Sentenza Corte Costituzionale n. 168 del 18 aprile 2005

«Vilipendio: illegittimità costituzionale dell’art. 403, primo e secondo comma, del codice penale, nella parte in cui prevede, per le offese alla religione cattolica mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro del culto, la pena della reclusione rispettivamente fino a due anni e da uno a tre anni, anziché la pena diminuita stabilita dall’art. 406 dello stesso codice»

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

    Piero Alberto CAPOTOSTI, Presidente
    Fernanda CONTRI, Giudice
    Guido NEPPI MODONA, Giudice
    Annibale MARINI, Giudice
    Franco BILE, Giudice
    Giovanni Maria FLICK, Giudice
    Francesco AMIRANTE, Giudice
    Ugo DE SIERVO, Giudice
    Romano VACCARELLA, Giudice
    Paolo MADDALENA, Giudice
    Alfio FINOCCHIARO, Giudice
    Alfonso QUARANTA, Giudice
    Franco GALLO, Giudice

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 403, primo e secondo comma, del codice penale, promosso, nell’ambito di un procedimento penale, dal Tribunale di Verona con ordinanza del 16 marzo 2004, iscritta al n. 628 del registro ordinanze del 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno 2004.

  • Visto l’atto di costituzione dell’imputato nel processo a quo;
  • udito nell’udienza pubblica del 22 marzo 2005 il Giudice relatore Guido Neppi Modona;
  • udito l’avvocato Ugo Fanuzzi per l’imputato.

Ritenuto in fatto

  1. Il Tribunale di Verona ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 403, commi primo e secondo, del codice penale (Offese alla religione dello Stato mediante vilipendio di persone), in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 8, primo comma, della Costituzione.
  2. Il giudice rimettente premette di procedere nei confronti di persona imputata del reato in esame per avere offeso durante un dibattito televisivo la religione dello Stato mediante vilipendio di chi la professa e di ministri del culto cattolico.
    Ai fini della rilevanza della questione il giudice a quo sottolinea che, ove l’imputato «fosse ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 403 cod. pen., non potrebbe beneficiare della diminuzione di pena di cui all’art. 406 cod. pen. prevista per i culti ammessi e quindi applicabile, dopo l’entrata in vigore della legge 25 marzo 1985, n. 121, che ha dato esecuzione all’accordo 18 febbraio 1984 tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, solo alle confessioni religiose diverse da quella cattolica, non esistendo più una religione di Stato».
    Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente rileva che la disciplina censurata prevede un trattamento sanzionatorio più grave per le offese alla religione cattolica, non trovando applicazione, in tale ipotesi, la diminuente che l’art. 406 cod. pen. riserva ai soli delitti commessi contro i culti ammessi nello Stato.
    Il giudice a quo rileva inoltre che la Corte costituzionale ha già dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 404 e 405 cod. pen. nella parte in cui non prevedono l’applicabilità della disposizione di cui all’art. 406 cod. pen. anche ai casi in cui l’offesa viene portata alla religione cattolica e sia realizzata, rispettivamente, mediante vilipendio di cose o turbamento di funzioni religiose.
    Ad avviso del rimettente, poiché tali decisioni hanno radicalmente modificato la precedente giurisprudenza della Corte e definitivamente affermato il principio della pari libertà delle varie confessioni religiose, ogni differenza di disciplina prevista da altre fattispecie incriminatrici «si rivela essere una inammissibile discriminazione».
    Il Tribunale rimettente solleva quindi questione di legittimità costituzionale dell’art. 403 cod. pen. perché prevede, per le offese alla religione cattolica mediante vilipendio di persone, un trattamento sanzionatorio più grave rispetto a quello stabilito per le offese agli altri culti ammessi nello Stato. In particolare, la disciplina censurata sarebbe in contrasto con l’art. 3, primo comma, Cost., che consacra la pari dignità ed eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge senza alcuna distinzione di religione, nonché con l’art. 8, primo comma, Cost., secondo cui tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.

  3. In data 12 giugno 2004 è pervenuta alla Corte la nomina del difensore di fiducia dell’imputato, la procura speciale e la elezione di domicilio in Roma, atti trasmessi dallo stesso difensore «per la trattazione della relativa questione» davanti alla Corte costituzionale.
  4. Il 26 febbraio 2005 il difensore dell’imputato ha quindi presentato memoria con la quale, da un lato, aderisce alle argomentazioni del Tribunale di Verona a sostegno della fondatezza della questione alla luce delle precedenti sentenze della Corte in materia e, dall’altro, chiede di «allargare il tema di indagine sulla portata della prospettata lesione dell’art. 3 della Costituzione, al fine di pervenire a una pronuncia ben più radicale di quella avanzata dal giudice rimettente».
    In particolare, sul presupposto che la disposizione censurata determina una disparità di trattamento perché punisce solo le offese alla religione cattolica e ai culti ammessi nello Stato e non anche le offese recate all’ateismo, all’agnosticismo e «a qualsiasi religione di cui si abbia umana memoria», il difensore dell’imputato chiede alla Corte una declaratoria di illegittimità costituzionale da cui consegua la caducazione totale della norma censurata, non essendovi spazio in materia penale per alcuna pronuncia di tipo additivo. Ad avviso della difesa, la pronuncia richiesta sarebbe infatti l’unico modo per ripristinare «la parità di trattamento tra ideologie religiose positive e negative, dal momento che le offese all’onore o al decoro di chi crede e di chi non crede» trovano già tutela nelle disposizioni contenute nel capo del codice penale concernente i delitti contro l’onore.

Considerato in diritto

  1. Il Tribunale di Verona solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 403, comma primo e secondo, del codice penale (Offese alla religione dello Stato mediante vilipendio di persone), in quanto punisce con la reclusione fino a due anni chi offende la religione «mediante vilipendio di chi la professa» (primo comma) e con la reclusione da uno a tre anni chi commette il fatto «mediante vilipendio di un ministro del culto cattolico» (secondo comma), mentre l’art. 406 cod. pen. prevede che «la pena è diminuita» qualora i medesimi fatti sono commessi «contro un culto ammesso nello Stato».
  2. Premesso che a seguito delle modifiche al Concordato lateranense, recepite con legge 25 marzo 1985, n. 121, è venuto meno il principio secondo cui la religione cattolica è la sola religione dello Stato, e che pertanto in luogo di religione dello Stato deve leggersi religione cattolica e in luogo di culti ammessi religioni diverse da quella cattolica, il Tribunale rimettente rileva che il più grave trattamento sanzionatorio riservato alle offese alla religione cattolica determina una «inammissibile discriminazione» nei confronti delle altre confessioni religiose, in violazione degli artt. 3, primo comma, e 8, primo comma, della Costituzione, che sanciscono, rispettivamente, i principî dell’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge senza distinzione di religione e dell’eguale libertà di tutte le religioni davanti alla legge.

  3. Preliminarmente, si deve precisare che la questione va esaminata entro i limiti del thema decidendum individuati dall’ordinanza di rimessione (v. sentenze numeri 405 e 49 del 1999, n. 63 del 1998 e n. 79 del 1996). Rimane perciò estranea al presente giudizio la richiesta, prospettata dalla parte privata, di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’intera norma incriminatrice, in quanto volta a introdurre un tema del tutto nuovo rispetto a quello devoluto dal giudice a quo.
  4. La questione è fondata.
  5. Nell’ultimo decennio questa Corte, ripetutamente chiamata a pronunciarsi sulla tutela penale del sentimento religioso, ha preso in esame, per quanto qui specificamente interessa, le fattispecie incriminatrici previste dagli artt. 402, 404 e 405 cod. pen., accogliendo, in riferimento agli artt. 3 e 8 Cost., le questioni di legittimità costituzionale sollevate per disparità di trattamento tra la religione cattolica e le altre religioni.
  6. In ordine di tempo, con la sentenza n. 329 del 1997 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 404, primo comma, cod. pen. (Offese alla religione dello Stato mediante vilipendio di cose), nella parte in cui prevede «la pena della reclusione da uno a tre anni, anziché la pena diminuita prevista dall’art. 406 del codice penale» per i medesimi fatti commessi nei confronti di un culto ammesso nello Stato; con la sentenza n. 508 del 2000 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 402 cod. pen. (Vilipendio della religione dello Stato), eliminando dall’ordinamento la fattispecie incriminatrice, in quanto il rispetto della riserva assoluta di legge in materia penale non avrebbe consentito di estendere ai «culti ammessi» la tutela predisposta dalla norma censurata solo nei confronti della religione cattolica; infine, con la sentenza n. 327 del 2002 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 405 cod. pen. (Turbamento di funzioni religiose del culto cattolico), nella parte in cui per tali fatti «prevede pene più gravi, anziché le pene diminuite stabilite dall’articolo 406 del codice penale per gli stessi fatti commessi contro gli altri culti».
    Le esigenze costituzionali di eguale protezione del sentimento religioso che sottostanno alla equiparazione del trattamento sanzionatorio per le offese recate sia alla religione cattolica, sia alle altre confessioni religiose, già affermate da questa Corte nelle sentenze n. 329 del 1997 e n. 327 del 2002, sono riconducibili, da un lato, al principio di eguaglianza davanti alla legge senza distinzione di religione sancito dall’art. 3 Cost., dall’altro al principio di laicità o non-confessionalità dello Stato (per cui vedi sentenze n. 203 del 1989, n. 259 del 1990, n. 195 del 1993, n. 329 del 1997, n. 508 del 2000, n. 327 del 2002), che implica, tra l’altro, equidistanza e imparzialità verso tutte le religioni, secondo quanto disposto dall’art. 8 Cost., ove è appunto sancita l’eguale libertà di tutte le confessioni religiose davanti alla legge.
    Tali esigenze sono evidentemente presenti anche in relazione alla attuale questione di legittimità costituzionale, che riguarda l’unica fattispecie incriminatrice tra quelle contemplate dal capo dei delitti contro il sentimento religioso che ancora prevede un trattamento sanzionatorio più severo ove le offese siano recate alla religione cattolica.
    Poiché tutte le norme del capo in esame si riferiscono al medesimo bene giuridico del sentimento religioso, che l’art. 403 cod. pen. tutela in caso di offese recate alla religione cattolica mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro del culto, anche tale norma appare connotata dalla «inammissibile discriminazione» sanzionatoria tra la religione cattolica e le altre confessioni religiose ripetutamente dichiarata costituzionalmente illegittima da questa Corte.
    Si impone pertanto, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 8, primo comma, Cost., la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 403, primo e secondo comma, cod. pen., nella parte in cui prevede, per le offese alla religione cattolica mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro del culto, la pena della reclusione rispettivamente fino a due anni e da uno a tre anni, anziché la pena diminuita stabilita dall’art. 406 dello stesso codice.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 403, primo e secondo comma, del codice penale, nella parte in cui prevede, per le offese alla religione cattolica mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro del culto, la pena della reclusione rispettivamente fino a due anni e da uno a tre anni, anziché la pena diminuita stabilita dall’art. 406 dello stesso codice.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 aprile 2005.

F.to:

Piero Alberto CAPOTOSTI, Presidente
Guido NEPPI MODONA, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 29 aprile 2005.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA