I dilemmi e i silenzi di Pio XII

Vaticano, seconda guerra mondiale e shoah
Giovanni Miccoli
BUR
2007
ISBN: 
9788817007672

Due mesi orsono è morto Giovanni Miccoli, uno dei più autorevoli storici italiani. La sua attività si è incentrata soprattutto sullo studio della Chiesa cattolica, che ha sempre affrontato senza alcun timore reverenziale e lavorando anche su temi controversi — persino per gli stessi studiosi — come l’atteggiamento tenuto nel corso della seconda guerra mondiale. Il suo contributo è stato quello di uno storico a tutto tondo, consapevole che “il problema non è quello di stabilire ciò che il papa avrebbe dovuto fare e non ha fatto, o di sostenere che egli ha fatto ciò che doveva perché non poteva fare altrimenti, ma di determinare in primo luogo ciò che egli ha fatto e perché”.

Ciò che ha fatto il papa è ampiamente documentato in questa opera densissima. Fatti che non possono essere negati, tanto più che in Vaticano si era già all’epoca consapevoli del giudizio negativo che accompagnava il proprio operato. È ormai assodato che la Santa Sede fu messa a conoscenza prestissimo non solo delle deportazioni degli ebrei, ma anche del loro sterminio. Un’enciclica contro il razzismo, che Pio XI avrebbe voluto firmare e diffondere, fu sollecitamente accantonata dopo la sua morte, generando un enorme sospiro di sollievo all’interno della curia romana. Altrettanto certo è che non vi fu alcuna netta presa di distanza dal regime nazista. Una circostanza particolarmente grave, visto che Pio XII si riservò fin dalla sua elezione la gestione del dossier tedesco. Pacelli è altresì il responsabile delle iniziative di pace condotte dal Vaticano nonostante sapesse benissimo che, con mezza Europa già invasa, l’unico risultato che avrebbero potuto conseguire sarebbe stata una “pace” stipulata alle condizioni capestro sicuramente imposte dai nazisti.

Tale strategia può essere addebitate anche agli schemi di interpretazione arcaici con cui la Chiesa cattolica valutò il conflitto. Miccoli ricorda che “le cause profonde dello scoppio della guerra venivano immancabilmente ricondotte a quelle colpe storiche dell’umanità che avevano allontanato Stati e società dall’insegnamento di Cristo e della Chiesa”. Anche la maggior o minore lontananza era un criterio di giudizio diffuso: persino un prelato non certo chiuso al mondo come mons. Roncalli, il futuro Giovanni XXII, sostenne che “una delle cause della disfatta francese è stato lo sfrenato godimento dei beni della terra dopo la grande guerra. I tedeschi invece hanno cominciato subito ad imporsi limitazioni e sacrifici, e si sono trovati pronti e forti”.

La malcelata ammirazione e la generale sottovalutazione del nazismo furono generalizzate e risultano lampanti nell’azione di Cesare Orsenigo, che provocò danni tali da far pensare che l’Imbriani fosse stato profetico, ma tutto sommato riduttivo. Il nunzio, che a Berlino aveva preso il posto proprio di Pacelli, non seppe mai fare altro che trasmettere a Roma i desiderata del regime. L’episcopato tedesco si comportò in modo analogo, interessandosi più al proprio popolo e al proprio paese che a concepire la possibilità di criticare chi lo governava. Anche i vescovi croati e slovacchi fecero altrettanto, e anche in questo caso il Vaticano si limitò a prenderne atto senza intervenire in alcun modo, pur in presenza di fatti indubbiamente gravi quali le conversioni forzate dei serbi ortodossi e l’assunzione diretta di incarichi al vertice di una dittatura fascista. Le vicende della seconda guerra mondiale ci mostrano una Chiesa cattolica lontana dal saper essere universale: un’accozzaglia poco riuscita di Chiese nazionaliste che solo quando era necessario facevano riferimento a un centro romano sostanzialmente immobile.

Tali fatti, di per sé, non implicano però un suo giudizio totalmente positivo nei confronti della politica di Hitler. Ne sono una prova significativa i telegrammi di solidarietà comunque spediti ai sovrani in occasione dell’invasione del Belgio, dell’Olanda e del Lussemburgo, anche se una condanna esplicita dell’aggressione da pubblicare sull’Osservatore Romano fu preparata ma poi accantonata. Il nazismo vedeva nella Chiesa un avversario, e in Vaticano ne erano ben consci: una preoccupazione amplificata dal patto Molotov-Ribbentrop. Da entrambe le parti, tuttavia, si riteneva che esistessero nemici peggiori. Solo il futuro avrebbe potuto dire (e siamo lieti che non abbiamo potuto dirlo) se in un mondo a dominazione nazista ci sarebbe stato un regolamento dei conti o un avvicinamento. Il Vaticano non riuscì mai ad accantonare l’illusione di un ammorbidimento del regime. Nel contempo presentava il proprio totalitarismo come l’unico “vero”: un modello a cui anche gli altri erano invitati a uniformarsi.

A conti fatti, la Santa Sede “non riuscì a compiere quelle distinzioni e graduazioni, a pronunciare via via quelle precise denunce, che avrebbe potuto scaturire dall’evidenza. […] Non indicando i responsabili, evitava di entrare in collisione con altri concetti e valori già consacrati e ancor sempre ricordati e difesi”. Pesava, in particolare, il più che millenario antisemitismo cattolico. È evidente che i campi di concentramento e la shoah andavano oltre e non erano prevedibili, ma le gerarchie ecclesiastiche rimasero silenti anche perché i fatti che stavano accadendo “in troppi loro aspetti ricordavano le abitudini e la prassi che erano state della cristianità”. E, in ogni caso, “la questione che non può essere elusa riguarda in primo luogo il silenzio su tutte le vicende precedenti, sulle leggi speciali, le persecuzioni, le discriminazioni e gli attacchi che investirono gli ebrei europei nel corso degli anni Trenta”. Quando la strategia è il silenzio diventa difficile cambiare idea in seguito, perché significa ammettere gli errori precedenti. Ma il coraggio solitario di un Von Galen, che peraltro era un convinto conservatore, mostra che sì, si poteva e si doveva mantenere un atteggiamento diverso. È la stessa Chiesa cattolica ad ammetterlo implicitamente: subito dopo la guerra Pio XII creò Van Galen cardinale, nel 2005 Benedetto XVI lo beatificò.

Da un punto di vista laico, l’elevazione all’altare di persone che eccezionali non sono certo state, perché avrebbero potuto fare molto di più, è un tema di ben scarso interesse. Libera la Chiesa di farlo e di pagarne eventualmente le conseguenze nei confronti dell’opinione pubblica. (La questione peraltro non è nuova e continuerà ad agitare gli animi in futuro: è facile prevedere che i comportamenti di Bergoglio durante la dittatura argentina procureranno tra non molti anni discussioni analoghe.) Quello che ci interessa, anche e soprattutto quale insegnamento per il presente, è comprendere come una confessione religiosa naturalmente e morbosamente interessata alla cosa pubblica si sia comportata in un momento fondamentale per la storia umana, in uno scenario in cui contro le democrazie liberali si imponevano totalitarismi di destra e di sinistra.

Se si cerca di valutare, anche sotto questo punto di vista, “ciò che ha fatto e perché”, pare proprio che la sua opzione preferenziale sia stata per il cattofascismo, quale fu all’epoca soprattutto il franchismo, e come sperava che diventassero creature naziste quali, per l’appunto, la Croazia e la Slovacchia, che riconobbero un ruolo importante alla Chiesa in virtù di una loro supposta “identità cattolica”. I vertici ecclesiastici nutrirono speranze simili anche con il regime di Vichy, il cui avvento accolsero con “plauso e benevolenza”, Al governo petainista bastò sovvenzionare le scuole cattoliche e ottenne ciò che voleva, il pressoché totale silenzio cattolico sul collaborazionismo col nazismo.

Il rivale numero uno, per la Chiesa, era chiaramente il comunismo. Tanto che in diverse occasioni riconobbe al nazismo il merito di aver evitato il “caos” bolscevico. Che questa fosse la sua principale ossessione è testimoniato dalle critiche rivolte dall’Osservatore Romano a Francia e Regno Unito per non aver aderito alla strada preferita in Vaticano: la costituzione di un blocco antisovietico comprendente la Germania. Solo verso la fine del conflitto Pio XII aprì esplicitamente alla democrazia, e solo una volta concluso alla laicità (ma unicamente se “bene intesa”).

Cade dunque la difesa apologetica che giustifica il silenzio del papa con la sua suprema esigenza di restare imparziale. Non vi furono imparzialità e silenzio quando, dopo la guerra, alcuni paesi finirono sotto l’influenza politica dell’Urss. Come non vi sono stati nelle settimane scorse, quando l’episcopato francese e lo stesso papa Francesco hanno scelto di non scegliere tra la neofascista Marine Le Pen e il liberale Emmanuel Macron. Tirando le somme, dunque, per la Chiesa il buon governo sembra continuare a essere soltanto quel governo che è buono per la Chiesa e che opera secondo le sue coordinate morali. Se è stato scelto dal popolo è forse meglio (oggi), ma non è necessario.

E allora tocca ribadire che, emettendo giudizi politici basati soltanto sulla maggior o minore lontananza da se stessa, la Chiesa cattolica fa proprio un atteggiamento settario, un autentico relitto tribale. Manifesta infatti l’incapacità di fare quel salto di qualità che è racchiuso nella famosa frase attribuita a Voltaire, e che esige non solo la convivenza con esseri umani che la pensano diversamente, ma anche la volontà di battersi perché possano continuare a farlo. Lavorare insieme per costruire un mondo migliore, dove tutti possano essere se stessi nel rispetto dell’altro: l’importante libro di Miccoli ci ricorda che non è facile per nessuno. Ma che, per qualcuno, è molto più difficile.

Raffaele Carcano
giugno 2017