Camera dei Deputati Proposta di legge n. 1430

PROPOSTA DI LEGGE

d’iniziativa dei deputati

BELLILLO, CANCRINI, CARBONELLA, CESINI, CRAPOLICCHIO, DATO, DE ANGELIS, DILIBERTO, FEDI, FRONER, GALANTE, LICANDRO, NAPOLETANO, PAGLIARINI, FERDINANDO BENITO PIGNATARO, POLETTI, PORETTI, SGOBIO, SOFFRITTI, TRANFAGLIA, TRUPIA, VACCA, VENIER

Norme contro le discriminazioni e per l’uguaglianza

Presentata il 20 luglio 2006

Onorevoli Colleghi! - La presente proposta di legge ha lo scopo di dare piena attuazione al principio di uguaglianza di cui all’articolo 3 della Costituzione, alla luce dell’articolo 13 del Trattato che istituisce la Comunità europea, affrontando il problema del divieto di discriminazione per tutte le cause indicate da entrambe le norme. Si tratta delle differenze di sesso, di razza o origine etnica, di religione o convinzioni personali, di opinioni politiche, di disabilità, di età, di orientamento sessuale, di condizioni personali o sociali.
Com’è noto, il nostro ordinamento civilistico è assai povero di strumenti di tutela in via d’urgenza dei diritti connessi con il divieto di discriminazione. Le azioni giudiziarie già previste sono tutte tipiche, e le relative pretese possono essere azionate in contesti limitati. In particolare, le azioni menzionate sono quelle previste dagli articoli 15, 18 e 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori), dall’articolo 4 della legge 10 aprile 1991, n. 125, sulle pari opportunità nel lavoro, poi abrogato, ma ripreso nella sostanza dagli articoli da 36 e 41 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, e dall’articolo 44 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni, nonché dal decreto legislativo 23 maggio 2000, n. 196, in materia di consiglieri di parità e azioni positive (abrogato dal decreto legislativo n. 198 del 2006). In base alle norme dello Statuto dei lavoratori è possibile agire in giudizio contro una discriminazione posta in essere dal datore di lavoro per motivi di affiliazione sindacale. L’articolo 13 della legge sulla parità tra uomo e donna 9 dicembre 1977, n. 903, ha esteso l’esperibilità dell’azione ai casi di «discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso» (modificando l’articolo 15 dello Statuto dei lavoratori). L’azione di cui all’articolo 4 della legge n. 125 del 1991, ora contenuta nel decreto legislativo n. 198 del 2006 (articoli 36-41), riguarda le discriminazioni in ragione del sesso, ma può essere esperita solo se la discriminazione si è verificata sul lavoro. L’azione civile prevista dall’articolo 44 del citato testo unico sulla disciplina dell’immigrazione è relativa alle discriminazioni «per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi». Il decreto legislativo n. 196 del 2000 faceva riferimento alla causa di discriminazione prevista dalla legge n. 125 del 1991, in particolare, per garantire l’equilibrio delle opportunità nell’ambiente di lavoro, così come la tutela giudiziaria di cui agli articoli 36-41 del decreto legislativo n. 198 del 2006 è relativa alle pari opportunità nel lavoro. Come si vede, la materia è alquanto frammentata e dispersa.
L’obiettivo della proposta di legge è quello di integrare gli strumenti normativi esistenti, dando a tutte le persone che abbiano sofferto una discriminazione, per qualsiasi causa e in qualsiasi contesto economico-sociale, la possibilità di agire in giudizio in via d’urgenza per la cessazione del comportamento discriminatorio e per la rimozione dei suoi effetti. Si tratta dunque di allargare l’ambito della giustiziabilità delle situazioni soggettive tutelate dal divieto di discriminazione, con la previsione di un’azione rapida, di natura cautelare. La generalizzazione della tutela giudiziale ha anche lo scopo di far emergere una casistica, con riferimento a tutte quelle situazioni che attualmente non hanno alcun tipo di emersione giudiziaria. Ciò contribuirà anche a fare crescere una consapevolezza diffusa sull’esistenza delle discriminazioni e sulla necessità di una efficace azione di contrasto.
L’articolo 1 ripropone le formule dell’articolo 3 della Costituzione integrando l’elenco delle cause di discriminazione con quelle previste dall’articolo 13 del Trattato che istituisce la Comunità europea. Di tali cause di discriminazione non viene tentata alcuna definizione. Il divieto di discriminazione viene pertanto costruito come clausola aperta all’evoluzione storica e interpretativa. La formulazione «differenze di sesso» è stata preferita a «differenze di genere» poiché tutte le fonti normative, anche al livello internazionale, fanno riferimento al sesso nelle norme specificamente dedicate al divieto di discriminazione. L’espressione qui utilizzata consente perciò di fare riferimento alla ricca interpretazione già consolidata.

L’indicazione dell’origine etnica, dell’età, della disabilità e dell’orientamento sessuale sono pure riprese dal citato articolo 13.
Nel testo viene usata l’espressione «donne e uomini» per designare in modo non neutro il complesso dei soggetti destinatari delle norme di tutela. La formulazione va perciò letta alla luce delle innovazioni linguistiche contenute nella direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri 27 marzo 1997 recante «Azioni volte a promuovere l’attribuzione di poteri e responsabilità alle donne, a riconoscere e garantire libertà di scelte e qualità sociale a donne e uomini», pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 116 del 21 maggio 1997. In altri termini, anche sulla base di atti normativi internazionali come lo Statuto della Corte penale internazionale, si preferisce definire un certo collettivo, piuttosto che con termini come «tutti i cittadini» o consimili, con il riferimento all’appartenenza dei suoi componenti ad uno dei due sessi. La formulazione «donne e uomini» non è viceversa interpretabile come riferita alla sola discriminazione in base al sesso. Il contesto della proposta di legge è infatti chiaramente comprensivo di tutte le discriminazioni, per qualsiasi causa. L’identità sessuale peraltro, è sempre trasversale all’appartenenza ad un gruppo o al possesso di una condizione personale che in ipotesi potrebbero essere fattori causativi di una discriminazione. In tale caso la discriminazione in base al sesso potrebbe sommarsi alla discriminazione per altra causa. L’ipotesi non è scolastica, poiché la compresenza di diverse ragioni di discriminazione non di rado si verifica nella realtà sociale.
L’articolo 2, oltre a vietare nel comma 1 ogni atto, patto o comportamento discriminatori, dà la definizione di discriminazione indiretta con una formulazione che riprende la definizione contenuta nel comma 2 dell’articolo 25 del decreto legislativo n. 198 del 2006. Per le discriminazioni che si verificano nell’ambito dei rapporti di lavoro è prevista una tutela rafforzata. Infatti, mentre in generale la prova liberatoria rispetto alla insussistenza della discriminazione può consistere nella dimostrazione che il diverso trattamento ha una giustificazione oggettiva, per ciò che concerne l’attività lavorativa o di impresa occorre provare che la ragione giustificativa riguarda un requisito essenziale allo svolgimento della prestazione.
Il comma 3 dell’articolo 2 riguarda le azioni positive. Fino alla data di entrata in vigore del citato decreto legislativo n. 196 del 2000, né l’ordinamento interno né l’ordinamento comunitario avevano fornito una vera e propria definizione, limitandosi l’articolo 1 della legge n. 125 del 1991 (ora l’articolo 42 del decreto legislativo n. 198 del 2006) a menzionare le «azioni positive per le donne» come misure da adottare al fine di rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità. Con l’articolo 7 del decreto legislativo n. 196 del 2000 si è specificato che le azioni positive devono tendere ad assicurare la rimozione degli ostacoli che impediscono la piena realizzazione di pari opportunità di lavoro e nel lavoro tra uomini e donne, anche al fine di promuovere l’inserimento delle donne (ora articolo 48, comma 1, del decreto legislativo n. 198 del 2006). La definizione contenuta nella proposta di legge è più ampia, e si riferisce ad ogni misura volta a eliminare tutte le disuguaglianze di fatto, non solo tra donne e uomini. La formulazione rinvia ad ulteriori atti normativi, o ai contratti collettivi, o ad altri atti adottati nell’esercizio di poteri autoritativi o di sovraordinazione, che di volta in volta dovranno indicare i destinatari delle specifiche misure di favore, i motivi e le finalità per le quali esse sono adottate. Si prevede espressamente che le azioni positive non ricadono nel divieto di discriminazione; con ciò si indica un criterio limitativo destinato ad operare in sede giudiziaria, in relazione alla valutazione sull’esistenza della discriminazione lamentata.
Il comma 4 dell’articolo 2 indica i princìpi ai quali devono conformare la propria attività, anche mediante atti organizzativi, le amministrazioni pubbliche anche ad ordinamento autonomo, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, gli enti pubblici, anche economici, gli enti locali ed i loro consorzi ed i soggetti a controllo o a partecipazione maggioritaria pubblica, ovvero esercenti pubblici servizi. La disposizione ripropone i princìpi contenuti nella citata direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri 27 marzo 1997 e nell’articolo 57 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, in materia di pari opportunità tra donne e uomini, specificandoli e soprattutto ampliandone la portata in relazione a tutte le potenziali cause di discriminazione. In particolare, la norma indica il metodo dell’integrazione dei princìpi di non discriminazione e pari opportunità nelle politiche generali e di settore, nel complesso dell’attività delle pubbliche amministrazioni, e segnatamente negli atti di programmazione ed organizzativi. La seconda specificazione riguarda la promozione di politiche per l’occupazione, anche attraverso misure relative ai tempi e all’organizzazione del lavoro, volte a riconoscere e garantire libertà di scelte e qualità sociale a donne e uomini. Le pubbliche amministrazioni sono così chiamate non solo ad assicurare che non si verifichino discriminazioni, ma anche a svolgere un’attività di carattere promozionale, finalizzata a creare condizioni di uguaglianza. Anche in questo caso la formulazione «donne e uomini» designa in modo sessuato l’universo di riferimento, senza limitare l’operatività della norma alla sola parità uomo-donna. Benché l’integrazione dei princìpi di non discriminazione e pari opportunità nell’attività della pubblica amministrazione sia ricavabile in via interpretativa dall’articolo 3 della Costituzione, il carattere innovativo della disposizione di cui all’articolo 2, comma 4, della proposta di legge, consiste nella indicazione di una nozione ampia di pari opportunità, risultante sia dall’estensione alle differenze indicate nell’articolo 1 di concetti che sono stati originariamente formulati in relazione alla sola differenza di genere, sia dall’indicazione di una doppia valenza delle politiche di pari opportunità, di garanzia contro le discriminazioni e di promozione di iniziative positive finalizzate alla realizzazione del principio di uguaglianza. La valenza di questa disposizione va sottolineata soprattutto in relazione ai problemi posti dall’evoluzione in senso multiculturale e multietnico della nostra società.
L’articolo 3 disciplina l’azione in giudizio (disciplinata, per quanto concerne le discriminazioni sul lavoro, degli articoli da 36 a 41 del decreto legislativo n. 198 del 2006) volta a ottenere la cessazione del comportamento pregiudizievole e la rimozione dei suoi effetti. Si tratta di un’azione di natura cautelare e urgente, che fa salva la possibilità di agire in via ordinaria per il risarcimento del danno. L’azione ha carattere residuale, nel senso che trova applicazione nei casi in cui l’ordinamento non prevede uno strumento di tutela tipico. L’ambito applicativo tuttavia è assai ampio, poiché comprende tutte le discriminazioni per motivi di disabilità, di età, di orientamento sessuale, di condizioni personali e sociali verificatesi in qualsiasi contesto, nonché le discriminazioni per motivi di sesso, di lingua e di opinioni politiche verificatesi al di fuori dell’accesso o dello svolgimento del rapporto di lavoro ovvero del licenziamento.
Il comma 2 fissa una regola di competenza territoriale particolarmente favorevole all’istante, in base alla quale il giudice competente è sempre quello del luogo di domicilio dello stesso istante.
Ai sensi del comma 3, quando la domanda è rivolta alla pronuncia di provvedimenti urgenti, si applica la disciplina dei procedimenti cautelari di cui agli articoli 669-bis e seguenti del codice di procedura civile, con un’importante innovazione. Poiché in relazione alle situazioni soggettive specificamente contemplate dalla proposta di legge la tutela cautelare può talora essere esaustiva, sulla scorta di precedenti già esistenti nell’ordinamento la fase di merito è qui prevista come meramente eventuale. Se infatti l’ordinanza che definisce la fase cautelare è pronunciata prima del giudizio di merito, il giudice provvede sulle spese anche nel caso di accoglimento dell’istanza. In questo caso il procedimento si esaurisce, non applicandosi l’articolo 669-octies del codice di procedura civile, che obbliga l’istante ad iniziare la causa di merito entro un termine perentorio. Non si applica neanche l’articolo 669-novies del medesimo codice, nelle parti in cui disciplina la perdita di efficacia del provvedimento cautelare in caso di mancato inizio del procedimento di merito nel termine. I commi 4 e 5 dell’articolo 3 riprendono l’articolo 44 del citato testo unico sulla disciplina dell’immigrazione, di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998, rispettivamente il comma 10 e il comma 9, ampliandone il campo di applicazione al di là dell’ambito lavoristico. Pertanto, in base al comma 4, se viene posto in essere un atto, patto o comportamento discriminatorio di carattere collettivo, la domanda per l’accertamento della discriminazione e per la sua rimozione può essere proposta dagli enti o delle associazioni rappresentativi dei diritti e degli interessi del gruppo cui appartengono i soggetti passivi della discriminazione. Questa norma è preordinata all’effettività della tutela giudiziaria.
Per quanto riguarda il regime della prova, il comma 5 introduce una norma di favore per la persona vittima della discriminazione, che al fine di dimostrare la sussistenza del comportamento pregiudizievole può dedurre elementi di fatto, relativi a fenomeni di carattere collettivo. Tali elementi sono valutati dal giudice secondo il suo prudente apprezzamento ai sensi dell’articolo 2729, primo comma, del codice civile, che non ammette se non presunzioni gravi, precise e concordanti. La regola comporta una certa attenuazione dell’onere probatorio a carico dell’istante, poiché rende più agevole, rispetto al regime ordinario, la dimostrazione dell’esistenza della discriminazione. Infatti l’istante potrà dedurre a sostegno della sua pretesa elementi relativi a fenomeni collettivi, volti a documentare, ad esempio, l’ingiustificata sottorappresentazione di un gruppo in un certo contesto economico-sociale. La disposizione non si spinge peraltro fino a configurare una inversione dell’onere della prova simile a quella contenuta nell’articolo 40 del decreto legislativo n. 198 del 2006, secondo cui in tale caso il convenuto deve provare l’insussistenza della discriminazione. Ai sensi dell’articolo 3, comma 5, della presente proposta di legge, sulla base di quanto peraltro già previsto dall’articolo 44 del testo unico sulla disciplina dell’immigrazione di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998, è invece lasciata alla discrezionalità del giudice la valutazione, da effettuare caso per caso, circa l’idoneità degli elementi dedotti dall’istante a fondare la presunzione dell’esistenza della discriminazione.
Ai sensi del comma 6, in caso di elusione dei provvedimenti del giudice si applica l’articolo 388, primo comma, del codice penale. Qualora si dia luogo alla fase di merito, ai sensi del comma 7 il giudice potrà liquidare, qualora ritenuto sussistente, il danno non patrimoniale. Si tratta di una norma innovativa che, sulla scorta dell’analoga previsione dell’articolo 44 del citato testo unico sulla disciplina dell’immigrazione, di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998, indica il comportamento discriminatorio come fattore causativo del danno non patrimoniale. Dunque l’accertamento in fase di cognizione dell’esistenza della discriminazione costituisce uno dei casi previsti dalla legge nei quali il giudice è espressamente facultato alla liquidazione del danno non patrimoniale, anche indipendentemente dalla condanna per reato di cui all’articolo 185 del codice penale.

 

PROPOSTA DI LEGGE

Articolo 1.

(Finalità).

1. La presente legge ha lo scopo di promuovere la piena attuazione del principio di uguaglianza, assicurando che le differenze di sesso, di razza, di origine etnica, di lingua, di religione o di convinzioni personali, di opinioni politiche, di disabilità, di età, di orientamento sessuale, di condizioni personali e sociali non siano causa di discriminazione, al fine di consentire il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di donne e uomini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Articolo 2.

(Princìpi e definizioni).

1. È vietato porre in essere atti, patti o comportamenti che producono un effetto pregiudizievole discriminando anche in via indiretta le persone in ragione delle qualità soggettive indicate all’articolo 1.
2. Per discriminazione indiretta si intende ogni disposizione, criterio o pratica formalmente neutri, che svantaggiano in misura proporzionalmente maggiore una o più persone in ragione delle qualità soggettive indicate all’articolo 1, salvo che tale disposizione, criterio o pratica siano giustificati da ragioni obiettive, non basate sulle citate qualità ovvero, nel caso di lavoro o di impresa, riguardino requisiti
essenziali al loro svolgimento.
3. I soggetti privati e le amministrazioni pubbliche promuovono azioni positive, intese come misure adottate con atti normativi o con contratti collettivi, o nell’esercizio di poteri autoritativi o di sovraordinazione, volte ad eliminare le disuguaglianze di fatto che ostacolano la piena partecipazione di ogni persona a tutte le attività e a tutti i livelli compresi quelli decisionali. Le azioni positive non ricadono nel divieto di discriminazione.
4. Le amministrazioni pubbliche anche ad ordinamento autonomo, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, gli enti pubblici, anche economici, gli enti locali ed i loro consorzi ed i soggetti a controllo o a partecipazione maggioritaria pubblica, ovvero esercenti pubblici servizi, conformano la propria attività, anche mediante atti organizzativi, ai seguenti princìpi:

a) integrazione dei princìpi di non discriminazione e di pari opportunità nelle politiche generali e di settore, negli atti di programmazione ed organizzativi;

b) promozione di politiche per l’occupazione, anche attraverso idonee misure relative ai tempi e all’organizzazione del lavoro, volte a riconoscere e a garantire libertà di scelte e qualità sociale a donne e uomini.

Articolo 3.

(Tutela giudiziale).

1. Fuori dai casi regolati da altre disposizioni di legge, quando il comportamento di un soggetto privato o di un’amministrazione pubblica produce una discriminazione per i motivi di cui all’articolo 1, l’interessato può chiedere al giudice la cessazione del comportamento pregiudizievole e la rimozione dei suoi effetti, salvo il risarcimento del danno.
2. L’azione si propone dinanzi al giudice del luogo di domicilio dell’istante.
3. Quando la domanda è rivolta alla pronuncia di provvedimenti urgenti, si applicano le disposizioni di cui agli articoli da 669-bis a 669-quaterdecies del codice di procedura civile. Se l’ordinanza è pronunciata prima del giudizio di merito, il giudice provvede alla liquidazione delle spese del procedimento anche nel caso di accoglimento dell’istanza; in tale caso non si applicano le disposizioni di cui all’articolo 669-octies ed all’articolo 669-novies, commi primo, secondo e quarto, del codice di procedura civile.
4. Se è posto in essere un atto, patto o comportamento discriminatorio di carattere collettivo, anche quando non siano individuabili in modo immediato e diretto le persone lese dalla discriminazione, la domanda può essere proposta dagli enti o dalle associazioni rappresentativi dei diritti e degli interessi del gruppo a cui appartengono i soggetti passivi della discriminazione.
5. Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza a proprio danno del comportamento discriminatorio per i motivi di cui all’articolo 1, può dedurre elementi di fatto, relativi a fenomeni di carattere collettivo. Il giudice valuta i fatti dedotti nei limiti di cui all’articolo 2729, primo comma, del codice civile.
6. Chiunque elude l’esecuzione dell’ordinanza che accoglie il ricorso è punito ai sensi dell’articolo 388, primo comma, del codice penale.
7. Con la sentenza che definisce il giudizio, il giudice condanna il responsabile della discriminazione al risarcimento dei danni non patrimoniali, ai sensi dell’articolo 2059 del codice civile.

 

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