Breve storia del concetto di laicità nella dottrina cattolica

di Raffaele Carcano

 

“Sul problema delle relazioni tra sfera politica e sfera religiosa Cristo aveva già offerto il criterio di fondo in base al quale trovare una giusta soluzione”. Tutto facile e risolto da duemila anni a questa parte, dunque.

O no? La citazione è tratta dal discorso che Benedetto XVI tenne all’Eliseo nel corso della cerimonia di benvenuto offertagli nel 2008 dall’allora presidente Sarkozy, a sua volta fautore di una “laicità positiva” (“positiva” come la risposta-standard da dare alle richieste delle religioni). Una rivendicazione molto forte, quella di Ratzinger. E tutto sommato, nel rivendicare le radici cristiane della laicità, gli ultimi papi sono stati anche assai prudenti, sia rispetto ai loro fedeli, sia rispetto a diversi sedicenti infedeli, purtuttavia devoti. Siamo in presenza di una rivendicazione legittima? O del tentativo di annettersi un principio che, nel terzo millennio, pochissimi sembrano avere il coraggio di combattere?

Cominciamo dall’inizio. Il “criterio di fondo” ricordato da Benedetto XVI è, ovviamente, l’episodio del tributo a Cesare: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” (Mc 12,17). Un passo che ha generato tantissime interpretazioni e già tale circostanza mostra che non è agevolmente decifrabile. Ma riveste ancora più importanza il fatto che Gesù non sarebbe assolutamente entrato nel merito: anche se nel caso improbabile che avesse istituito una separazione tra Stato e religione, non avrebbe in alcun modo distinto le competenze. Cos’è di Dio, cos’è di Cesare? Il Vangelo non lo dice. Non dice nemmeno nulla a proposito dei diritti degli individui, che a Gesù non sembra interessassero molto.

È uno dei versetti più conosciuti del Vangelo. Eppure, i Padri della Chiesa non sembravano conoscerlo molto, a giudicare dal numero estremamente basso di citazioni. Che peraltro non riguardavano in alcun modo il rapporto tra impero e religione: era piuttosto preso a esempio di come il fedele dovesse comportarsi nei confronti dell’autorità costituita. Che era dovere del fedele rispettare, in quanto posta sul trono da Dio per essere al suo servizio: la Lettera ai Romani è assai esplicita, su questo punto. Del resto Paolo aveva a sua volta chiesto di rendere “a ognuno quello che gli è dovuto, a chi è dovuto il tributo il tributo, a chi l’imposta l’imposta, a chi il timore il timore, a chi l’onore l’onore”. È “necessario stare sottomessi”, ribadiva.

Con l’unico limite del proprio culto. Quando, in alcune occasioni, gli imperatori imposero ai cristiani di sacrificare per loro, le gerarchie ecclesiastiche (non tutte) chiesero di resistere e molti fedeli (non tutti) rifiutarono di effettuare sacrifici, esponendosi al rischio della pena capitale. Quando fu Costantino, un cristiano, a diventare imperatore, la storia prese però un’altra piega. La setta (i suoi fedeli rappresentavano intorno al 5% della popolazione imperiale) aveva raggiunto il potere e doveva gestirlo. E fu gestito come aveva suggerito san Paolo: sottomissione.

Costantino si comportava da capo della Chiesa: convocava concili, nominava e trasferiva vescovi sgraditi, la dotava di fondi (pubblici) in relazione alle proprie esigenze, arrivava ad autodefinirsi “il tredicesimo apostolo”. La Chiesa — quella costantiniana — non fiatava. A protestare erano semmai i cristiani non costantiniani, come i donatisti. Quando il figlio di Costantino, Costanzo II, prese il potere, si verificò una curiosa situazione: l’imperatore era ariano. A protestare erano ora i cristiani non costanziani: Osio di Cordova, già consigliere di Costantino, si rivolse a Costanzo II in questi termini: “né è permesso a noi di esercitare un dominio terreno, né a voi, Sire, di avere alcuna autorità di bruciare incenso”.

Unanime era invece la condanna del “paganesimo”, prontamente identificato con l’idolatria. Già sotto Costanzo II uno scrittore cristiano come Firmico Materno diffondeva un libro in cui si chiedeva la completa obliterazione dei culti tradizionali, attraverso confische e distruzioni dei templi. Lo si chiedeva agli imperatori e si faceva notare loro che il favore divino era subordinato alla realizzazione di ciò che veniva loro comandato. La politica religiosa delle Chiese cristiane è stata fin da subito indirizzata all’annientamento della concorrenza. Qualsiasi concorrenza, anche cristiana.

Un ulteriore salto di qualità si ebbe con Ambrogio. Se i fedeli sono tenuti all’obbedienza all’autorità costituita, non altrettanto si deve necessariamente dire della Chiesa; e se i governanti operano con l’approvazione di Dio, devono anche ottenere l’approvazione di chi Dio rappresenta su questo pianeta. Il vescovo di Milano fu il primo a scrivere che l’imperatore deve stare “agli ordini di Dio e della sacra fede” e quindi dei vertici della Chiesa stessa. L’efficacia della sua dottrina la si vide bene con l’editto di Tessalonica, del 380, che individuava nel cristianesimo la religione ufficiale dell’impero. Quando Simmaco scrisse a Valentiniano II per chiedere che l’altare della Vittoria potesse tornare in Senato (“Ognuno ha il suo modo di vivere, ognuno i suoi riti: la mente divina ha assegnato a ciascuna città un culto divino che la proteggesse”), Ambrogio ventilò la scomunica dell’imperatore rinfacciando a Simmaco che “ciò che voi ignorate, noi lo sappiamo dalla voce di Dio”. L’imperatore gli diede ragione. Qualche anno dopo fu Teodosio I a essere realmente scomunicato e poi costretto a fare pubblica penitenza: il tempo di un’unica religione per tutti era ormai venuto, tanto che con l’editto di Concordia del 391 i non cristiani (cattolico-ortodossi) erano di fatto esclusi dalla comunità civile. Né questi editti liberticidi né i successivi furono criticati dalle gerarchie ecclesiastiche.

A detta di Agostino, allievo di Ambrogio, le autorità temporali devono porre “il potere al servizio della maestà di Dio per estendere il suo culto”. Tanto che suggerì (con successo) una politica di conversioni forzate e di estesa repressione del dissenso religioso: “Dio, servendosi degli imperatori a lui sottomessi, ha voluto spaventare i cuori insensati”. Il concetto di totalitarismo religioso è stato ben espresso da Leone Magno rivolgendosi all’imperatore: “Sarà vantaggioso sia per la Chiesa universale, sia per il vostro dominio, se un Dio, una fede e un sacramento della salvezza umana, siano tenuti dall’unica confessione dell’intero mondo”. Gelasio I sostenne che, tra l’autorità temporale e quella spirituale, è quest’ultima a prevalere, perché i sacerdoti devono rendere conto a Dio anche del comportamento dei sovrani.

Sono affermazioni che, allora, ebbero un impatto circoscritto. La Chiesa, in Oriente e in Occidente, fu quasi sempre cesaropapista, subordinando l’intronizzazione dei vescovi all’accettazione imperiale. Quelle appena riportate furono più che altro impuntature di personalità carismatiche, che dovevano disporre di un buon seguito e di cui anche le autorità politiche dovevano quindi tenere conto. Vanno considerate eccezioni, anziché regole, ma costituiranno l’arsenale dialettico a cui la Chiesa cattolica attingerà nel secondo millennio.

E comunque gli imperatori non restavano con le mani in mano: fu proprio un sovrano come Giustiniano a introdurre la pena di morte per tutti gli apostati, i sacrificatori, i bestemmiatori, gli omosessuali. Così come furono gli imperatori germanici, all’inizio del secondo millennio, a riportare in auge il papato decaduto ai livelli più bassi della sua storia. I pontefici seppero approfittare della situazione e recisero gli ultimi fili che li legavano a Costantinopoli. Poi seppero rendersi autonomi anche dall’impero germanico, avviato a una progressiva decadenza.

Un processo, questo, promosso dal cardinale Ildebrando di Sovana, in tarda età assunto al pontificato con il nome di Gregorio VII (1073-1085). Nel Dictatus papae rivendicò apertamente la superiorità del papa nei confronti di ogni sovrano temporale: definì la Chiesa infallibile, il papa non giudicabile e pretese che i prìncipi gli baciassero i piedi. Costrinse l’imperatore Enrico IV a umiliarsi a Canossa, ma morì in esilio. La Chiesa fece proprie le sue tesi fino all’epoca illuminista.

Si cominciava intanto a parlare di “braccio secolare”, laddove la mente era ovviamente quella ecclesiastica (e in particolare papale, visto il progressivo processo di centralizzazione e unificazione dell’autorità spirituale). Graziano, il fondatore del diritto canonico, istituzionalizzò anche dottrinalmente tale concetto: alle autorità secolari compete la mera esecuzione pratica delle direttive emanate dall’autorità spirituale sulle materie che essa stessa si riserva. Lucio III, nel 1184, emanò la decretale Ad abolendam, il documento fondante della moderna Inquisizione: stabilì che l’eretico, definito tale dall’autorità ecclesiastica, deve essere lasciato a quella civile per l’applicazione della pena. La quale autorità, se non avesse collaborato, sarebbe stata scomunicata, con la città colpita da interdetto.

Innocenzo III completò l’opera anche a livello ideologico. Riprese l’iconografia delle due spade (che spettano entrambe al pontefice, che lascia al sovrano quella temporale purché difenda gli interessi della Chiesa), introdusse il simbolismo del sole per il papa e della luna per l’imperatore e, ricalcando modelli antichi (l’unzione di Saul, la penitenza di Teodosio, l’incoronazione di Carlo Magno, l’umiliazione di Enrico IV), ribadì che il sacerdote che unge è sempre superiore a chi è unto, ovverosia il sovrano. Bonifacio VIII, con la bolla Unam Sanctam del 1302, perfezionò tale concezione, assegnando al papato ogni potestà diretta anche in ambito temporale: mentre il Medioevo declinava e attribuiva un significato nuovo al vassallaggio, dovuto in prima battuta al pontefice cattolico.

Un progetto di dominio universale (anche perché questo è il significato di “cattolico”). Che non si accontentava di allargare gli ambiti d’intervento all’interno degli Stati cristiani, ma che si estendeva ormai anche agli Stati non cristiani. Urbano II aveva lanciato già nel 1095 la prima crociata al grido di “Dio lo vuole”. Enrico da Susa, detto il cardinale ostiense, affermò che i papi detengono “la potestà non solo sui cristiani, ma anche su tutti gli infedeli”: si può, anzi si deve muovere guerra contro le loro nazioni, se non riconoscono tale primato. Un concetto che fu alla base della pratica del requerimiento, con cui l’esercito spagnolo giustificò la colonizzazione a mano armata di gran parte del continente americano.

Come si vede, siamo lontani anni luce non solo dal concetto di separazione, ma anche da quello di distinzione tra Stato e Chiesa. In questo periodo nessun autore cattolico cita l’episodio del tributo (e chi lo fa, come Marsilio, viene guarda caso condannato). Il papa governa in prima persona lo Stato della Chiesa, stabilisce chi deve governare gli altri Stati, stabilisce gli ambiti nei quali è lecito governare, stabilisce persino come bisogna governare. Persino un “difensore degli indios” come Vasco de Quiroga, nelle comunità da lui fondate, faceva valere una regola in cui la fede e il culto cristiani erano obbligatori, e l’autorità era di nomina diocesana: un modello fatto proprio anche dalle reducciones gesuitiche. Il modello della comunità totalizzante valeva ovunque e per chiunque.

Il sistema crollò con il pluralismo religioso. Quando i sovrani si resero conto che potevano rivolgersi ad altri forni (per esempio quello luterano, una sorta di cesaropapismo senza papa) e s’impose il principio del cuius regio eius religio, il papato dovette ridursi a più miti consigli. Il gesuita Giovanni Botero scrisse La Ragion di Stato, in cui l’accento si spostava sui “vantaggi” che il cattolicesimo può portare ai sovrani, perché soltanto “i sudditi devoti e religiosi sono sudditi obbedienti”. Roberto Bellarmino, pure gesuita, tornò a definire la potestà cattolica negli affari temporali soltanto “indiretta”, rischiando peraltro anche di finire nell’Indice dei libri proibiti. Paradossalmente, proprio i gesuiti furono le prime vittime dei sovrani assolutisti, che nel Settecento imposero durissime politiche giurisdizionaliste. I rivoluzionari francesi non fecero in fondo altro che applicare in maniera estrema gli stessi loro metodi.

Non esistevano più re per diritto divino e, soprattutto, non esistevano più sacerdoti che dovevano sancirlo sacralmente. Lo Stato aveva raggiunto il suo zenit. La Chiesa era invece quasi tornata ai minimi storici, per quanto disponesse ancora del territorio dello Stato pontificio, nel quale la sua dottrina trovava zelante applicazione. Nonostante alcuni pensatori cercassero di portarla su posizioni più liberali (gli stessi Cavour e Minghetti si dichiaravano cattolici), essa si chiuse sempre più a riccio. Nel 1864 Pio IX pubblicò il Sillabo, facendo letteralmente precipitare la considerazione generale nei confronti del papato: tra gli “errori” denunciati, anche quelli di ritenere che “tocca alla potestà civile definire quali siano i diritti della Chiesa e i limiti entro i quali possa esercitare detti diritti”, che “la Chiesa non ha potestà di usare la forza, né alcuna potestà temporale diretta o indiretta”, che “si deve separare la Chiesa dallo Stato, e lo Stato dalla Chiesa”.

Quando i bersaglieri separarono quantomeno lo Stato della Chiesa dalla potestà della Chiesa, Pio IX si chiuse tra le mura vaticane, vietando ai cattolici la partecipazione alle elezioni. Gran parte degli Stati del mondo cattolico era guidato da una élite anticlericale e positivista, mentre già cominciava a incidere il movimento socialista, ancora meno bendisposto verso i retaggi religiosi. Leone XIII cercò di portare qualche minima novità, quantomeno d’immagine. Continuò a condannare duramente il liberalismo e le libertà di coscienza, di culto, di stampa, tutte ritenute antitetiche alla dottrina cattolica. Ma nella Immortale Dei mostrò di accettare qualunque forma di governo, purché “riguardosa a Dio, padrone supremo del mondo”. In una lettera ai vescovi USA del 1895 parlò della “buona costituzione” di quello Stato, senza che si debba “concludere che sia la migliore”, perché per la Chiesa “produrrebbe ancora più frutti se si giovasse non solo della libertà, ma anche del favore delle leggi e della protezione dei poteri pubblici”. La regola è del resto sempre stata quella di trarre il massimo profitto sempre e ovunque dal potere pubblico, nella convinzione — talvolta ammessa anche esplicitamente — che da sola la Chiesa non ce la fa e non ce la può fare a imporsi. Leone XIII si azzardò persino a recuperare i versetti evangelici su Dio e Cesare: una novità forse assoluta, nella storia del papato. Il fine non era certo separare o distinguere le competenze tra Stato e Chiesa, ma solo riaffermare il diritto della Chiesa di resistere a un’autorità che ne voleva limitare la libertà d’azione.

Fu del resto Pio X a riportare i cattolici in politica, facendo in pratica decadere il non expedit attraverso il Patto Gentiloni. L’avanzata socialista spingeva sia le élite borghesi, sia le gerarchie ecclesiastiche a un’alleanza. Benedetto XV fu ancora più pragmatico: durante il primo conflitto mondiale i vescovi furono al fianco dei rispettivi governi, i cappellani militari al fianco dei soldati cattolici. Pio XI, una volta ristabilite le relazioni diplomatiche con la Francia, nel 1924 approvò lo statuto legale della Chiesa in Francia nel quadro della legge del 1905. Cinque anni dopo firmava, con il fascismo, il primo di una lunga serie di accordi con regimi dittatoriali.

Intanto che concordava a destra e a manca, però, Pio XI istituiva anche la solennità di Cristo Re dell’Universo: quasi a voler ribadire che certi compromessi, frutto delle contingenze, sono da considerare un male minore. Non dimenticò infatti di attaccare la “peste” del laicismo, negatore “dell’impero di Cristo su tutte le genti”: una definizione accettabile anche per tanti laicisti. Non c’è da sorprendersi che Pio XI abbia rivendicato che il vero totalitarismo è quello della Chiesa cattolica.

Pio XII, che da segretario di Stato aveva sottoscritto il concordato con il regime nazista, quando la seconda guerra stava terminando affermò, sulla scia di Leone XIII, “non è vietato di preferire governi temperati di forma popolare, salva però la dottrina cattolica”. Non è vietato nemmeno preferirne di diversi: nel dopoguerra, la Santa Sede sarebbe stata al fianco delle dittature militari sudamericane, senza però trascurare accordi con alcuni regimi comunisti. Un atteggiamento al limite dello spregiudicato, ma imposto dalle circostanze di fatto. Le stesse che portarono a cercare di distinguere non solo tra Stato e Chiesa, ma anche (e soprattutto) tra laicità e laicismo.

I due termini sono sempre stati considerati sinonimi, con una piccola sfumatura per l’uso preferenziale di “laicismo” per indicare il movimento di pensiero. L’Enciclopedia cattolica, pubblicata nell’immediato dopoguerra, non ha alcuna voce dedicata alla laicità: ne ha invece una sul laicismo, dipinto ovviamente a tinte forti. Un testo che contiene anche un’interessante considerazione: dov’è minoranza, la Chiesa pretende la neutralità delle istituzioni e la parità religiosa, mentre dov’è maggioranza pretende che lo Stato le riconosca un ruolo egemone.

Qualcosa tuttavia era già cambiato, già nel 1945. I vescovi francesi, di fronte alla possibilità che la nuova costituzione menzionasse la laicità (la laicità come espressa nella legge del 1905: statalizzazione dei luoghi di culto, per intenderci), emanarono un documento in cui si condannava il clericalismo come “contrario all’autentica dottrina della Chiesa” (sic!), un clericalismo definito però come “l’immissione del clero nel dominio politico dello Stato al fine di servirsi dei poteri pubblici per soddisfare la sua volontà di dominio”: solo la sua versione hard, insomma, peraltro largamente praticata in passato. La dichiarazione sosteneva inoltre che la laicità dello Stato può essere “pienamente conforme alla dottrina della Chiesa” se si limita a proclamare la sovranità dello Stato nell’ordine temporale, se non pretende che lo Stato imponga l’ateismo e se — notare bene — non viene intesa come “la volontà dello Stato di non sottomettersi ad alcuna morale superiore e di non riconoscere che il suo interesse come regola della sua azione”.

Pochi mesi dopo, sull’Osservatore Romano apparve un articolo a firma F. Rossi dal titolo Laicità e laicismo. Si riprendevano le considerazioni dei vescovi francesi, si aggiungeva — forse per la preoccupazione per i nuovi regimi comunisti nati a Est — la richiesta di garanzie costituzionali affinché lo Stato non imponga ai cittadini la professione di una qualunque ortodossia. Si affermava anche, nero su bianco, che la laicità dello Stato aveva origine nella distinzione fondamentale operata dal Vangelo tra Cesare e Dio. Articolo seminale, perché è da lì che vengono sia la rivendicazione che la laicità trae origine da Gesù, sia la distinzione tra laicità “bene intesa” e laicismo, in tale occasione definito “mistica dell’ateismo”. Laicità vs laicismo non è dunque una novità, semmai è il segno che la propaganda cattolica ha sfondato anche in ambienti laici.

Nonostante quell’articolo, tuttavia, la laicità non trovò spazio nella Costituzione italiana, a differenza dei Patti Lateranensi. Francesco Saverio Nitti provò a “importare” il testo costituzionale francese, ma gli si oppose l’uomo che voleva far cominciare la Costituzione con un’invocazione a Dio, Giorgio La Pira (assurto oggi a riferimento politico del premier Renzi). La Pira negò la possibilità stessa di uno “Stato laico”. Per quanto possa sembrare strano, l’art. 7 è frutto di un compromesso: poteva finire assai peggio. Vescovi e quotidiani papali potevano anche discettare di laicità, i politici no.

Passati quegli anni la laicità finì in sordina, specialmente nell’Italia democristiana. Anche l’attenzione ecclesiastica scemò. Si dovette attendere il 1958 per avere un papa, Pio XII, riprendere fugacemente il concetto di “sana e legittima laicità dello Stato”. La dichiarazione conciliare Dignitas Humanæ, nel ricordare che Gesù “riconobbe la potestà civile e i suoi diritti, comandando di versare il tributo a Cesare”, non dimentica però di aggiungere che “ammonì chiaramente di rispettare i superiori diritti di Dio” [corsivo mio]. Paolo VI, nel 1968, tornò a soffermarsi sulla “profonda distinzione tra laicità e laicismo”: la prima sarebbe la sfera propria delle realtà temporali, il secondo “l’esclusione dell’ordinamento umano dai riferimenti morali e globalmente umani, che postulano rapporti imprescrittibili con la religione”.

La laicità non è menzionata nemmeno dal Codice di diritto canonico del 1983 e dal Catechismo del 1992: che pur cita i versetti sul tributo, ma ancora una volta al fine di ribadire il diritto di resistere all’autorità civile. Nonostante quasi due millenni di pressoché totale oblio dei versetti su Dio e Cesare, però, la rivendicazione delle radici cristiane del concetto di laicità si fa progressivamente più frequente e va di pari passo con la negazione del proprio clericalismo, che pure nell’Ottocento diversi fedeli rivendicavano con orgoglio. Quando si arriva al dunque, tuttavia, questa spinta laica improvvisamente si affievolisce. Nel 2007 il segretario generale della CEI, l’allora monsignor Betori, di fronte al parlamento impegnato nel tentativo di superare la legislazione fascista sui culti ammessi non ebbe timori a esprimere “sorpresa e contrarietà [per] l’introduzione del principio di laicità”.

La laicità, per la Chiesa cattolica contemporanea, sembra dunque essere una mera stampella: un supporto per dare l’impressione di stare al passo col mondo, ma senza che riesca in alcun modo a camuffare il proprio incedere claudicante. Il cardinale Bagnasco ha chiesto che lo Stato “promuova la dimensione religiosa”, senza rendersi conto che, all’epoca dell’URSS, si chiedeva e si faceva lo stesso per la dimensione non religiosa. Benedetto XVI ha più volte rinverdito i fasti della “sana laicità”, ma ha anche accolto con disappunto l’introduzione del divorzio a Malta. Quand’era cardinale, la Congregazione per la dottrina della fede aveva diffuso una Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica in cui aveva negato l’autonomia della sfera civile e politica da quella morale (non a caso coincidente con la dottrina cattolica).

La Santa Sede “non è giudicata da nessuno”, recita il Codice di diritto canonico, e la Chiesa deve continuare a prevalere sullo Stato, ha sostenuto mons. Rino Fisichella nel libro Identità dissolta: “in virtù del suo essere democratico, lo Stato non solo deve accettare di confrontarsi con la Chiesa, ma deve anche saperne accogliere — solo in un secondo momento, temperandole — le eventuali ingerenze. […] La Chiesa invece, richiamandosi a princìpi che hanno un’origine superiore a quella umana, non potrebbe mai accettare una qualsiasi ingerenza dello Stato riguardo ai propri contenuti”. Parola di cappellano dei parlamentari.

Tirando le somme: pare proprio che la laicità alla cattolica non sia poi tanto laica. Se l’origine cristiana della laicità fosse fondata, avremmo alle spalle quasi due millenni di storia laica. La Chiesa non ha mai espresso un’opzione preferenziale per la laicità, ritenuta al massimo uno strumento idoneo a garantire la (sua) libertà religiosa. La dottrina, anche quella dei più autorevoli dottori della Chiesa, ha sempre visto lo Stato subordinato all’autorità ecclesiastica. La prassi si è sovente allineata, a cominciare dallo stesso Stato Pontificio. L’episodio del tributo a Cesare sembra essere non più di un mito di fondazione.

La pretesa di una radice cristiana della laicità è dunque destituita di ogni fondamento.

Da L’ATEO 6/2014