Il Cappellano Carcerario

 

Tonache nere dietro le sbarre

«Il Cappellano Carcerario»

 

Indagine nei meandri di una missione di vita nell’esperienza delle prigioni di Sollicciano e di Prato.

 

di Edoardo Semmola

«Perché vado in carcere?
Il motivo è lo stesso
per il quale andrei
in qualsiasi altro posto:
perché incontro sempre miei fratelli
ai quali ho il dovere
di presentarmi
in atteggiamento di servizio…
Io valgo quanto amo»

Don Danilo Cubattoli

INDICE

Premessa: religione e carcere
Il cappellano: «chi era costui?»
Il cappellano: la figura istituzionale - cenni
Culti acattolici - cenni
Sollicciano, due sacerdoti per due realtà
Prato, il cappellano come «istituzione totale»
Conclusioni

Premessa: religione e carcere

Religione. Credere, sperare, affidare il proprio destino ad un volere superiore. Una risposta al bisogno di dare un senso alla propria vita, al di là di ciò che ci è dato vedere e sapere, una costante dell’uomo in ogni epoca storica, in ogni contesto sociale. Una necessità che cresce di intensità con l’aumentare dello sconforto.

Carcere. Il luogo principe di ‘raccolta’ dello sconforto, scatola chiusa sulla solitudine umana, buco nero in cui la mente e il sentire si fanno preda della disperazione. Segregazione, annichilimento, paura che tutto non abbia più senso.

Religione e carcere, due ‘luoghi’ all’interno dei quali si intersecano i momenti di ‘passione’ più intensi delle esperienze umane, sezioni circolari della nostra sfera emotiva elevate all’ennesima potenza. Due realtà che si intersecano, che si scontrano, che si ritrovano a ‘lavorare’ assieme, in simbiosi, per volere del diritto e della consuetudine storica che ha affiancato ad ogni istituzione totale e ad ogni funzione di controllo la magica ‘rete di protezione’ della fede e del culto religioso cattolico.

La religione è sempre stata contemplata, e lo è tuttora, come un elemento fondamentale del trattamento penitenziario. Ogni struttura penitenziaria italiana ‘ospita’ almeno un cappellano cattolico, stipendiato e ‘dipendente’ nelle sue funzioni, nei suoi diritti e nei suoi doveri dallo Stato. Ed è fornita di una cappella per la celebrazione delle funzioni religiose. La ‘domanda’ di fede e di assistenza spirituale dietro le sbarre è molto più alta che nel mondo esterno, frutto della centrifugazione di dolore e sofferenza che la cattività opera sui suoi ‘utenti’. ‘L’offerta’ di fede, come di conforto, di appoggio morale e materiale del cappellano, è per molti condannati alla prigionia la sola finestra sul mondo esterno, sulla libertà.

Il cappellano: «chi era costui?»

Il ministro di culto cattolico all’interno dell’istituzione carceraria è un centro di gravità intorno al quale ruotano una molteplicità di fattori che ne contraddistinguono l’originale funzione e posizione. Il suo ruolo è molto più ampio e variegato rispetto a quello del semplice officiante di un culto, comprendendo tutta una serie di attività che vanno dall’assistenza spirituale a quella materiale e a volte anche giuridico-amministrativa del condannato.

Quello del cappellano carcerario è un lavoro, una missione che richiede enormi sacrifici e tanto tempo da dedicare e da dividere tra chi di tempo ne ha in sovrabbondanza: per parlare con i detenuti, «condividere con loro la pena» per usare un’espressione cara a Don Danilo Cubattoli, cappellano del carcere di Sollicciano - ma per rispetto alla consuetudine venuta a crearsi all’interno dei quell’istituto, al volere dello stesso interessato e in ossequio all’informalità di cui ama circondarsi questo originale prete, d’ora in avanti verrà citato semplicemente come ‘Don Cuba’ - «anche solo nel semplice gesto di informarsi su come sta - continua - chiedergli da dove viene… perché la sofferenza e l’angoscia le vedi direttamente dagli occhi e non c’è bisogno di alcuna domanda».

Il tempo è sempre troppo poco, per il cappellano. E gli impegni sono tanti. Le ‘domandine’ - nomignolo con cui si identificano le richieste formali di colloquio con il sacerdote da parte dei carcerati - si accumulano sul tavolo dell’ufficio del cappellano, giorno dopo giorno, sommandosi le une sulle altre senza sosta. Impossibile accontentare tutti: «Dopo aver scritto la domandina - dice un detenuto marocchino - si può aspettare l’arrivo del cappellano da tre a dieci giorni quando le cose vanno bene, sennò anche tre o sei mesi». Queste richieste raggiungono sempre un numero talmente elevato «che alla fine del mese sono costretta a buttare via quelle che non ho potuto soddisfare» - confessa Suor Elisabetta, ‘combattente’ volontaria nelle fila degli strenui difensori delle esigenze e dei diritti dei reclusi, impegnata sul fronte dell’accoglienza e del recupero anche e soprattutto attraverso l’attività svolta dalla casa d’accoglienza ‘Il Samaritano’ da lei gestita. A Sollicciano, ad esempio, sono attualmente reclusi più di mille individui. Dall’altra parte, solo due cappellani: Don Cuba e Don Giulio Brunella, oltre a Suor Elisabetta. Impossibile ‘servirli’ tutti. Impossibile essere sempre presenti.

La funzione primaria e primigenia del cappellano carcerario è certamente quella religiosa, soprattutto da quando il servo di Dio pagato dallo Stato ha visto cancellare il proprio nome dalla lista dei facenti parte il Consiglio di disciplina del carcere. Posizione che gli permetteva di avere voce in capitolo nella valutazione del comportamento del condannato e che influiva sugli eventuali benefici. La società cambia, si evolve, e nell’era della globalizzazione e dell’immigrazione di massa dai paesi di religione islamica, le prigioni italiane hanno visto una progressiva crescita della popolazione carceraria nera e di credo musulmano. Il cappellano cattolico non può più quindi considerarsi rappresentativo della totalità degli abitatori del mondo di sbarre e mattoni, ma una figura parziale. E lo Stato italiano laico ha giustamente rimosso la figura del religioso dalla funzione di ‘giudice’ del comportamento di un gregge che non si riconosce più in un solo pastore.

Spogliato, almeno in via formale, del suo potere ‘politico’, il ruolo del cappellano si è indirizzato sempre più verso una dimensione spirituale. In sostanza, la sua attuale funzione è quella di assicurare lo svolgimento di una corretta vita religiosa: celebrare la messa (solitamente nei week-end) e i sacramenti individuali, soprattutto la confessione. Obblighi e compiti che lo Stato stesso dà al cappellano. La libertà non è una necessità, la santa messa invece sì. Due cappellani sui tre qui intervistati hanno infatti chiaramente definito le loro priorità: «annunciare Cristo e il Vangelo è il mio ruolo», afferma Don Leonardo Bassilissi, cappellano dell’istituto penitenziario di Prato. «Fornire una finestra su Dio così che Lui ne dia al detenuto una sul mondo» è invece l’aforisma adottato da Don Brunella, giovane collega di Don Cuba, anch’esso impiegato a Sollicciano, per descrivere il proprio operato. Ridurre tutto ad un ‘divino’ ma disimpegnato ‘relata refero’, comunque, sarebbe inesatto, scorretto e ingeneroso nei confronti degli stessi cappellani. La loro presenza è sentita come importantissima dai carcerati per lo spessore umano che alcuni religiosi dimostrano, per il legame personale e di fiducia che a volte si viene a creare con il recluso, per la speranza e l’affetto che molti ricevono, al di fuori del momento religioso. Un vincolo stretto, una vicinanza costante che non di rado lega detenuto e cappellano come se tra loro intercorresse un rapporto di filiazione. Afferma Don Leonardo Bassilissi: «Molti di loro, soprattutto i maghrebini, si lanciano in affettuosi baci e abbracci gridando ‘tu, babbo mio’ e si lasciano andare in pianti». Queste situazioni che possono parere stravaganti, in realtà aiutano molto la resistenza fisica e psicologica dei detenuti e favoriscono l’eterna battaglia per la difesa dei diritti dei carcerati che alcuni cappellani - come il ‘nostro’ Don Cuba - portano avanti fin dagli anni ‘70. Non si può dire però che ciò valga a priori per tutta la categoria. Seppur tutti i cappellani intervistati sono convinti che le condizioni di vita dei reclusi vadano migliorate in nome dei più elementari diritti umani, non tutti sono propensi a farsi carico di questo onere morale. Don Bassilissi, per esempio, è molto critico in merito all’allargamento a sfere giuridico-sociali, come le tematiche relative ai ‘diritti dei detenuti’, del ruolo «predisposto per legge, preordinato, marcatamente religioso» del cappellano. La messa innanzitutto, poi i colloqui per conferire forza d’animo e coraggio. E solo in via eccezionale è disposto a valicare il proprio ruolo istituzionale.

Un altro aspetto importantissimo della cappellania è la cosiddetta ‘assistenza materiale’. I reclusi, soprattutto quelli che versano in situazione di indigenza, necessitano costantemente dei beni terreni più essenziali: il vestiario innanzitutto, ma anche occhiali, dentifricio (che non è possibile introdurre in prigione in quanto passibile di diventare contenitore per droghe), oltre ai classici sigarette e francobolli. A volte il cappellano aiuta i condannati anche nella ricerca di un lavoro in cui impiegarli in caso di permesso premio. Raramente possono essere davvero d’aiuto: «Io mi sono sentito rispondere da Don Cuba ‘non posso fare niente’ - dice un tunisino 34enne detenuto a Sollicciano da un anno e mezzo - quando mi sono azzardato a chiedere aiuto per trovare lavoro». Per chiudere la lista degli aiuti materiali, è interessante una particolarità ‘firmata’ Don Cuba, un aneddoto:

Quando stanno per uscire in permesso e mi dicono che vogliono andare con delle prostitute, io gli porto anche il viagra… si sa: dopo tanti anni di astinenza è difficile riuscire di nuovo a fare l’amore. Succede poi che se la prostituta li prende in giro, si sentano talmente umiliati da provare l’impulso di strozzarla. Una volta un detenuto che si era fatto 30 anni stava per tagliare il collo ad una prostituta che glie ne aveva combinate di tutti i colori. Sul momento di accoltellarla però a pensato «che dirà il Cuba?», e si è fermato.

    Le richieste di questi oggetti sono giornaliere, incessanti. Il più delle volte i volontari che aiutano i sacerdoti e i cappellani stessi non riescono a stare al passo con le esigenze più semplici e fondamentali. Per mancanza di soldi, di tempo, di aiuto.

    Terza e ultima funzione del sacerdote carcerario è quella di prestare aiuto ai detenuti anche dal punto di vista giuridico-amministrativo. Seppure normalmente sia un impegno di lieve entità, è ugualmente importante, esplicandosi soprattutto nel disbrigo di pratiche riguardanti la situazione della famiglia e dei figli, o problemi relativi all’immigrazione, alle pensioni, ai permessi premio e agli assegni di invalidità.

    Dal corpo allo spirito, quindi, il cappellano a volte si trova suo malgrado ad essere l’unico punto di riferimento per molti prigionieri della propria solitudine, altrimenti abbandonati a se stessi. Ciò comporta, sicuramente, un notevole margine di strumentalizzazione della fede da parte dei detenuti che alcuni cappellani come Don Cuba comprendono e sulla quale ‘sorvolano’. Strumentalizzazione e falsificazione di un sentimento causati però da una situazione di estrema indigenza che va al di là dei normali parametri di ‘peccato’. Insomma, la sofferenza a volte giustifica l’opportunismo. Questo si vede innanzitutto nella massiccia affluenza alla messa da parte di reclusi di tutte le etnie e religioni (i cappellani intervistati asseriscono che sono proprio i musulmani i più assidui frequentatori della cappella: alcuni detenuti testimoniano una presenza che va dalle 30 alle 40 persone). Una partecipazione che supera di gran lunga quella riscontrata tra le persone ‘a piede libero’: spesso la messa diviene uno dei pochi momenti di socializzazione e di relativa libertà all’interno delle mura carcerarie.

    Da non sottovalutare, comunque, rimangono molti casi di autentica presa di coscienza della propria fede precedentemente ‘nascosta’. L’incertezza del domani, l’interminabile fluire delle ore e dei giorni senza alcun controllo sulla propria vita possono portare ad ampliare la sensibilità spirituale (e in questo gioca un ruolo importante anche la ‘richiesta’ di pentimento dei torti inflitti, agevolando l’avvicinamento alla fede religiosa che può essere una compagna di vita ed un’ancora di salvezza convincente per chi è costretto a lunghi periodi di detenzione). A prova di ciò si possono addurre le innumerevoli richieste di simboli religiosi: dalla bibbia alle immagini dei santi, passando per il rosario, che i detenuti (anche musulmani) rivolgono al cappellano. A questo proposito, di particolare importanza e originalità è l’operato, oltre all’opinione, di Suor Elisabetta. La famosa suora che diede asilo a Pietro Pacciani sentenzia così sull’argomento ‘accessori religiosi’: «Anche se me li chiedono» - santini e oggetti vari - «io non glieli porto perché quella non è religiosità ma solo superstizione… e io a questo non ci sto»».

    Tante funzioni per un solo vero ruolo. Tanti compiti che valicano i semplici parametri del diritto per sfociare direttamente nel campo della morale. Un lavoro fatto di fatica e dedizione, di sacrifici e di fede.

    Il cappellano: la figura istituzionale - cenni

    Seppur decaduto dal suo incarico di membro del Consiglio di disciplina, il cappellano carcerario continua a fare parte (da 26 anni) della commissione che redige il regolamento interno e le modalità del trattamento penitenziario. Rimanendo una figura di un certo ‘peso politico’. Inoltre viene spesso coinvolto, ufficialmente od ufficiosamente a seconda dell’istituto di pena in questione, nelle decisioni riguardanti il trattamento e la fruizione delle misure alternative da parte dei detenuti. Addirittura la stessa frequenza e partecipazione alle funzioni religiose - come testimonia anche Don Leonardo Bassilissi - è un parametro preso in considerazione nella valutazione del comportamento del soggetto recluso. La funzione spirituale tipica della ‘tonaca nera’, in quest’ottica, è accuratamente messa in secondo piano. E parlare di ‘strumentalizzazione’ di un ruolo di ‘potere morale’ pare quanto mai riduttivo.

    L’art. 15 dell’ordinamento penitenziario stabilisce che

    Il trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia.

      Il termine ‘religione’, caratterizzato a differenza degli altri sopracitati per la peculiare sfera di competenza (la coscienza individuale), posto in così stretta correlazione con i laici ‘istruzione’, ‘lavoro’, cultura’ e ‘sport’ ricorda vagamente l’effetto sonoro di un trentatré giri graffiato sotto i colpi di una testina arrugginita. Un termine che preesisteva l’attuale forma dell’ordinamento penitenziario, che sta sopravvivendo alla laicizzazione della vita pubblica e che non da segni di cedimento nemmeno nell’opinione pubblica. Ecco tornare il terrificante ticchettio che annuncia la ‘bomba’ inarrestabile della mai doma foucaultiana ‘istituzione totale’. A volte, interpretando con un pizzico di malizia le parole degli stessi sacerdoti, si rischia persino di confondere i confini di ruolo del cappellano con quelli dell’educatore. Sacro e profano a confronto, oppure mischiati l’un con l’altro, in carcere come in regime di libertà.

      Culti acattolici - cenni

      A Sollicciano e a Prato, i cosiddetti extracomunitari (principalmente maghrebini, albanesi e zingari) costituiscono il 60% della popolazione carceraria. Per quanto riguarda il fattore religioso c’è sostanziale parità numerica tra i fedeli cattolici e quelli islamici, quando non è addirittura l’Islam ad essere ‘religione’ di maggioranza.

      La formale libertà religiosa e il diritto di professare il proprio culto, principio valido anche tra le mura di una prigione, non permettono ancora il verificarsi di una situazione di parità di trattamento tra le varie confessioni, mantenendo l’ormai incallito ed incancrenito ‘privilegio storico-consuetudinario’ a favore della religione cattolica. Infatti ogni prigione è dotata di una cappella. Nessuna invece possiede una moschea o un qualsiasi altro luogo di culto per la religione islamica. Neppure si è mai verificato che gli istituti penitenziari di Sollicciano e Prato abbiano messo a disposizione dei detenuti di religione islamica i tappetini per la preghiera. Lo stesso ragionamento vale per le altre confessioni, ma con problemi e conseguenze ben diverse dovute al basso numero di reclusi di religioni ‘terze’ all’interno di carceri italiani. Peco Alqi, cittadino albanese di religione cristiano ortodossa, da tre anni detenuto a Sollicciano, racconta la ‘vita religiosa’ all’interno del carcere con grande semplicità ed immediatezza: «Io vado a messa con tutti gli altri ma non mi importa del rito» - cattolico - «perché io ci vado solo per la mia preghiera, per stare in un rapporto a due tra me e Dio». Il ruolo del cappellano, per Peco, «è quello di rappresentare Dio… che vuoi che importi con che rito lo faccia». In fondo - sembra dire Peco - le questioni di carattere religioso sono problemi secondari rispetto alle pessime condizioni di vita ‘materiale’.

      Questa condizione di evidente disparità si riscontra anche e soprattutto nella presenza del solo cappellano cattolico all’interno della Commissione che stabilisce il regolamento e le modalità del trattamento penitenziario. L’accesso in prigione di un officiante un culto acattolico è un evento quanto mai raro. Dice Don Cuba: «Alla fine del periodo del Ramadan è consentito l’accesso al carcere da parte dell’Imam, o in chiesa o in un’altra sala. Io e Don Giulio assistiamo spesso al rito, come loro assistono alla messa». Un’altra volta voce contraria, Don Bassilissi:

      La legge prevede l’utilizzo di uno più cappellani cattolici a seconda del numero di detenuti cattolici. Per gli altri culti si pongono due problemi fondamentali: il numero di appartenenti ad un determinato credo e l’esistenza o meno di un’intesa con lo Stato. Qui a Prato comunque non si sono mai posti problemi di culto: entrano pastori avventisti, un evangelico e i testimoni di Geova. Per quanto riguarda i musulmani la questione è più complessa: mancando l’intesa ma essendo loro una percentuale molto alta all’interno del carcere, si porrà presto il problema degli edifici e dei ministri di culto. Da noi comunque non si è mai visto nessun Imam e non so se dall’esterno o dall’interno della prigione sia mai stata fatta qualche richiesta in proposito. Nessuno si è mai fatto vivo, né dal Centro islamico di Firenze né da quello di Prato, di Roma o di Milano.

        Torna prepotentemente l’idea ‘numerocratica’ del privilegio religioso, in barba all’articolo 8 della Costituzione italiana. E torna lo spauracchio del fondamentalismo cattolico, sempre in agguato, nascosto dietro la facciata paternalistica di un ruolo (quello del cappellano) sempre pronto a farsi carico delle esigenze etiche di tutti, a cercare e a trovare ‘soluzioni morali’ per tutti i problemi che investono la sfera della coscienza. Il cappellano è il solo custode dell’anima del recluso: egli ne possiede le chiavi e sempre sua è la decisione su come quando e perché intervenire. A Prato, su una popolazione carceraria di circa 500 elementi, ci sono ad oggi circa 200 musulmani. Di questi, l’80% chiede (e ottiene) di osservare il Ramadan. Dati alla mano, sono gli stessi cappellani a farsi carico del problema ‘Islam’, manifestando comprensione e sincera partecipazione dei problemi dei detenuti appartenenti a questa religione. D’altra parte, sempre i cappellani toscani sono più o meno tutti propensi a considerare questa situazione del tutto legittima e ‘costituzionale’. La religione cattolica viene considerata ‘un gradino avanti’ alle altre, sempre. Anche da parte di quei cappellani - come Don Cuba - che mostrano un grado di apertura culturale inaspettata da parte di chi indossa la tonaca nera. Afferma il sacerdote di Sollicciano, in un ipotetico colloquio con un detenuto non cattolico:

        Per me sono tutti fratelli, tutti uguali, ma ricordiamoci bene che la Verità sta solo in Gesù Cristo. Va bene Buddha, va bene Maometto, va bene tutto… ma se mi chiedi la salvezza dell’anima io ti devo dire che solo Gesù te la può dare perché Buddha e Maometto erano uomini come me e te.

          Tempi duri per i detenuti musulmani. Problemi di carattere etico-religioso? O cappellano cattolico o niente: la scelta è semplice. Forse anche per questo non sono rare le ‘domandine’ di colloquio con il cappellano compilate da parte di prigionieri provenienti dal Maghreb: per parlare, farsi aiutare, se non addirittura per effettuare delle vere e proprie conversioni al cattolicesimo. Una sola religione, una sola ‘propaganda di fede’, un solo potere etico. E una vasca intera di pesci boccheggianti e desiderosi di aiuto all’interno della quale pescare con estrema facilità.

          Sollicciano, due sacerdoti per due realtà

          Mentre a Prato è il solo Don Leonardo Bassilissi ad occupare il ruolo di cappellano carcerario. A Sollicciano, istituto contenente un numero doppio di detenuti rispetto al suo omologo pratese, i sacerdoti sono due: Don Cuba e Don Giulio Brunella.

          Il primo, residuo storico di una missione antica, è diventato quasi un simbolo per molti detenuti, un fratello, un amico, un confidente. Tanto che molti carcerati lo chiamano ‘Cuba’ e basta, quasi a scavalcare la sua funzione istituzionale, passare al di là della tonaca per arrivare direttamente all’uomo. Si alterna nella celebrazione della messa con il collega Don Brunella, anche se con il passare del tempo e delle rughe sul volto del vecchio prete, sempre più spesso è Don Giulio Brunella a celebrare i sacramenti. Per di più, Don Cuba si dedica ai colloqui e al soddisfacimento dei bisogni materiali dei carcerati. Vive in carcere la maggior parte del tempo della sua giornata, visitando con passo lento e stanco tutta la struttura, sezione dopo sezione (due al giorno per un totale di undici presenti nell’istituto di pena di Prato).

          Il secondo (impiegato a Sollicciano da 4 anni), è un nuovo innesto dovuto alla ‘emergenza Islam’. Infatti Don Giulio appartiene alla chiesa melchita, istituzione araba di tradizione mediorientale, di lingua e di cultura araba, in comunione con la chiesa di Roma. Fondamentale presenza, in quanto parla perfettamente la lingua araba. Non un ‘prete’ ma un ‘archimandrita’: infatti non ama essere chiamato ‘don’, preferendo il titolo arabo di ‘abuna’. Don Giulio è giunto a Firenze dopo una militanza di 15 anni in Palestina e si è formato ‘professionalmente’ in Libano. Oltre al ruolo di cappellano carcerario è anche mediatore culturale presso il carcere minorile di Firenze. Descrive così la sua esperienza:

          A Sollicciano si vive quotidianamente in una situazione di estrema privazione e le alternative sono due: disperazione o speranza… nella fede. Ciò che più mi sento chiedere dai detenuti è la libertà, come se io potessi fare qualcosa per accorciare la loro permanenza. Ciò che posso offrire è la ‘libertà’ dell’anima, cosa che richiede tanta forza e pazienza.

            La pazienza sembra essere il filo rosso che unisce tutti i cappellani intervistati: tutti mettono al primo posto questa tra le qualità necessarie per compiere questo lavoro. Riguardo al suo ruolo specifico - quello di rapportarsi ai detenuti di lingua araba e quindi di rapportarsi anche con l’Islam - Don Giulio Brunella parla chiaro: «L’Islam è sorella della religione cristiana, hanno una comune tradizione abramitica, quindi per andare d’accordo basta volerlo». Durante le feste religiose islamiche, Don Giulio collabora con la moschea di via Ghibellina: insieme ai sacerdoti musulmani partecipa alla preghiera all’interno della cappella di Sollicciano, accogliendo li come fosse il padrone di casa. Durante tutto il resto dell’anno cerca di occuparsi del maggior numero di detenuti arabi possibile ma «loro sono tanti, io invece sono solo… è difficile che riesca a seguirli tutti». Il problema di sempre, che siano cristiani, musulmani o di altre culture.

            Malgrado tutto anche Don Giulio è principalmente un prete:

            Le sbarre, sono le sbarre il simbolo di separazione tra questo e l’altro mondo (dentro e fuori il carcere)… e con la presenza cerco di far sentire loro che non sono dimenticati da Dio ma solo dagli uomini, parlando arabo trasmetto loro il sapore della loro cultura, della loro famiglia. Noi cappellani siamo padri e pastori di tutta la comunità carceraria, sia dei reclusi che degli agenti di polizia penitenziaria: punti di riferimento, testimoni di speranza. E quando riusciamo a far tornare un po’ di sorriso sugli occhi di un carcerato o di un agente, abbiamo già fatto il nostro lavoro.

              Gli agenti di polizia penitenziaria: destinatari di un potere enorme ma anche di un’enorme sofferenza, costretti a vivere più dentro che fuori la prigione. Sensibilità, sconforto, tristezza: anche loro devono convivere con la ‘segregazione’. Continua Don Giulio:

              Faccio capire agli agenti che il loro è un lavoro ma che oggetto del loro lavoro sono esseri umani come loro… anche solo una parola d’affetto, un ‘buongiorno’, possono fare molto nel rapporto tra agente e detenuto. Cerco di comunicargli che anche i detenuti meritano rispetto perché sono figli cari a Dio, come loro. Spesso però sono costretti a fare la figura dei ‘cattivi’ mentre chi sta in Parlamento a fare le riforme passa per ‘buono’… devono obbedire agli ordini: è un duro mestiere.

                Il tema del rapporto cappellano-agente-recluso è uno dei più cari anche per Don Cuba:

                Sono bravi ragazzi anche loro, come tutti gli altri… e hanno quotidianamente a che fare con la sofferenza. Io gli dico sempre di avere forza d’animo e gentilezza: c’è chi lo capisce e chi no… per me sono tutti figli di Dio.

                  Agenti, detenuti, uomini liberi, innocenti e colpevoli, credenti e non credenti: non è questo che importa. La filosofia di vita del decano del carcere di Sollicciano è semplice e chiara:

                  Non chiedo mai che crimine uno ha commesso, non mi interessa. Ciò che m’importa è alleviare le sofferenze… e lì dentro - in carcere - soffrono tutti. Il mio scopo è di far sentire a questi ragazzi - i reclusi - che c’è uno che gli vuol bene, che è lì per fargli compagnia, che non li giudica. Buddista? Maomettano? Non me ne frega nulla io gli devo affetto, amore, glie lo devo a prescindere da tutto.

                    E ‘a prescindere da tutto’ è anche il comportamento di Don Cuba, sempre tra lo scherzo e la comprensione, a metà tra la rigidità della funzione e la tranquillità emotiva di chi non ha obblighi di controllo o repressione, senza mancare a volte di un tocco di aggressività. Racconta il vecchio prete che una volta, entrato in un ufficio del carcere con due agenti, due infermieri e un detenuto con un libro in mano, si sentì attaccato da quest’ultimo che vociava: «I preti andrebbero tutti ammazzati». Rispose, stando allo scherzo: «Hai ragione, ce n’è troppi». Avuto di ritorno un nuovo attacco, anche il sacerdote cominciò ad alzare la voce. «Dopo qualche minuto di litigata - ricorda sorridendo - siamo diventati subito amici». Che è proprio ciò che sta più a cuore al vecchio prete, l’amicizia, lui che è così affezionato alle sue sbarre e agli ‘ospiti’ che via via si succedono al loro interno.

                    Non sempre però gli ‘interventi’ di Don Cuba sono così facili e dalle conseguenze innocue:

                    Un uomo molto grosso di nome Stefano - racconta - una volta minacciava di suicidarsi con una bottiglia rotta… mi ci è voluto uno sforzo enorme per convincerlo a recedere dal suo intento.

                      Ancora:

                        Poi ci fu Roberto, uno dei miei ‘ragazzi di San Frediano’ che da libero aveva la fama di ‘cazzottatore’… adesso che è dentro è diventato un bravo ragazzo ma gli sono dovuto stare dietro parecchio.

                      Parole, parole, parole. Queste sono le armi di Don Cuba, niente di più. Ma quando si ha a che fare con la droga o con la ‘follia’ (termine da lui spesso usato per denominare più di un comportamento), le parole spesso non bastano. «Io cerco di essere sempre semplice - afferma - in tutte le situazioni è l’atteggiamento giusto». Racconta:

                      Una volta mi è capitato di aver a che fare con un eroinomane che in carcere si era disintossicato ma che appena uscito si era subito rifatto una pera. Lo salvarono per miracolo e lo portarono in comunità. Cercai di fargli capire il rischio che aveva corso ma lui ci ricascò e questa volta ci rimase secco. Mi ero accorto che era folle, anche la sorella era eroinomane… fuori dalla prigione non potevo seguirlo.

                        Un impegno continuo, una vera e propria missione sociale prima ancora che religiosa. Riguardo alla ‘conversione’ dei non cattolici, per Don Cuba è un problema che non sussiste. Dichiara esplicitamente che non ha mai tentato di convertire nessuno, cerca comunque di «far cominciare a credere al valore assoluto e unico dell’essere uomini» - per usare le sue stesse parole. Per Don Cuba se una persona si domanda il perché sta al mondo non può rispondersi altro che «stiamo al mondo per elevarci da uomini a ‘dei’, per far crescere l’anima divina dentro di noi». Una risposta che sia «valida per tutti». Ma ciò che veramente gli importa è «essere amici».

                        I detenuti di Sollicciano, da parte loro, hanno dimostrato (durante il corso di questa indagine) di essere molto affezionati ai loro due cappellani. Il berbero (antichissima popolazione che vive in Marocco) Arrouch Lekbtr, 33 anni, sostiene di non aver mai conosciuto Don Cuba ma dice che la presenza, seppur semestrale, di Don Giulio Brunella e quella (molto più assidua) di Suor Elisabetta gli abbia giovato molto. «Quando non vengono a trovarmi sento una grande mancanza - ha sentenziato - anche se io non ho mai chiesto nulla a loro». C’è anche chi, come Renzo, cinquantenne fiorentino recluso a Sollicciano da sei mesi, dichiara di non aver mai visto il cappellano se non durante la messa (e anche durante la celebrazione di questa ha visto sempre e solo Don Giulio, mai Don Cuba). «Su in sezione veniva solo Suor Elisabetta - afferma - e per parlarle ho dovuto compilare la domandina cinque o sei volte».

                        Prato, il cappellano come «istituzione totale»

                        Don Leonardo Bassilissi, al contrario di quanto afferma il suo più anziano collega di Firenze, mostra di non gradire il ruolo informale di ‘difensore dei diritti’ del detenuto, considerandolo secondario rispetto alla funzione principale e codificata che è quella di ‘annunciare Gesù Cristo’ e pericoloso perché pone il cappellano in un’ottica, quella di ‘giudice’, che non gli compete e che egli personalmente non gradisce. Non un vero e proprio ‘me ne lavo le mani’ alla Ponzio Pilato, ma sicuramente una dichiarazione di impotenza o di non volontà di superare i vincoli predisposti dalla legge. Proprio la legge, nella sua essenza formale, è un parametro molto sentito da Don Bassilissi, uno scudo dietro cui nascondersi e da usare come un cane guida per ciechi nel profondo buco nero della prigione. Pur nella sua rigorosa ‘legalità’, anche Don Leonardo ha avuto i suoi ‘guai’ con il diritto:

                        Sono stato anche sotto processo per aver parlato con la moglie di un detenuto sul cui crimine si stava ancora indagando (un furto la cui refurtiva non era stata recupera). Non c’erano prove e fui assolto… fu ridicolo, io risposi al giudice che non potevo riferire cosa ci eravamo detti perché sono questioni coperte da segreto e dovevano rimanere tali.

                          Legge o non legge, Don Leonardo Bassilissi è molto legato a schemi e preconcetti, filtranti silenziosamente dai suoi discorsi e dai suoi aneddoti, che macchiano il suo onesto lavoro di qualche alone di incertezza. D’altra parte lo zelo e il profondo afflato emotivo e culturale dimostrato da Don Cuba sembrano essere non la regola ma l’eccezione, a sentire le testimonianza di chi, come Francesco (39enne milanese detenuto a Prato dal 1995 ma carcerato dal 1980), ha avuto il ‘piacere’ di visitare più di un istituto di pena nella sua lunga carriera di recluso. Mentre il pensiero di Don Cuba è rivolto in prima (e spesso anche in ultima) istanza alle esigenze dei detenuti, mettendosi a spada tratta dalla loro parte, a prescindere dal male da loro commesso, Don Leonardo dichiara fermamente di non stare dalla parte di nessuno e aggiunge: «Non passo sopra a niente, non chiudo un occhio su niente e soprattutto rispetto la legge fedelmente. Non amo l’espressione ‘stare dalla parte dei detenuti’ perché si deve essere dalla parte di tutti».

                          Anche per lui, come è ovvio ‘a parole’, non c’è nessuna differenza tra italiani (cristiani) e arabi (musulmani). Anche se dichiara senza pudore di essere d’accordo con le parole pronunciate l’anno scorso dal cardinale Biffi, vescovo di Bologna, sul fatto che i musulmani hanno maggiori difficoltà di integrazione in Italia dei cattolici. «Ciò non toglie - aggiunge - che quando ho a che fare con un musulmano io non gli dia tutto ciò di cui ha diritto». Notare bene: ‘diritto’, non ‘necessità’. Una volta Don Leonardo si è preso in casa un ragazzo tunisino che era fuori dalla prigione in permesso premio. Racconta il prete:

                          Me ne faceva passare di tutte: gli avevo trovato anche un lavoro ma lui l’ha lasciato, poi è scappato e si è buttato sotto una macchina. Si ubriacava spesso, mi minacciava. Per potermelo togliere dai piedi sono dovuto andare dal vescovo e in questura, ho detto: o via lui o via io!

                            Ripensando orgogliosamente ai suoi quindici anni da cappellano carcerario, comunque, il sacerdote di Prato dichiara con soddisfazione di essersi sentito dire solo tre o quattro volte «lei aiuta solo i cristiani». «E questo è chiaramente falso - sentenzia - perché io aiuto tutti quelli che hanno bisogno».

                            Don Bassilissi celebra sei messe alla settimana, tutte dal venerdì alla domenica. «Ognuna di essa - afferma - è frequentata dal 30% circa della popolazione carceraria cattolica». Due volte alla settimana si dedica al catechismo con l’aiuto di sei collaboratori, per un totale di circa cinquanta ‘utenti’. Tutte le mattine, dalle 10 alle 13, passa dalle sezioni per incontrare i detenuti nei colloqui individuali. Ben 450 carcerati, sui 500 attualmente reclusi a Prato, compilano regolarmente la domanda e lui riesce a soddisfarli quasi tutti, avvalendosi dell’aiuto (dall’esterno) di una fitta rete di collaboratori provenienti dal volontariato che sbrigano diversi tipi di commissioni, soprattutto per quanto riguarda la ricerca degli oggetti richiesti dai detenuti durante il colloquio. «Mi chiedono di tutto - dice - dalle batterie dell’orologio al cinturino, dai calzini alle mutande, fino alle lenzuola. Per non parlare poi delle richieste di contatto con la famiglia e con gli avvocati». Problemi nel rapporto con Dio e con il proprio delitto sono, per Don Leonardo, le questioni più frequenti che gli vengono rivolte. Poi vengono anche temi più giuridici: come ottenere benefici e sconti di pena sono domande all’ordine del giorno. «Mi sento come un surrogato dell’assistente sociale» - confessa.

                            In quindici anni, inoltre, Don Leonardo Bassilissi ha battezzato tre persone (tre conversioni di arabi dall’islamismo al cattolicesimo) e nel solo giorno del 3 giugno di quest’anno ne ha battezzate altre nove: sei albanesi e tre cinesi (ciò significa altre nove ‘anime’ convertite alle religione di potere). «Sono orgoglioso del mio rapporto con loro - commenta - mi vogliono tutti molto bene».

                            Prima di entrare il carcere - impiego che non ha scelto lui ma che gli è stato imposto dal vescovo - Don Leonardo faceva l’insegnate di lettere. Descrive così il paragone tra le due attività:

                            Il carcere mi ha realizzato quanto se non addirittura più della scuola. E mi comporto ugualmente nell’un posto come nell’altro: sono un tipo duro, non accetto strumentalizzazioni in chiesa, tutti devono essere interessati e rispettosi. Poi ho anche fatto aprire in carcere una scuola di ragioneria, affinché i detenuti amino la cultura… in 15 anni ho fatto sostenere 20 esami di maturità.

                              «Questa scuola è di grande aiuto per noi - afferma ancora Francesco - ed è soprattutto un impegno giornaliero che ci distoglie dalla noia». Tutto ciò che fa Don Leonardo, a sentire il parere di Francesco ed Enzo, è ‘ottimo’, ‘splendido’, ‘fondamentale per i detenuti’. Continua:

                              Prima di conoscerlo ero poco credente e per niente praticante. Adesso vado regolarmente a messa e sono più felice. Don Leonardo è un grande uomo prima ancora che un grande prete, un papà adottivo che si occupa di cinquecento ragazzi… quando ho avuto problemi di salute è stato lui a fare da tramite tra me e mia moglie. E poi si è occupato anche di mio figlio quando toccò a lui andare in ospedale: è stato tre giorni in coma e stava per morire. Mia moglie dice che se non ci fosse questo prete un detenuto morirebbe di fame, di sete e di tutto il resto.

                                In fondo, lui parla della Chiesa e di Gesù Cristo e riesce a trasmettere il suo amore a tutti noi, copre tutte le lacune degli assistenti sociali e fa tutto questo con grande passione.

                                Conclusioni

                                La figura del cappellano è sicuramente una delle più positive dell’ambiente carcerario, dal punto di vista dei detenuti, almeno per quanto riguarda i due istituti presi in considerazione in questa indagine. Il lavoro profuso da questi uomini è encomiabile, stoico, e in certi casi rasente persino ‘l’eroico’. Dubbi rimangono quando si analizzano principi e modalità di intervento nella vita del detenuto. E nascono sospetti dal momento che al cappellano cattolico è sostanzialmente conferito il monopolio del potere di manipolare le coscienze. È un ruolo pericoloso ma utile, per non dire addirittura indispensabile.

                                La figura del cappellano è legata a filo doppio ad un’idea di potere vecchia quanto il mondo: il potere di cambiare le persone senza che queste se ne possano accorgere, agendo ‘da dentro’, dall’anima silenziosa ma avida di felicità e libertà.