Nati per credere

Perchè il nostro cervello sembra predisposto a fraintendere la ...
Vittorio Girotto, Telmo Pievani, Giorgio Vallortigara
Codice
2008
ISBN: 
9788875781101

Non più tardi di dieci mesi fa decidemmo di dedicare il Darwin Day romano alle applicazioni della teoria evoluzionistica in discipline estranee al suo tradizionale alveo biologico. Feci da relatore sugli studi inerenti la religione: quasi a mettere le mani avanti, sottolineai che era un filone di studi molto promettente ma ancora agli albori e, soprattutto, praticamente ignoto in Italia.

Un libro colma ora quel vuoto. Non era facile, considerata la vastità del compito, e non penso sia un caso se per scriverlo si sono dovuti mettere in tre (uno psicologo cognitivo, un filosofo della scienza e un neuroscienziato). Lo scopo del libro, come ammicca il sottotitolo, è capire «perché il nostro cervello sembra predisposto a fraintendere la teoria di Darwin». L’evoluzionismo è infatti controintuitivo: una difficoltà non da poco, di cui era cosciente lo stesso Darwin. Se ne può aggiungere un’altra: si fraintende l’evoluzionismo anche perché la specie homo sapiens sembra essere naturalmente portata a credere nel creazionismo, e in generale a tutte le spiegazioni che ricorrono a un sovrannaturale progettista intelligente.

A dispetto di Gould, anche in questo caso scienza e religione finiscono dunque per sovrapporsi: il creazionismo, lungi dall’essere considerato un mero atto di fede, per accreditarsi tende infatti ad ammantarsi di scientificità. Mal gliene incoglie, perché ogniqualvolta la religione avanza pretese scientifiche, tali pretese possono per l’appunto essere scientificamente analizzate, come qualsiasi altro fenomeno umano. Se tali studi, fino a pochi anni fa, erano appannaggio del mondo umanistico, oggi si stanno invece ampliando a discipline scientifiche nuove, quando non nuovissime. Già si possono distinguere tre correnti di pensiero: quella più strettamente darwiniana capitanata da Dawkins e Dennett; quella, meno nota, degli antropologi di scuola francese quali Sperber, Boyer e Atran, che hanno fatto propri gli studi della psicologia cognitivista; e quella dei sociobiologi.

Le differenze tra loro riguardano soprattutto le modalità di diffusione delle credenze religiose. Secondo la teoria dei “memi”, proposta da Dawkins, le rappresentazioni tendono a replicarsi, e a mutare solo saltuariamente, mentre secondo Sperber si trasformano continuamente, come se fossero virus, sulla base di processi cognitivi costruttivi: al primo si rimprovera di dar poca rilevanza alla psicologia, al secondo (e con lui Boyer) alla cultura trasmessa. Per entrambe le impostazioni i fenomeni culturali costituirebbero sempre il risultato della selezione naturale: un presupposto contestato dai sociobiologi (Wilson, Boyd e Richerson), secondo i quali geni e cultura coevolvono e la selezione avviene a livello di gruppo, poiché solo l’homo sapiens è in grado di creare sistemi culturali articolati (quali la religione) in grado di offrigli un’adattabilità incomparabilmente superiore alle altre specie animali.

L’ipotesi sociobiologica che la cultura e la religione rappresentino un adattamento vincente è contestata dalla altre due “scuole”: più che un adattamento, la religione sarebbe un effetto secondario. Un effetto «sontuoso», l’ha definito Dennett in Rompere l’incantesimo: le perle hanno un valore economico inestimabile per gli esseri umani, ma altro non sono che il prodotto di un meccanismo di difesa attivato da organismi infettati da corpi estranei. Dawkins, nell’Illusione di Dio, ha reso bene il concetto facendo l’esempio delle falene, che sembrano avere un irresistibile impulso a schiantarsi contro le fonti luminose: non per attitudini suicide, ma più semplicemente perché un tempo, quando non esisteva ancora l’elettricità, la luce (naturale) fungeva loro da bussola. Secondo questa prospettiva, «la tendenza emersa per selezione naturale nei nostri lontani progenitori non sarebbe la religione per se, ma un modello utile alla sopravvivenza che solo accidentalmente si presenta come comportamento religioso». L’ipotesi di Dawkins è che la selezione naturale abbia forgiato cervelli infantili con la tendenza a credere qualunque cosa i genitori o gli anziani del villaggio dicano loro.

Leggermente diversa l’opinione prevalente tra gli antropologi cognitivi. Anche in questo caso, l’idea di partenza è che siano state alcune caratteristiche della mente umana, inizialmente evolutesi per far fronte ad altri scopi, a costituire in seguito il brodo di coltura ideale per il concepimento di credenze sovrannaturali. La proposta cognitiva si avvale degli studi sull’atteggiamento intenzionale, sviluppati in particolare da Daniel Dennett, sui quali si è andato pian piano formando una sorta di consensus: il cervello umano è grado di presupporre che un’entità non è solo progettata per un fine, ma è anche un “agente” le cui azioni sono determinate da intenzioni. Pascal Boyer (Religion Explained) ne ha tratto l’ipotesi che la capacità di saper percepire l’esistenza di presenze può anche trasformarsi nella sensazione di avvertire presenze in realtà inesistenti, così come la capacità di fornire una spiegazione in forma narrativa può talvolta portare all’elaborazione di storie concernenti queste presenze; inoltre, concepire che tali presenze hanno desideri e intenzioni può portare a instaurare forme culturali (come i riti) con cui standardizzare tali relazioni.

Come si vede, la fase degli studi pionieristici, quantomeno all’estero, è da considerare ormai alle spalle, e si cominciano a ottenere i primi risultati concreti. Anche Nati per credere ne dà conto, facendoli propri: «gli esseri umani amano le spiegazioni basate sulle intenzioni, come se avessero un sensore sempre acceso per captare la presenza di propri simili o per prevedere le mosse di nemici esterni. Questi sistemi cognitivi si sono evoluti successivamente per assolvere funzioni nuove […] Siamo finiti per diventare delle autentiche “macchine di credenze”». Un’impostazione che inevitabilmente accentua l’importanza dei geni rispetto a quella della cultura, benché sia proprio la trasmissione culturale a determinare quali specifiche credenze possono diffondersi su un determinato territorio o in una determinata popolazione.

Giorgio Vallortigara, riprendendo creativamente Feuerbach, ne ha tratto la conclusione «che sia l’evoluzione che ha creato Dio e non, come credono i creazionisti e i cultori del disegno intelligente, Dio che ha creato l’evoluzione». Ciò non deve significare che credere sia “naturale”, o giusto. La nostra “macchina di credenze” ha in sé una capacità più o meno sviluppata di modificarle, dopo aver rilevato le anomalie: «Una volta che il sistema scolastico e l’ambiente culturale e intellettuale abbiano fornito alle persone informazioni pertinenti, è facile rendersi conto dell’assurdità del creazionismo e modificare le credenze naturali che riflettono la nostra programmazione biologica. Al contrario, l’assenza di dati anomali o contraddittori fa sì che un consolidato sistema di credenze evoluzionistiche non possa più tramutarsi in un sistema di credenze creazionistiche».

E questo spiega sia perché l’evoluzionismo e l’incredulità sono fenomeni più diffusi in alcuni segmenti della popolazione, come ad esempio gli scienziati, sia l’opposizione più o meno latente portata loro dai leader confessionali. Approfondire lo studio del mondo naturale significa individuare più facilmente i caratteri umani, fin troppo umani, di quel mondo che le religioni definiscono “sovrannaturale”. Nati per credere chiede al lettore uno sforzo non sempre agevole per comprendere la portata di questi studi: ma una volta superato lo scoglio, si potrà constatare, come sostiene esplicitamente il testo, che «le prime tessere cominciano a incastrarsi». E quando si comincia a comprendere il funzionamento di certi meccanismi, la prospettiva di riuscire a smontarli diventa decisamente più concreta.

Raffaele Carcano,
circolo UAAR di Roma,
dicembre 2008