Lo shock primario. Le radici del fanatismo da Neandertal alle Torri Gemelle

Luigi De Marchi
RAI-ERI
2002
ISBN: 
9788839712080

Lo schema interpretativo proposto nel libro consente di rendersi conto non solo delle molteplici elaborazioni psicologiche e culturali dell’angoscia di morte, ma anche come queste abbiano causato una serie di danni gravissimi all’umanità.

Abbandonato l’assunto, prima sostenuto, che considerava l’essere umano - fondamentalmente sereno e pacifico - trasformato di volta in volta in vittima e carnefice dalla cosiddetta “società malata” (determinismo sociologico), l’autore ha ultimamente concepito uno schema interpretativo dell’intero processo dell’evoluzione culturale umana per spiegare, in termini “psicologico-esistenziali”, proprio la natura negativa di una società che da sempre ha provocato infelicità, distruzione, sfruttamento, violenze, etc. Come si sarebbe originata, specialmente in epoca pre-culturale, questa struttura malata e violenta, partendo da una base umana tendente all’armonia e alla bontà? Ripercorrendo le tappe teoriche di noti filosofi, sociologi e psicologi, specialmente riesaminando gli studi di Freud sull’istinto di morte e quelli di Reich sull’angoscia dell’orgasmo, Luigi De Marchi inizia a ipotizzare che la morte, o meglio, l’angoscia di morte, abilmente rimossa in tutte quelle teorie interpretative (proprio secondo il noto meccanismo difensivo freudiano), abbia provocato nell’uomo primordiale «…una reazione di terrore e di panico […] definita shock esistenziale che sta alla base della nascita e di molti sviluppi della cultura umana, se per cultura s’intende […] la produzione di idee, fantasie, miti, credenze…». De Marchi è consapevole che è impossibile dimostrare, senza ombra di dubbio, quando la scimmia umana iniziò a darsi questo tipo di cultura (non quella cosiddetta “materiale”, privilegiata dagli studi marxisti); tuttavia nota che «…il più antico documento di cultura umana […] finora conosciuto […] sono le sepolture neandertaliane del paleolitico medio».

La particolare posizione rannicchiata, i resti di cibo fossilizzati, insomma tutta una ritualizzazione della sepoltura deducibile da questi elementi, lascerebbe supporre (l’autore afferma con certezza) l’esistenza di una capacità ideativa, un’elaborazione mitico-fantastica, secondo la quale s’iniziava a credere a una vita oltre la morte, proprio negando la morte stessa; una sorta, quindi di difesa psichica contro lo shock primario, cioè l’inevitabilità della propria morte. Anche i riti d’iniziazione, caratterizzati dal passaggio da una morte simbolica a una rinascita, sembrano essere «…un’altra testimonianza dal carattere primario e prioritario della negazione della morte rispetto a ogni altra motivazione culturale». Anche in altre civiltà antichissime si nota l’ossessione e il terrore di morire, per esempio in quella egizia. Dunque, l’autore sostiene che ogni tipo di cultura ha posto le basi sullo shock esistenziale e sul bisogno emozionale immediato e non consapevole di difendersi dall’angoscia di morte, sopraggiunta contemporaneamente alla nascita della coscienza.

Ma a questo punto è naturale chiedersi: cosa ha spinto, allora, l’uomo ad accanirsi contro le altre genti? Non sarebbe bastata la capacità di credere in una vita ultraterrena, per esorcizzare la morte? La spiegazione, ovviamente, va data in chiave psicologica. Tra gli Egizi e in altre culture, la concezione della morte, come castigo e punizione e la parallela necessità d’espiare la colpa presunta o quella di sedare l’ira delle divinità offese, avrebbe innescato un meccanismo proiettivo (cioè attribuire ad altri la colpa della propria morte) tanto da inveire su un altro individuo o gruppo ritenuto malefico o contrario alla Vera Fede.

Quasi tutte le religioni storiche (con parziale eccezione del buddhismo e del confucianesimo) hanno collegato l’immortalità con gli obblighi morali e rituali, ma è con lo zoroastrismo che si sviluppò una “teoria dell’aldilà”, prevedendo castighi tremendi ai peccatori, e che indusse i suoi seguaci a far guerra agli infedeli per convertirli o sterminarli. Si arriva così al fanatismo religioso per cui la Vera Fede diventa l’unica via di salvezza ultraterrena e gli infedeli rappresentano gli alleati del demonio. Uscendo dal territorio iraniano, in cui lo zoroastrismo rimase circoscritto, la storia ci narra delle carneficine attuate dai cristiani e dagli islamici, guerre sanguinarie volute proprio da queste religioni messianiche e catastrofiche. L’aggressività espansionistica e l’intransigenza religiosa sono risultate, però, meno accentuate nel taoismo, nel buddismo e nel confucianesimo proprio perché in esse il mito paradisiaco è più sfumato e la negazione della morte individuale è meno categorica.

L’autore espone dettagliatamente e con coerenza le argomentazioni sulla difesa religiosa, ma anche su quella politica e quella filosofica. Nei periodi di crisi delle certezze religiose (Rinascimento, Illuminismo, Novecento e Terzo millennio), «…la psiche e la cultura occidentale hanno tentato di rimpiazzare i millenarismi religiosi con due millenarismi “laici”: quello naturalista e quello storicista». Tra i due, ovviamente, quello più rovinoso fu quello storicista che produsse i totalitarismi, sia di destra sia di sinistra. Anche queste forme politiche, non religiose, sono caratterizzate da De Marchi come fanatismi millenaristi a sfondo dogmatico non trascendente che ebbero, appunto, rapida diffusione proprio perché riuscirono a compensare la crescente crisi delle certezze ultraterrene, spostando l’interesse e l’enfasi su progetti mitici di universale felicità terrena. Fino a oggi si è assistito e si assiste a un’intercambiabilità di millenarismi di varia natura (dal terrorismo politico, al terrorismo islamico, al misticismo orientale, al movimento no-global, ecc.), tutti tentativi per difendersi da una crisi che è soprattutto esistenziale e non soltanto economica, demografica, ecologica e militare.

L’autore, in modo sofferto e accorato, ritiene che piano piano tutte queste difese estreme stiano crollando: «…Resta da vedere se l’essere umano riuscirà a sopravvivere senza di esse, se sarà costretto a regredire a livelli coscienziali e intellettivi che ne consentano la ricostruzione, o, infine, se riuscirà a elaborare una nuova cultura, non più millenaristica e salvazionista, ma risanata dai funesti delirî espiatorî e paranoicali di tutta la sua storia e, quindi, aperta all’amore autentico tra gli uomini, alla loro solidale alleanza contro il comune destino». Ho preferito riportare interamente questo brano, perché ritengo che racchiuda il senso di questo grande lavoro. Lo schema interpretativo proposto da De Marchi è sicuramente affascinante e originale, fermo restando che si tratta essenzialmente di un’altra interpretazione della cultura umana, che si differenzia dalle principali e contrapposte concezioni antropologiche finora conosciute. Il suo merito è quello di aver individuato l’importanza dei meccanismi psicologici che sottostanno a tutte le ideologie, religiose e non; in questo caso, la difesa paranoicale dall’angoscia di morte. Siccome non è pensabile di rendere esaustiva la trattazione di questo delicato argomento in poche pagine, consiglio la lettura del testo di Luigi De Marchi, per rendersi personalmente conto di tutte le sfumature e le riflessioni sfuggite alla mia elaborazione e per poterlo apprezzare o meno.

Rosalba Sgroia,
Circolo UAAR di Roma.
Settembre 2002