fra Stato italiano e Vaticano.

Nel 1994 l’UAAR ha deliberato la partecipazione dell’Unione, quale membro as­sociato, alla International Humanist & Ethical Union (IHEU), un’or­ga­niz­za­zio­ne internazionale, con sede in Olanda, che ha quasi cento associazioni affiliate e rappresenta circa cinque milioni di persone che trovano il senso e il valore della vita senza concepire Dio. L’u­­manismo è definito dalla IHEU come visione non teistica, etica e democratica, che afferma che gli esseri umani hanno il diritto e la responsabilità di dare senso e forma alla propria esistenza: esso respinge concezioni soprannaturali della realtà. L’o­biet­ti­vo primario del movimento umanista non è di attaccare le religioni, ma di crea­re una positiva alternativa al teismo. La IHEU è ufficialmente riconosciuta presso le organizzazioni internazionali, ad esempio l’ONU, come rappresentante degli uma­nisti non teisti operanti in tutto il mondo.

L’UAAR ha presentato più volte l’i­stan­za di iniziare le trattative con lo Stato per addivenire ad intesa ai sensi del­l’art. 8 Cost. L’ultima richiesta, indirizzata alla Presidenza del Consiglio dei ministri con lettera del 7 novembre 1995, ha ottenuto in risposta un diniego esplicito, protocollato DAGL 1/2.5/4430/23 e comunicato al­l’UAAR con lettera datata 20 febbraio 1996.

L’UAAR ritiene che tale diniego sia illegittimo e leda quindi l’interesse legittimo, di cui si ritiene titolare, all’intesa e, prima ancora, alle stesse trattative.

Il diniego è così motivato:

    «La citata norma costituzionale [art. 8], interpretata anche in raccordo con altri principî costituzionali, intende favorire ed agevolare l’esercizio del diritto collettivo di libertà religiosa che consiste, tra l’altro, nel professare la propria fede religiosa, esercitarne il culto, organizzarsi in confessioni secondo statuti che non contrastino con l’ordinamento giuridico. A ta­le scopo, l’articolo 8, III com­ma, esten­de il principio della bilateralità che presiede ai rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica (art. 7 Cost.) alle confessioni non cattoliche.

    Ne discende che il chiaro riferimento al­l’e­guale libertà delle confessioni religiose, nonché la previsione dell’istituto delle intese per le confessioni diverse dalla cattolica, escludono che la disposizione co­stituzionale possa essere applicata ad altre associazioni che non abbiano natura re­ligiosa e confessionale.

    Si ritiene pertanto, sentiti anche i competenti Uffici del Ministero del­l’In­ter­no, che codesta Unione non presenti i requisi­ti richiesti dall’articolo 8 per la conclusio­ne dell’intesa con lo Stato italiano».

DIRITTO

Ciò premesso, il sottoscritto Romano Oss, rappresentante dell’UAAR ai sensi del­l’art. 5 dello Statuto del­l’As­so­cia­zio­­ne, autorizzato con delibera del Comitato di coordinamento del 26 maggio 1996, impugna per i seguenti motivi:

  1. Incompetenza ai sensi dell’art. 2 c. III lett. l della l. 400/1988:
  2. l’art. 2 c. III lett. l della l. 400/1988 pre­scrive che siano «sottoposti alla deliberazione del Consiglio dei ministri gli atti concernenti i rapporti di cui al­l’art. 8 c. III Cost.». Dalla risposta pervenuta al­l’UAAR, sottoscritta dal Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, non risulta che esista una corrispondente deliberazione del Consiglio dei ministri. È vero che i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri (d.p.c.m. 28 marzo 1985, 8 gennaio 1987, 19 marzo 1992, 4 settembre 1992) che procedimentalizzano le trattative per l’intesa riservano compiti preparatori al Sottosegretario di Sta­to alla Presidenza, tuttavia l’atto di ri­sposta alla istanza del­l’UAAR è un diniego che pone fine al pro­cedimento. In quatto atto decisorio con­clusivo, anche di fronte a disposizioni regolamentari diverse, la norma del­l’art. 2 c. III lett. l della l. 400/1988 prescrive una disposizione collegiale.

  3. Eccesso di potere per travisamento di fatti:
  4. sono stati inoltrati insieme con la richiesta di intesa anche lo Statuto del­l’U­nione ed i documenti congressuali. Dal­la motivazione del rigetto appare evidente come sia mancata la lettura dello Statuto o ne sia stato del tutto non compreso il contenuto e lo spirito. Infat­ti si nega carattere di confessione religiosa e finanche di associazione religiosa alla ricorrente, il cui Statuto evidenzia all’art. 2 gli scopi socia­li che si svolgono esclusivamente in materia religiosa. Non solo: anche l’a­de­sio­ne al­l’as­sociazione avviene sulla base di una precisa scelta religiosa di segno ne­gativo e caratterizzata ulteriormente da una positiva adesione al razionalismo (art. 3 dello Statuto).

    Nelle tesi congressuali, approvate dal Congresso di Venezia del 6 dicembre 1992, si legge: «Dal momento che si colloca sul piano delle scelte filosofiche, delle concezioni del mondo, degli atteggiamenti nei confronti delle domande più generali sull’essere, sulla vita, sul loro significato, l’UAAR è “in un certo sen­so” omologa alle associazioni, più o meno informali (mentre la nostra è formalizzata da un’adesione esplicita), che riuniscono coloro che han­no fatto le comuni scelte filosofiche di carattere religioso, teista, spiritualista. Per essere più espliciti può essere omologata alla chiesa cattolica, al­l’U­nio­ne delle comunità israelitiche, alle co­munità induiste, ecc. Omologia non significa affinità, tuttavia è fondamentale ribadire questa omologia fra scelte filosofiche, essendo solitamente negata o travisata».

    Proprio da questo travisamento è viziato l’at­to di diniego; in aggiunta, è stato disconosciuta la qualificazione non solo di confessione religiosa, ma anche quel­­la di associazione religiosa: ma un’u­­nione di atei non è né una società sportiva né un partito politico né può essere qualcosa di diverso da una associazione con fine di religione, la qual cosa è ampiamente riconosciuta dalla dot­trina (v. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, Bologna 1995, p. 240).

    La qualità oggettiva di associazione religiosa di ogni gruppo di ateismo militante è rafforzata dal­l’auto­in­ter­pre­ta­zio­ne effettuata dai soci all’interno della loro libertà di associazione: e l’UAAR, come si è detto, si interpreta come religione. Conformemente al principio pluralistico che informa la Costituzione (artt. 2, 5, 18, 20), lo Stato non può sovrapporre una sua valutazione a quelle liberamente effettuate dai cittadini nei limiti del­l’or­di­na­mento. Ciò è stato riconosciuto anche in sede dottrinale, dove si è sostenuto che «non rileva la convinzione più o meno corrente al­l’e­ster­no della confessione - nella società - che si tratti di una confessione, ma è necessario e sufficiente che gli stessi so­ci considerino la loro as­sociazione o almeno vogliano vederla considerata, an­che solo a determinati fini o per conseguire vantaggi legislativamen­te previ­sti, come confessione. Nel mo­dello plu­ralistico si passa da una concezione ontologica delle formazioni sociali ad una concezione funzionale […] fun­zionalità, che, contro ogni forma di giurisdizionalismo, si misura in base non a criteri estrinseci, per giunta privi di base normativa, ma all’elemento soggettivo della consapevolezza e della volontà dei consociati di agire come formazione autonoma nel perseguimento di uno scopo religioso. Il criterio di autoreferenziazione delle confessioni religiose è l’u­ni­co adeguato all’ampia formulazione del­l’art. 8 Cost., come è confermato dal­l’in­te­sa con le Comunità Ebraiche che si è potuta stipulare solo in quanto queste hanno deciso di autoqualificarsi al­l’uo­po, al solo fine cioè dell’intesa, co­me con­fessione» (Colaianni, Confessioni religiose e intese. Contributo al­l’in­ter­pretazione dell’art. 8 della Costituzione, Bari 1990, p. 82).

  5. Violazione dell’art. 3l. 241/1990 per omessa motivazione e, comunque, eccesso di potere per motivazione incongrua:
  6. l’atto di diniego non motiva il perché l’Unione degli atei e agnostici razionalisti non sia una confessione religiosa, limitandosi ad una affermazione apodittica e riducendosi così ad una tautologia tanto più grave in quanto non sono stati resi noti gli atti e i documenti del procedimento, fra cui, a quanto consta, i pareri degli uffici competenti: tali atti sono stati ritualmente richiesti, ai sensi degli artt. 22 ss. l. 241/1990, alla Presidenza del Con­siglio dei ministri che non ha risposto né nel termine di legge né successivamente. Ciò ha impedito di evidenziare nel presente ricorso anche altri eventuali profili dell’eccesso di potere.

    D’altro lato, a fronte delle rappresentazioni dell’istante, il diniego esposto mo­stra di assumere parametri di giudizio non ragionati.

  7. Violazione degli art. 3 c. I e 18 Cost.:
  8. rifiutare ad un’associazione di ateismo militante il riconoscimento della sua specifica identità, negandole ogni assimilabilità a una confessione religiosa ex art. 8 Cost. equivale ad un disconoscimento della causa associativa del­l’as­sociazione e si traduce in una violazione del diritto di associarsi liberamente. Infatti una associazione di ateismo attivo in tanto ha ragione di esistere in quanto possa proporsi di rappresentare un’opinione in materia di religione concorrente con quella delle religioni «positive».

  9. Violazione degli artt. 3 c. I e 8 c. I Cost. per disparità di trattamento:
    1. L’ateismo attivo è sempre una ricerca o un’indagine su Dio che approda ad una risposta negativa, laddove le religioni positive propongono invece una so­­luzione affermativa. «Caratteristica comune ad ogni forma di ateismo è di negare l’esistenza di entità trascendenti il mondo visibile e razionale, e di edificare una concezione della vita che muove da questa convinzione; caratteristica costante di ogni forma di religione è quella opposta di credere nel­l’e­si­sten­za di entità esterne all’esperienza sensoriale e di muo­vere da simile prospettiva per l’e­la­bo­razione di una dogmatica e di una morale ad essa adeguate. Le convinzioni sono opposte ma vertono sul medesimo og­getto: le manifestazioni esterne, sociali, individuali, delle differenti prospettive sono in continuo, costante rapporto. E come sarebbe arbitrario separare la disciplina di una confessione religiosa da quella di un’altra, valutandole ciascuna per suo conto, perché ratione materiae l’oggetto delle due regole è il medesimo, cosi è arbitrario scindere l’ateismo dalla religione proprio nel momento normativo […] Ateismo e religione sono fazioni opposte che si contendono la medesima porzione di coscienza» (C. Cardia, Ateismo e libertà religiosa, Bari 1973, p. 30).
    2. Oltre a questo, l’ateismo non potrebbe nemmeno essere distinto dalla religione per un altro motivo: infatti la soglia di distinzione tra religione e non religione è mobile e dipende dalla definizione adottata. Di fronte a religioni con contenuto dogmatico pressoché nullo o a correnti di teologia negativa che proclamano l’as­senza o l’estraneità di Dio dal mondo ovvero la sua assoluta inconoscibilità op­pure rispetto alle religioni come il bud­dhismo, che non ammettono l’e­si­sten­za di un essere supremo trascendente e si risolvono in una tecnica di meditazione, risulta estremamente ardua una distinzione con l’a­te­ismo moderno, la cui ca­ratteristica prin­cipale è la non riducibilità al mero momento negatorio, dacché esso si esprime in una positiva visione del­­l’uo­mo, della sua vita e del suo mondo (per queste considerazioni v. C. Cardia, Ateismo, cit., p. 82).
    3. Del resto, come già hanno rilevato alcuni autori non spetta allo Stato laico (Corte cost. sentenza n. 203/1989) di trac­­ciare la linea di demarcazione tra religione e non religione (Bellini, I rapporti tra Stato e confessioni religiose diverse dalla cattolica, in Il pluralismo confessionale nel­l’at­tuazione della Costituzione, Napoli 1986, p. 87: «lo Stato non ha titoli a esprimere giudizi autoritari in merito ai convincimenti spirituali dei componenti della civitas. Non ne ha la competenza»; Colaianni, Confessioni, cit., che parla di incompetenza dello Stato laico nel definire che cosa è e che cosa non è religione).

    4. Appunto l’inscindibilità di pars destruens e pars construens nella visione atei­stica del mondo rende indistinguibile l’ateismo dalla religione: «L’ateismo odierno, non solo rifiuto, ma anche fondamento e punto di partenza per una concezione dell’uomo e della vita sostanzialmente positiva, costituisce l’as­se portante di una scala di valori nei quali la persona si riconosce e sui quali edifica la propria esistenza e la propria morale. […] Viene meno ogni concezione meramente antireligiosa, alla quale si oppone una visione comportamentale che aspira a porsi in alternativa a quella fideistica. L’a­te­i­smo odierno diventa co­­scienza critica del­la religione e coscienza positiva e costrut­tiva del­l’uo­mo; la negazione del carattere trascendente assume un carattere quasi incidentale e costituisce un punto di partenza per una rinnovata edificazione di valori» (C. Car­dia, Ateismo, cit., p. 92). Questo carattere positivo e costruttivo della Weltanschauung ateistica è particolarmente evidente nelle convinzioni so­stenute istituzionalmente dal­l’UAAR, che promuove una visione del­­l’uomo e del mondo fondata sul razionalismo. Tale a­spetto risulta ancora rafforzato dal­l’a­de­sione espressa dal­l’UAAR al­l’IHEU e quindi al­l’u­ma­nis­mo.
    5. Un’associazione di ateismo militante si muove dunque sotto la tutela che l’art. 19 assicura alla professione di una fede anche in forma associata (Lariccia, Coscienza e libertà, Bologna 1989, p. 103; Finocchiaro, Diritto eccl., cit. p. 240).

      L’associazione UAAR va poi considerata confessione religiosa ai sensi del­l’art. 8 c. III Cost. Noto che non esiste un criterio discretivo comunemente accettato per distinguere l’associazione re­ligiosa dalla confessione religiosa. Tutti quelli che sono stati proposti in dot­trina non sono in grado di sottrarsi a controesempi: la presenza di culti o riti non è un requisito necessario, altrimenti rimarrebbero escluse le comunità buddhiste, che rap­presentano una religione “storica”, e conseguentemente è stata con­siderata circostanza (così il parere del C.d.S. 2158/1989, favorevole al riconoscimento di personalità giuridica al­l’U­nio­ne buddhista italiana); la professione di una originaria concezione del mondo che postula l’esistenza di un Essere supremo parimenti non è un buon criterio, perché lascerebbe fuori religioni orientali antichissime come buddhismo e confucianesimo che non co­noscono alcun Dio; il requisito del­l’or­ganizzazione è troppo generico, per­ché ogni società per il fatto stesso di essere tale ha un’or­ga­niz­za­zio­ne per quanto minima; il riconoscimento nel­l’o­­pinione pubblica o il numero di aderenti parimenti non sono requisiti distintivi accettabili perché avrebbero l’ef­­fetto di limitare in modo ingiustificato il diffondersi di religioni non ancora conosciute nel Paese.

      Per l’assoluta inadeguatezza dei criteri distintivi proposti hanno particolare pregio le correnti dottrinali che propongono o di abbandonare la distinzione (La­ric­cia, Diritto ecclesiastico, Padova 1986, p. 104: «Nella categoria delle formazioni con finalità religiosa, in particolare, è difficile individuare una concreta distinzione tra “associazioni” e “con­fessioni re­ligiose”, in quanto non ricorre, una differenza riguardo alla strut­tura, ai caratteri ed alla natura delle due formazioni sociali con finalità di cul­to. […] A mio avviso, non sussiste invece una diversità strutturale e di carattere “qualitativo” tra confessioni e associazioni di culto, in quanto non si comprende quale criterio valga a conferire significato giuridico al­l’af­fermata distinzione») ovvero di utilizzare il criterio dell’au­to­re­fe­ren­zia­zio­ne» (Co­la­ian­ni, Confessioni, cit., p. 82).

      Qualora si accedesse a questi indirizzi dottrinali risulterebbe chiaro, per quanto già detto, che l’UAAR possa essere definita come confessione religiosa.

  10. se, come oggi afferma la Corte costituzionale, l’ateismo è protetto dall’art. 19 Cost., quindi nell’ambito della libertà di religione, e non solo all’interno del­l’art. 21 Cost., quale libera espressione di pensiero (Corte cost., sentenza n. 117/1979), il negare all’ateismo attivo ogni assimilabilità al fenomeno della con­fessione religiosa equivale a restringere pregiudizialmente il raggio di tutela accordato dall’art. 8 c. III, con conseguenti disparità di trattamento nei confronti di fenomeni in ultima analisi non differenziati. Valga a sostegno quanto segue:

    Ma anche sostenendo la distinguibilità tra associazioni religiose e confessioni l’UAAR va inclusa anche nella seconda categoria: non si vuole qui proporre un criterio di distinzione alternativo e universalmente valido (anche se quello for­se più accettato, ossia la professione di una propria originaria concezione del mondo, condurrebbe comunque al­l’in­clu­sione dell’UAAR tra le confessioni re­ligiose), bensì affermare che ragioni di ordine costituzionale impongono di trat­tare l’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti come una confessione religiosa. Infatti il principio di pari dignità sociale e di uguaglianza di tutti i cittadini senza riguardo alla religione (e quindi anche all’ateismo) del­l’art. 3 c. I Cost., nonché la libertà di religione protetta dal­l’art. 19 Cost. e quella di pensiero garantita dall’art. 21 Cost., impongono che le varie opzioni in materia religiosa siano trattate in modo indifferente nel­l’or­di­na­men­to. Il sistema di intese, quale regime privilegiato, attribuisce alle confessioni religiose stipulanti vantaggi non sol­tanto morali, ma anche concreti, che le pongono in posizione di forza rispetto agli atei: poiché ogni propaganda religiosa è necessariamente antiateistica, come la propaganda ateistica è antireligiosa, con le intese sono state attribuite alle confessioni stipulanti mezzi anche ingenti di condizionamento antiateistico. È sufficiente pensare ai vantaggi di tipo patrimoniale (attribuzione dell’otto per mille del gettito IRPEF, deducibilità del­le erogazione liberali dei fedeli fino a due milioni di lire) e non patrimoniali (ac­cesso al servizio radiotelevisivo pubblico e riserva di frequenze; insegnamento dottrinale su richiesta nelle scuo­le pubbliche) per cogliere quanto que­sti strumenti possano essere discriminatori nei confronti degli atei, qualora non fossero messi a disposizioni anche delle associazioni di atei. Le stesse libertà di religione e di pensiero risulterebbero in caso contrario minacciate, perché la libera formazione della coscienza in materia religiosa sarebbe inibita da uno squilibrio di forze tra chiese ed atei indotto da un sistema di intese «chiuso». Va anche sottolineato in primo luogo, come insegna la Corte costituzionale, che la libertà di coscienza - specie se correlata al­l’e­spres­sione dei pro­pri convincimenti morali o filosofici (art. 21 Cost.) ovvero alla propria fede o credenza religiosa (art. 19) - dev’es­se­re protetta in misura proporzionata al­la priorità assoluta e al carattere fondante ad essa riconosciuta nella scala dei valori espressa dalla Costituzione italiana (Corte cost. sentenza n. 149/1995); e in secondo luogo che la libertà di coscienza va garantita anche nel momento formativo della coscienza e quin­di, con riguardo alla religione, nel momento formativo del sentimento religioso (Bellini, «Libertà dell’uomo e fattore religioso nei sistemi ideologici con­temporanei», in Teoria e prassi delle libertà di religione, Bologna 1975, p. 133).

    Poco vale l’obiezione che le intese non so­no lo strumento costituzionale idoneo a comporre una discriminazione: infatti, per come esse sono venute delineandosi nel diritto vivente, le intese rappresentano un mezzo di affermazione per le confessioni che le hanno concluse. L’u­nico strumento (non apparendo realisticamente prospettabili soluzioni diverse) idoneo alla rimozione di un privilegio che non può avere alcuna giustificazione costituzionale (sul­l’in­co­sti­tu­zio­nalità della situazione che è venuta creandosi, cfr. Long, Le confessioni religiose «diverse dalla cattolica», Bologna 1991, cit., p. 272: l’unica giustificazione è la transitorietà dell’attuale regime) è aprire il sistema di intesa a tutti i gruppi religiosi che lo richiedono, qua­­lora, naturalmente, non vi siano impedimenti costituzionali (ad esempio la contrarietà degli statuti all’ordinamento giuridico italiano), che nel caso in esame non sono ravvisabili.

    Le conclusioni raggiunte sono confortate dalla presenza in Costituzione del principio supremo di laicità dello Stato (Corte cost. 203/1989), che impone un atteggiamento non indifferente ma neutrale e imparziale dello Stato nei confronti delle varie confessioni, in modo da arrivare non ad un regime pluriconfessionalista, bensì di «pluralismo confessionale e culturale».

    Il diniego alla richiesta di intesa presentata dall’UAAR costituisce una disparità di trattamento dell’associazione ricorrente nei confronti delle altre confes­sioni religiose, impedendo che l’UAAR sia ammessa ai benefici che derivano dalla stipulazione di un’intesa: tale disparità, per i motivi visti, non può giustificarsi sul fondamento di una diversità di natura tra confessioni religiose stipulanti e UAAR, dal momento che la differente opinione circa l’e­si­sten­za di Dio non può essere as­sunta a base di una discriminazione senza violazione degli art. 3 c. I, 19 e 21 Cost.

    Se esiste un favor religionis nel­l’or­di­na­mento costituzionale, esso va inteso come tutela costituzionale del­l’im­pe­gno del singolo nei confronti delle scelte religiose, indipendentemente dal segno positivo o negativo che esse assumono e tale favor non può quindi legittimare alcuna considerazione del­l’a­te­i­smo come disvalore (Bellini, Libertà del­­l’uomo, cit. p. 131, che parla di «pre­­gio in sé e per sé del cimento perso­nale, indipendentemente dalla circostanza che le singole scelte personali ap­­prodino all’uno o al­l’al­tro risultato, e indipendentemente dal­la intensità di dif­fusione nell’ambito comunitario del­l’uno o dell’altro tipo di opzione spirituale», e ricomprende tra le varie opzioni religiose anche l’ateismo).

    Né è accettabile ragione del rifiuto del­l’in­­tesa un’apparente inutilità della stes­­sa al fine del soddisfacimento del bi­­sogno religioso dell’ateo, ritenuto ine­sistente: a parte il fatto che esso si manifesta nella critica alle religioni, con­fronto che come si è detto deve poter avvenire in regime di par condicio e l’in­tesa è attualmente l’unico mezzo che possa appunto garantire tale parità, tale bisogno religioso ha pure delle manifestazioni positive e richiede anch’esso la predisposizione di strumen­ti che trovano la tipica sede nel­l’in­te­sa: è sufficiente pensare al «conforto umanistico» (humanist counselling) negli ospedali o nelle carceri che è un istituto ben noto in altri ordinamenti, come quello belga e quello olandese.

  11. Eccesso di potere per sviamento:
  12. ciò emerge dal fatto che il potere di addivenire all’intesa con ogni singola con­fessione, costituzionalmente conferi­to in relazione al diritto di libertà religiosa, è stato utilizzato nella specie al fine di negare l’interesse legittimo della ricorrente.

    Inerisce a quanto detto che il diniego qui impugnato attiene all’esercizio di un potere amministrativo, dal quale è assente ogni profilo di discrezionalità politica.

Contro eventuali eccezioni di inammissibilità del ricorso, va insistito sul punto che il diniego qui impugnato costituisce un atto amministrativo, essendo da escludere ogni configurabilità come atto politico. Se invero non mancano affermazioni nel senso qui negato, tuttavia al­l’at­to pratico il novero degli atti politici ai sensi dell’art. 31 t.u. C.d.S. si riduce a quegli atti di governo che esternano una volontà di indirizzo così generale da non essere idonea ad incidere su singole situazioni giuridiche soggettive. In presenza di un interesse giuridicamente protetto non può aversi atto politico.

Non è casuale che nella giurisprudenza del Consiglio di Stato figuri una casistica soltanto negativa degli atti politici.

La considerazione degli atti relativi alle intese come atti politici appare poi un errore di prospettiva. Si è detto infatti che la deliberazione delle intese è un atto politico in quanto le intese sono dirette all’emanazione di una legge (Fi­noc­chia­ro, Diritto eccl., cit., p. 148) e non si dubita del fatto che la iniziativa legislativa costituisca un esempio di atto politico come atto di governo. Ma oc­corre innanzitutto notare che l’intesa è una fase preliminare del procedimento legislativo e in esso può essere compresa come fase aggiuntiva e non sostitutiva, caratterizzata da una specificità di funzione. Essa non sostituisce dunque lo stesso atto di iniziativa legislativa, «non potendosi pensare che una vol­ta concluso l’accordo sia, con ciò stesso, investito il Parlamento del relativo disegno di legge» (così Landolfi, L’intesa tra Stato e culto acattolico. Con­tributo alla teoria delle “fon­ti” del diritto ecclesiastico italiano, Napo­li 1965, p. 56). E quindi un atto è l’in­te­sa, un altro, distinto atto è l’iniziativa le­gislativa del Governo. Isolatamente con­siderata, l’intesa accede alla tutela del diritto di libertà religiosa, come forma di partecipazione della confessione.

Se poi si analizza il nesso tra l’accordo concluso e l’iniziativa legislativa susseguente, si possono dare due configurazioni: o l’intesa è un (autonomo) presupposto esterno, mera condizione di validità della legge; e allora il legame con l’i­ni­ziativa legislativa è estrinseco, rimanendo l’accordo fuori dal procedimento legislativo: oppure, se si considera l’in­te­sa come nesso necessitante del­l’ini­zia­ti­va legislativa, che risulta quindi obbligatoria e vincolata (tale è la ricostruzione di Landolfi, cit., p. 66), non è possibile nemmeno in questo caso far reagire il ca­rattere politico del­l’i­ni­ziativa legislativa sul precedente atto d’in­tesa. Infatti, in questo particolarissimo caso di iniziativa vincolata, mancherebbero proprio i caratteri principali che fanno della iniziativa legislativa un atto politico: vale a dire la libertà nella determinazione di investire o meno le Camere del disegno di legge e la libertà di determinarne il contenuto; sarebbe piut­tosto l’iniziativa legislativa a perdere la connotazione di atto politico in relazione al carattere dell’intesa cui dà seguito.

Non solo, ma nel procedimento di approvazione della legge che recepisce l’in­te­sa si ritiene comunemente l’in­am­mis­si­bi­lità degli emendamenti sostanzia­li (v. Manzella, Il Parlamento, Bologna 1991, p. 287; Long, Le confessioni, cit.): manca dunque, nelle stesse Camere, quel potere politico di scelta e di con­formazione degli interessi, dal momento che la Costituzione riserva la disciplina del­l’in­te­res­se religioso delle confessioni ad accor­di bilaterali. Sarebbe invero strano che proprio laddove manca il potere politico del Parlamento ci fosse un’assoluta discrezionalità del­l’E­secutivo.

Inoltre, prima del recente riordino delle com­petenze in ordine alle trattative e alla stipulazione delle intese (d.p.c.m. 12 mar­zo 1985 e l. 400/1988) si riteneva che la materia rientrasse nella competenza del Ministro per l’Interno e dunque di un organo non in grado di esprimersi con atti politici.

Parte della dottrina è stata forse indotta a ravvisare nei provvedimenti relativi alle intese degli atti politici per la prassi dell’Amministrazione che, per lungo tempo, fino alla revisione del Concorda­to con la Chiesa cattolica, ha assunto un atteggiamento inerte e dilatorio, senza rispondere con atti alle istanze presentate dalle varie confessioni. L’in­suf­fi­cienza dei rimedi predisposti dal sistema italiano di giustizia amministrativa dal punto di vista della soddisfazione concreta del­l’interesse dei soggetti nel caso di silenzio della p.a. è stata probabilmente un’altra ragione che ha indotto a scambiare quello che è un difetto di tutela di fatto con una giuridica impossibilità di difesa. Nel caso in esame, di fronte ad un atto esplicito dell’Am­mi­ni­stra­zione, è possibile, nei limiti del sindacato di legittimità, il controllo del­l’a­zio­ne amministrativa e l’annullamento del­l’atto viziato, mentre risulterebbe inne­gabilmente più difficile un controllo sul­­l’i­ner­zia della p. a.

Peraltro la stessa dottrina che considera atto politico la decisione del Governo re­lativa all’intesa pare cosciente dei gravissimi inconvenienti che ne deriverebbero in termini di disparità di condizioni, al punto che ne risultano «in­ne­ga­bili problemi di costituzionalità» (così Long, cit., p. 267; analogamen­te Casuscelli, «L’in­­tesa con la Tavola valdese», in Concordato e costituzione. Gli accordi del 1984 tra Italia e San­ta Sede, a cura di S. Ferrari, Bologna 1985, p. 218). Ma se la decisione di stipulare un’intesa ai sensi dell’art. 8 c. III fosse assolutamente libera, si giungerebbe a conseguenze paradossali, oltre che inconvenienti: per esempio, un diniego espresso alla richiesta avanzata da una confessione, motivato esplicitamente con la ragione di voler ridurre l’influenza di quella confessione per ragioni politiche, non sarebbe censurabile in alcuna sede. Ma il dovere costituzionale di imparzialità della p. a., anche nei suoi vertici, e soprattutto il principio fondamentale di uguaglianza, ribadito nel­l’art. 8 c. I riguardo alle confessioni religiose, pongono i limiti entro cui si esercita la discrezionalità amministrativa.

Non si tratta dunque tanto di stabilire a priori se l’atto del Governo relativo al­l’in­­tesa sia un atto politico, ma di vedere piuttosto se esista o meno un interesse alla stipulazione di un’intesa o, quan­to me­­no, alla trattativa per addivenire ad intesa; e se questo interesse sia qualificato, in modo da differenziarsi dai meri interessi di fatto.

La presenza di un tale interesse, a fronte degli art. 3 c. I e 8 c. I Cost. è indubitabile.

L’art. 3 c. I, che vieta le distinzioni in bas­e alla religione, anche se non si applica direttamente alle formazioni sociali, è rilevante non solo come principio generale dell’ordinamento costituzionale, ma soprattutto perché le discriminazioni tra gruppi si traducono mediatamente in discriminazione dei cittadini ad essi appartenenti (Corte cost. sentenze n. 25/1966 e 2/1969).

L’art. 8 c. I non si limita a vietare soltanto le discriminazioni negative; peraltro non si deve dimenticare che l’at­tri­bu­zio­ne di un privilegio ad un gruppo si traduce in una discriminazione negativa per i gruppi concorrenti, e le religioni, non necessariamente invero, ma comunemente, per la loro impostazione dogmatica della verità sono in concorrenza tra di loro. La dottrina ha ormai definitivamente chiarito che nel binomio «uguale libertà» del­l’art. 8 c. I Cost. l’accento cade sul­l’ag­get­tivo quanto sul sostantivo e che il prin­­cipio negativo non va limitato al profilo negativo della libertà, ma va esteso agli aspetti positivi e promozionali; si è parlato di un «vero e proprio cambiamen­­to di prospettiva teorica» basato sul ruolo più ampio e generale del principio di uguaglianza contenuto nell’art. 3 Cost. (v. Floris, «L’uguale libertà delle con­fessioni religiose», in Riv. trim. di d. pubbl., 1981, p. 14). «Se è vero tuttavia che l’art. 8, I comma, fa riferimento ad un’u­guale libertà e non ad una eguaglian­za, è altrettanto vero che considerando i diritti di libertà non solo nel contenuto negativo (libertà da), ma anche nel loro contenuto positivo, che attiene cioè al profilo della concreta fruibilità dei diritti stessi (nell’ottica del secondo comma dell’art. 3 della Cost.), non potrebbe ritenersi sufficiente a soddisfare il principio della eguale libertà una disciplina legislativa che trattasse ugualmente le confessioni religiose solo sotto il profilo delle libertà “ne­ga­ti­ve”, ma le differenziasse sotto il profilo delle garanzie concrete di fruizione dei diritti» (così Lariccia, La libertà delle confessioni religiose diverse dalla cattolica, in Il pluralismo, cit., p. 51, che rimanda a Onida).

Anche la Corte costituzionale ha recentemente aderito a questa interpretazione, quando ha giudicato l’illegittimità costituzionale dell’attribuzione di contributi per la costruzione di edifici di culto a favore di alcune soltanto delle confessioni religiose e non ad altre, con una conseguente discriminazione irragionevole, sul­la violazione dell’art. 8 c. I Cost. (v. Corte cost. 43/1993; sulla parità nella tutela penale delle religioni, sentenza n. 440/1995).

Una volta inaugurata la «stagione delle intese» il principio di uguaglianza e quello di eguale libertà di tutte le confessioni religiose (artt. 3 e 8 c. I Cost.) impongono che siano trattate in modo analogo alle confessioni che hanno già ottenuto un’intesa quelle che l’hanno richiesta: occorre cioè che il Governo concluda gli accordi, in assenza dei possibili impedimenti costituzionali (es. statuto della confessione in contrasto con l’ordinamento giuridico italiano), o quantomeno avvii le trattative con chi ha richiesto l’intesa. E infatti, analizzando gli accordi intervenuti con le sei confessioni addivenute ad intesa (Ta­vo­la Valdese, Assemblee di Dio in Italia, Unione delle Chiese Avventiste del Settimo Giorno, Unione delle Comunità Ebraiche italiane, Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia, Chiesa Evangelica Luterana in Italia), è possibile riscontrare, al di là delle differenze specifiche, alcune linee comuni, segno che anche il Governo ha ritenuto di con­cedere (salvo, ancora, il caso della Chiesa cattolica), a tutti lo stesso, con i temperamenti dipendenti dalle esigenze e specificità di ciascuna confessione; al punto che la Tavola Valdese, inizialmen­te esclusa, per sua volontà, da qualsiasi contributo finanziario da parte dello Stato, ha avuto un ripensamento, di fronte alle successive intese con le altre confessioni nominate, ed è ora ammessa alla quota del­l’ot­to per mille.

È chiaro che le intese non debbono essere identiche per tutte le confessioni e che esse possono presentare profili diversi conformemente alle peculiarità di ciascuna religione; ed è altrettanto chiaro che le intese non possono diventare uno strumento di discriminazione o di privilegio di una religione nei confronti delle altre.

Esiste dunque un interesse legittimo alla stipulazione di un’intesa di cui è titolare ciascuna confessione religiosa. Di fronte a tale interesse non può esistere un’assoluta discrezionalità del­l’e­se­cu­ti­vo nel decidere sull’opportunità, o meno, di stipulare l’intesa con una determinata confessione: dal momento che «si de­graderebbe l’interesse della confes­sione ad un interesse, o aspettativa, di mero fatto» (C. Cardia, Stato e confes­sioni religiose, Bologna 1992, p. 40 x).

L’UAAR, in quanto confessione religiosa ai sensi dell’art. 8 c. III Cost., risulta titolare di tale interesse, e l’atto che lo lede non può in conseguenza con­siderarsi atto politico.

In considerazione di tutti i suesposti motivi, la ricorrente Unione degli atei e degli agnostici razionalisti

chiede

che il Sig. Presidente della Repubblica, presa cognizione dell’atto qui impugnato e degli atti su cui esso si fonda, voglia procedere all’annullamento del­l’at­to del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, n. DAGL 1/2.5/4430/23, del 20 febbraio 1996, che respinge l’istanza di intesa ai sensi del­l’art. 8 c. III Cost., presentata dalla ricor­rente.

Trento, 30 maggio 1996.
(Romano Oss)

Si allegano i seguenti documenti:

  • Copia dell’atto impugnato.
  • Copia dell’opuscolo «TESI», contenen­te anche, a pagina 23, lo Statuto del­l’UAAR già inviato con l’istanza di trattative finalizzate all’intesa ai sensi dell’art. 8 c. III Cost.
  • Copia della delibera del 26 maggio 1996 del Comitato di Coordinamento che autorizza il segretario a presentare ricorso straordinario al Capo dello Stato contro il diniego.