Costantino il vincitore

Alessandro Barbero
Salerno editrice
2016
ISBN: 
9788869731389

In questo ponderoso saggio, intelligente e serio esempio di metodologia storica e di esegesi delle fonti, l’autore, a motivo della macroscopica mole della storiografia moderna sui temi costantiniani, ha optato per un’analisi critica soltanto di quella più recente, peraltro anch’essa molto numerosa e che segna un rinnovato e vasto interesse per il tema. Non a caso però, fin dalle prime pagine, a fronte delle difficoltà insite nella ricostruzione storica di «un personaggio così controverso», quelle anche originate dalla «mancanza di rigore critico» (p. 12) e dalla diffusa tendenza degli studiosi di storiografia tardoantica a non tener in gran conto il clima culturale e politico del contesto in cui nascono gli scritti che più sembrano conformarsi al proprio preordinato disegno, Barbero invita a non dimenticare la lezione metodologica suggerita da Arsenio Frugoni fin dal 1954, quell’esame in controluce di ogni fonte, ognuna da considerarsi come singolo testimone da non adattare necessariamente e forzosamente agli altri1. E sempre non a caso, rifuggendo dalla vulgata e ossequiosa definizione di ‘Costantino il Grande’, l’autore ha scelto di titolare questo suo lavoro con il significativo appellativo di cui lo stesso figlio di Costanzo dal 324 volle servirsi anche ufficialmente: Costantino il Victor.

Romanziere pluripremiato, brillante divulgatore televisivo ma altresì storico dai molteplici interessi, dopo una primissima ricerca sugli Angioini, Alessandro Barbero ha spaziato in poco più di un trentennio — tra saggistica, manualistica e narrativa — dal medioevo a Lepanto e a Waterloo, dall’aristocrazia locale alle crociate, dai barbari alla ricostruzione della battaglia di Adrianopoli del 378 (per la quale, a dire il vero, un redivivo Ammiano Marcellino potrebbe reclamare i diritti d’autore); e se si può presumere che l’eclettico studioso abbia dedicato non poco tempo e particolare attenzione a quest’ultimo suo lavoro, va subito detto che il risultato è davvero notevole. Si tratta infatti di un saggio che, nonostante la mole, nonostante il rigore scientifico e i giudizi, talvolta assai duri, su certuni storici moderni e le loro distorsioni interpretative, grazie alla brillantezza scritturale tipica dell’autore è però di scorrevole, piacevole lettura. E non è nemmeno esente da una caustica ironia, come quando, in relazione alla presunta autenticità costantiniana di una lettera inviata nel 324 ai provinciali ai Palestina, dopo la vittoria su Licinio e la conquista delle province orientali2, Barbero, dopo aver ricordato come la migliore critica storica non attribuisca a Licinio persecuzione alcuna contro i cristiani, suggerisce che siffatto documento possa rappresentare «il prodotto di una collaudata macchina propagandistica, destinata a convincere i provinciali d’Oriente che erano vissuti, a loro insaputa, sotto una spaventosa tirannide» (p. 169). O quando, a proposito della difesa di Eusebio di Cesarea operata dal Van Dam e sancita dall’affermazione che «…anche noi evochiamo nuove identità per il primo imperatore cristiano. Ogni volta che costruiamo Costantino, noi siamo i veri eredi di Eusebio»3, Barbero chiosa: «In verità, un brivido percorre la schiena dello storico all’idea di essere il vero erede di un autore come Eusebio, che ha il coraggio di trascrivere, dichiarando di averla trovata negli archivi pubblici e tradotta personalmente dal siriaco, una lettera di Gesù indirizzata al re di Edessa» (p. 15).

Lavoro, questo di Barbero, persino maieutico per chi non eserciti il mestiere dello storico, grazie all’ampia e ragionata autopsia esegetica delle fonti, della loro origine, del loro contesto epocale, del loro intento e significato, delle loro omissioni, contraddizioni, invenzioni e falsità. Lavoro altresì che, in un dettagliato e critico esame, analizzando i testi coevi all’episodio costantiniano e quelli di poco successivi, tratteggia con particolare risalto, del resto inevitabile, Eusebio, l’autore di quella Vita Constantini che può senza remore esser definita come «una offesa sistematica della verità»4 e al cui proposito il bizantinista Henri Grégoire, avanzando dubbi sulla reale paternità eusebiana e considerandola un falso d’epoca teodosiana, aveva sostenuto che nulla sarebbe stato più impudente che riconoscere ad essa attendibilità storica5. E senza dubbio Eusebio è colui che «con una vertiginosa riscrittura del passato» (p. 103) e con iterata sfacciataggine, nel suo racconto altera ripetutamente la realtà dei fatti, come, un esempio tra i davvero tanti, quando trasforma in una celebrazione cristiana praticata nel palazzo imperiale e guidata dallo stesso Costantino, il ‘giorno dominico e salvifico’ di una legge del 321 sull’osservanza del dies Solis (p. 206). Ma l’esame critico di Barbero spazia altresì approfonditamente dai panegirici alle epistole imperiali, dal labaro al signum degli scudi, da Lattanzio — lo stesso che descrive Diocleziano, colui che semper dementabat6, come inventore di misfatti e macchinatore di mali e che connota come giustizia divina l’orribile cancro che avrebbe tormentato e ucciso Galerio7 — ai Carmina di Optaziano Porfirio, dall’Anonimo Valesiano al Liber Pontificalis, dal donatismo all’arianesimo e al suo più feroce oppositore, Atanasio di Alessandria, dalle varianti dei sogni e delle visioni attribuite a Costantino alla sua devozione per Apollo, dal Concilio di Nicea a quello di Tiro/Gerusalemme, dalla legislazione alle riforme, dall’emissione monetaria alle tassazioni, dalle testimonianze epigrafiche al presunto ritrovamento della croce, dalla distruzione dei templi all’edilizia cristiana, dall’atteggiamento nei confronti dei culti misterici al divieto dei giochi gladiatorii, dal vescovo di Roma Silvestro a quelli dell’Asia, dall’editto contro gli eretici alla moralizzazione della famiglia, dall’iterata insistenza sulla tutela delle proprietà alla nascita dei comites palatini. Quel comitatus non disgiunto da vincoli amicali che ritroveremo nelle corti del tardo impero, in quelle del primo medioevo ed anche, nel 1037, nella più famosa cronaca russa, il Povest’vremennych let, a proposito della družina dei vikinghi signori di Kiev8.

Tralasciamo qui la vexata quaestio sulla figura di Elena, esaltata dalla letteratura, santificata dalla Chiesa e che soltanto dopo la morte di Costantino s’incominciò a connotare quale figlia di un taverniere di Bitinia, la stabularia (sed bona, come si premurrà di rimarcare Ambrogio9) concubina o meno credibilmente prior uxor di Costanzo Cloro10. Ma se Elena, forse istigatrice di delitti familiari ma, oltre che in posizione preminente nelle iscrizioni epigrafiche (p. 284) e celebrata nella monetazione costantiniana come Securitas Reipublicae (p. 262), è stata altresì prestamente trasformata nell’Augusta “pia madre di un pio imperatore”11, nonché in devota iniziatrice dei pellegrinaggi in Terrasanta, in improbabile relic huntress ed in altrettanto improbabile edificatrice di santuari e basiliche (pp. 185 sgg. e passim), resta però indubbio che la figura di suo figlio sia divenuta una delle più incombenti nella storia dell’affermazione del cristianesimo. E il Τράχηλα, il tarchiato giovane dal grosso collo12, sarebbe diventato il Constantinus Magnus, l’imperatore caro a dio13 d’imparagonabile, maestosa, solare bellezza14, simile a un celeste angelo divino15, colui che Eusebio di Cesarea avrebbe presentato alternativamente come icona di dio/ho mégas basileûs o come Cristo/logos (p. 213) e ne avrebbe descritto gli ultimi anni di regno facendoci trovare di fronte a «un autentico caso clinico, un’identificazione maniacale del maturo autocrate col ruolo di massimo rappresentante in terra del Dio da cui si sente protetto» (p. 208). Tuttavia sappiamo bene come la figura del figlio di Elena e Costanzo — stante l’equivocità delle fonti da ognuna delle quali esce «un Costantino diverso, e talvolta più d’uno» (p. 16) — sia stata sfalsata nei secoli da un rivestimento pseudoagiografico che ne ha quasi completamente obliterato la reale identità. Identità che a noi appare soprattutto come quella di un cinico, abile e ambiziosissimo politico le cui decisioni, pur se col senno di poi, avrebbero provocato pesantissime conseguenze storiche. E identità, quella costantiniana, caratterizzata anche da aspetti crudeli, come quando aveva fatto sbranare dalle belve del circo gli sconfitti re gallici ribelli ma soprattutto come quando, in una fosca vicenda familiare — tragedia di sapore shakespeariano non immune da insinuate connotazioni incestuose — avrebbe fatto assassinare la moglie e imprigionare e uccidere in carcere senza neppure un processo o una formale accusa il figlio avuto da Minervina, l’amatissimo dall’esercito, giovane e valoroso comandante Crispo16. Non soltanto; Costantino è anche colui che avrebbe perfezionato e portato a compimento il sistema della monarchia assolutistica ideato da Diocleziano ma che, diversamente da questi (che, con quell’accanimento di difesa della tradizione romana che lo contraddistingueva, aveva sempre tutelato la moneta dello Stato), con la sua funesta riforma monetaria, con il suo solidus aureo e il deprezzamento del denarius, la piccola moneta divisionale di rame, aveva colpito durissimamente le classi meno abbienti e altresì con nuove imposte, la collatio globalis e quella lustralis, anche le proprietà fondiarie senatoriali e i proventi del commercio17.

Al di là della tarda leggenda della guarigione dalla lebbra e della munifica riconoscenza imperiale18 che troveremo alla base del falso integrale forse più clamoroso e senza dubbio più noto della storia della Chiesa, il Constitutum Constantini19, sappiamo bene quanto astorica — e quanto propagandata da davvero troppi epigoni e da pedissequa nonché acritica produzione catechetica — sia la farragine di testi più o meno contemporanei alla vicenda costantiniana, Lattanzio in testa, concernente la presunta, immediata ‘conversione’ dell’imperatore a fronte di divine manifestazioni. Ed è pleonastico ricordare come sia antica — e quanto ancora vitale nei secoli successivi al IV — la tradizione relativa all’apparizione di divinità, di manifestazioni solari e di comete, quest’ultime annunciatrici di eventi, a seconda fausti o infausti; tradizione che il cristianesimo aveva già prestamente adottato nell’Annunciazione e nella Natività e che successivamente utilizzerà anche per Costantino. E Barbero, riconducendola alla sua vera essenza e soffermandosi sulle diverse fonti al proposito, seziona criticamente nella prima, ampia parte del suo lavoro, siffatta accozzaglia di sogni, visioni e simboli cristiani, rilevando anche come essa possa aver tratto spunto da precedenti panegirici, a cominciare da quello trevirense del 310, celebrante la vittoria di Costantino sui Germani e pervaso da un’«intensa religiosità pagana» (p. 31) in cui persino la natura è asservita al nume del vincitore (p. 36) e in cui si narra dell’apparizione di Apollo e della Fortuna che gli avrebbero offerto serti laurei (p. 39). Mi sembra tuttavia opportuno ricordare come i propagandati prodigi, che le fonti successive su Costantino addobberanno con panni sempre più pesantemente cristiani, fossero però del tutto consoni al clima esoterico del tardo impero; clima di cui Porfirio di Tiro, ὀ τῆς θεοσεβείας ἐχθρὸς20, “il nemico della religione”, sarebbe stato la voce più autorevole e non a caso più duramente stigmatizzata dall’ormai rassicurato e prestamente trionfante cristianesimo. Porfirio il cui trattato contro i cristiani, ch’egli sarà formalmente accusato d’aver scritto ὐπò τῆς ἑαυτοῠ μανίας, “spinto dalla propria follia”, sarà condannato da Costantino all’epoca del Concilio di Nicea e tutte le copie del quale — secondo un’illiberale e bieca prassi che, tipica dell’intolleranza dei dispostismi, si perpetuerà nei secoli — saranno fatte pubblicamente bruciare da Teodosio II e Valentiniano III nel 44821. Ma clima, quello della fine III/inizio IV secolo, ch’era altresì quello di un mondo ormai in dissoluzione e in cui da tempo, rispondendo ad una sempre più diffusa esigenza di fantastico, insolito e miracolistico, s’erano addirittura attualizzati miti, leggende e dicerie popolari dando loro l’aspetto di testimonianze storiche. E soprattutto, mentre avevan sempre più preso piede le configurazioni caldee, un’epoca, quella di poco antecedente a Costantino, in cui si dava credibilità alla trasformazione del neoplatonismo in teurgica divinazione e si riteneva che la magia fosse ἁγιστεία, un mistico rito sacro22. Ed epoca in cui, per il funesto influsso delle religioni misteriche importate dall’oriente, la rigorosa, lucida concretezza del pensiero romano, per secoli geneticamente immune da qualsivoglia misticismo o da concezioni trascendentali, a partire dal catartico taurubolium cibelico s’era andata sempre più stemperando e svilendo in un’aspettativa di purificante rinascita — come nella iugulazione mitraica e nella seminagione e fioritura dei giardini di Adone — e nello sforzo di compenetrazione iniziatica con entità divine connotate da una sorta di monoteistica polivalenza, come l’Iside di Apuleio, summa delle dee madri, come il trinitario Baal palmireno raffigurato nel suo triplice aspetto, come l’onnicomprensivo Serapide. Epoca altresì, quella della fine del III secolo, in cui, l’oniromanzia e i riferimenti a visioni prodigiose e profetiche eran sempre più ricorrenti in racconti e in biografie23 e in cui in ambito soprattutto eterodosso s’era andata elaborando la teologia mistica egizio-ellenistica del megistou kai megistou theou megalou Hermou, espressa in quel Corpus Hermeticum24 che avrebbe contribuito alla formazione di quell’antropocentrismo, così lontano dalle antiche religioni e che il cristianesimo invece avrebbe a suo modo fatto proprio25. Un’epoca, insomma, che, come scriveva Mazzarino, ci fa trovare di fronte al «volto decadente di un’esperienza religiosa che ormai non si appaga di se stessa… siamo in presenza di un paganesimo demonizzato e stanco. La tragedia spirituale di Giuliano l’Apostata e dei neoplatonici è tutta qui»26. E qui invece è anche, almeno in parte, la fortuna del cristianesimo in epoca costantiniana: non soltanto grazie alla tutela offerta dal potere, ma anche perché la letteratura cristiana s’era andata rapidissimamente appropriandosi di quegli aspetti miracolosi e favolistici tanto invece esecrati se appartenenti al paganesimo da cui li aveva ereditati. E Costantino, il già Liberator Urbis e Fundator quietis27, una volta divenuto il gratificato da sogni profetici e miracolose apparizioni divine, sarebbe poi, con ulteriore, significativa modificazione, diventato in Eusebio colui che addirittura, confutando ogni idolatria, aveva eliminato tutti gli errori del politeismo28.

Diverse possono essere le ipotesi per quanto specificatamente concerne l’azione di Costantino nei confronti del cristianesimo. Ad esempio si potrebbe presumere che, secondo la tolleranza che caratterizzava il paganesimo e soprattutto secondo quella farraginosa adesione romana a qualsivoglia culto esotico ed esoterico tipica dei secoli imperiali, Costantino — al fine di utilitaristica pacificazione, territoriale sicurezza e diretto controllo nonché, reintroducendovi i cristiani, di un esercito più numeroso — abbia ritenuto opportuno inglobare e irregimentare nella suddetta farragine cultuale l’altrimenti sempre più protervamente fastidiosa e numerosa presenza cristiana. E potrebbe anche esser possibile che, oltre a un calcolo volto ad un più sicuro dominio su territorii religiosamente pacificati, su Costantino possa aver influito proprio quel culto imperiale e unificante del Sol invictus cui era devoto e il cui sincretismo solare poteva predisporre alla ricerca di un dio supremo come in effetti avverrà nell’Helios re del nipote Giuliano. È comunque vero che, al di là dell’esaltatore Eusebio che non si periterà neppure d’individuare nell’imperatore il nuovo Mosè29 e al di là delle tesi che individuano nella conversione costantiniana «una svolta sincera»30, molte disposizioni costantiniane, così come trasmesseci dai codici di Teodosio e di Giustiniano, mostreranno, soprattutto nell’ultimo periodo del regno, un aspetto che effettivamente può esser connotato come favorevole al cristianesimo31. Si deve tuttavia cercare di non dimenticare come la ‘sincerità’ dell’imperatore non gli abbia precluso all’inizio di continuare a battere moneta con la propria immagine con corona radiata e con dedicazioni a Giove, a Marte, al Genius populi Romani o qualificandosi come comes del Sole invitto (il comes che diverrà il ’τοῦ βασιλέως ὀπαδὸς Ἠλίου, il fedele seguace, cliente, vassallo di Helios re, del nipote Giuliano32), né di continuare ad essere un adepto mitraico, di partecipare a cerimonie pagane e come paganus di continuare ad essere esaltato dai panegiristi e nell’iscrizione della statua in veste apollinea — con tratti «opportunamente forgiati in modo da arieggiare la fisionominia dell’Imperatore»33 — erettagli nel foro costantinopolitano, di essere definito come ‘colui che splende a mo’ di Helios’; né, infine, dieci anni dopo Nicea, di concedere ai cittadini di Spello l’erezione di un tempio in suo onore e in quello della gens Flavia34. E la presunta ‘sincerità’ non avrebbe neppure impedito all’imperatore d’indire e presiedere il Concilio di Nicea, in posizione di assoluta preminenza35, al di là dell’effettivo significato diversamente attribuito a quell’«ἐπίσκοπος τῶν ἐκτὸς»/‘vescovo di quelli di fuori’, con cui Eusebio ricorda essersi autodesignato Costantino, e cioè o distinzione tra organizzazione ecclesiastica e saeculi necessitates, tutte comunque sotto l’egida dell’impero, oppure sovrintendenza dei soli laici con però implicito riconoscimento da parte imperiale di mancanza di autorità carismatica36.

Ma se all’inizio dell’ascesa costantiniana, nel cosiddetto editto di Milano del 313 di Costantino e Licinio — che faceva seguito ad uno di tolleranza emanato il 30 aprile del 311, pochi giorni prima della morte, da Galerio — stando a quanto, tramandandocelo, scrive Lattanzio nel XLVII capitolo del suo De morte persecutorum si auspicava «quod quicquid divinitatis in sede caelesti, nobis atque omnibus… placatum ac propitium possit existere»; e se anche nell’arco di trionfo, il ‘palinsesto’ della scultura romana dedicato nel 315 all’imperatore dal Senato e dal popolo romano37, compare come ispiratrice dell’azione imperiale non già il dio cristiano ma una non specificata, superna divinità38, è però incontestabile che, come si è già accennato, molte successive leggi di Costantino presentino connotazioni di sapore decisamente filocristiano. E tuttavia troppo spesso si tende oggi a tralasciare sia il giudizio di Jacob Burckhard che aveva visto nell’atteggiamento costantiniano verso il cristianesimo l’impiego di quest’ultimo come instrumentum regni39, sembrando — incautamente — preferibile servirsi di un elemento fortemente molesto ed eversivo piuttosto che averlo come nemico; sia — implicitamente svelando il quadro di una miopia politica che ritroveremo in parte nelle successive conversioni dei sovrani barbarici tese a riconoscere il dio che appariva come il più potente — quanto, a proposito della presunta sincerità di Costantino, scriveva nel 1986 il nostro forse più raffinato esegeta storiografico40. Ed è invece facile constatare come la figura costantiniana sia stata soprattutto fatta assurgere a simbolo di un cristianesimo legalizzato, trionfante, vincitore, al punto da divenire addirittura il riferimento delle massime espressioni autocratiche come in Ivan IV Vasil’evič Groznyj, ‘il Terribile’, che nel 1564, nella sua prima lettera al principe Kurbskij, scriveva dello «stendardo vittorioso, la croce gloriosa e giammai sconfitta dell’unigenito Verbo di Dio, dato da Gesù Cristo, Dio nostro, a Costantino, primo imperatore della cristianità, e a tutti gli zar ortodossi e ai custodi dell’ortodossia»41.

Infine, se Costantino verrà già tratteggiato nei Caiseres del nipote Giuliano con cruda ironia (pp. 705-708) e lo stesso ne avrebbe altresì insultato la memoria come quella del «novatoris turbatorisque priscarum legum et moris antiquitus recepti»42; se il sempre equilibrato Ammiano Marcellino lo avrebbe accusato di aver arricchito i cortigiani, così come prima aveva anche fatto suo padre dissanguando le province43; se Libanio lo connoterà quale distruttore di templi e sacre usanze (pp. 709-714); se Eutropio lo accuserà di avere, nella sua smania di divenire l’unico padrone del mondo, sconvolto l’ordine della tetrarchia (pp. 714-719); se alle soglie del V secolo, nell’Epitome de Caesaribus, Costantino, oltre che condannato per l’assassinio di Crispo e Fausta, sarebbe anche stato connotato come latro (pp. 719-724); e se ai nostri giorni, crudemente ma del tutto condivisibilmente, Umberto Eco in conversazioni amicali non si sarebbe peritato di definirlo un «gran figlio di puttana» (p. 10), poiché un atteggiamento reverenziale «rischia di provocare un ottundimento dello spirito critico» (p.11), a sua volta Barbero, attenendosi al rigore imposto da una ricerca onesta, con un atteggiamento decisamente laico e ricostruendola nella sua reale dimensione storica, sfronda d’ogni orpello catechetico la figura del figlio della stabularia e ne ridimensiona, inquadrandola nello scenario epocale e nelle scelte politiche, non solo la presunta conversione ma altresì la pubblicizzata propensione filocristiana. E inevitabilmente finisce anche col rifuggire da qualsivoglia simpatia per un autocrate «dispotico negli interventi, violento nel linguaggio, assassino del figlio, della moglie, del suocero e di due cognati, circondato di amici famelici che favoriva scandalosamente a spese del pubblico» (p. 757).

Significativa, infine, la conclusione di questo Costantino, il Vincitore; conclusione che ben ne chiarisce la precipua finalità: «Questo libro avrà raggiunto il suo scopo se riuscirà a convincere i suoi lettori che gli studi costantiniani, nonostante la loro apparente floridezza, avrebbero un gran bisogno di un rasoio di Occam, che venisse a spuntare la barba di Eusebio» (p. 758). Rasoio, a dire il vero, che Barbero già impugna e utilizza con cerusica abilità e storica metodologia in tutto il corso di questo suo importante, bel lavoro.

Marta Gianni Orioli
ottobre 2016

 

Note

  1. A. Frugoni, Arnaldo da Brescia nelle fonti del secolo XII, in Studi storici, [3],fasc. 6-7, Roma, ISIME, 1954 (reimpr. Torino, Einaudi, 1989, in cui, per quanto attiene alla metodologia suggerita dal medievista bresciano, è da leggersi la prefazione di G. Sergi, Arsenio Frugoni e la storiografia del restauro, pp. VII-XX).

  2. Per un più accessibile riferimento qui mi servo della traduzione italiana con testo greco a fronte: Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino. Introduzione, traduzione e note di L. Franco, Milano, BUR, 20143 (20091), pp. 190-209.

  3. R. Van Dam, The Roman Revolution of Constantine, Cambridge, University Press, 2007, pp. 14-15.

  4. v. A. Momigliano, Storiografia pagana, in Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV. Saggi a cura di A. Momigliano, Torino, Einaudi, 1975, p. 105 (ed1: London, Oxford University Press, 1963).

  5. H. Grégoire, Eusèbe n’est pas l’auteur de la “Vita Constantini” dans sa forme actuelle et Constantin ne s’est pas “converti” en 312, «Byzantion» 13 (1938) 561-583.

  6. De morte persecutorum, VII, 10.

  7. Ibid., XXXIII.

  8. Qui segnalo la traduzione italiana Racconto dei tempi passati. Cronaca russa del secolo XII, cur. I. P. Sbriziolo. Con un saggio introduttivo di D. S. Lichačëv, Torino, Einaudi, 1971, passim. Per manoscritti, edizioni e letteratura v. Repertorium fontium historiae Medii Aevi, Romae, ISIME, IX (2002) 330-336.

  9. De obitu Theodosii, XLII. Interessante siffatta specificazione di Ambrogio che, con l’aggettivazione positiva, sembra voler fornire dell’etimo stabularia un’interpretazione equivalente solo ad ostessa o addetta alle stalle (colei che dio elevò de stercore ad regnum), forse nel tentativo di obliterare in tal modo quella che per traslato afferiva al meretricio praticato nelle locande.

  10. Nonostante in un’opera anonima della prima metà del IV secolo poi rimaneggiata nel V, l’Origo Constantini imperatoris (titolo dato dal Mommsen all’edizione di due frammenti pubblicati nel 1636, in appendice alla sua edizione delle ‘Storie’ di Ammiano Marcellino, da Henri Valois, dal quale sarebbe appunto derivata la denominazione di Anonymus Valesianus) Elena, pur definita come vilissima, venga indicata come prima moglie di Costanzo, questa fu comunque ripudiata da costui al momento delle nozze con la figliastra di Massimiano Erculio, Flavia Massimiana Teodora, che gli avrebbe dato sei figli tra i quali quella Flavia Iulia Costantia, moglie di Licinio e sostenitrice dell’arianesimo al Concilio di Nicea. Per l’Anonymus Valesianus v. Repertorium, cit., II (1967) 362-363.

  11. Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino, cit., III, xlii, 4 [p. 298].

  12. «…proverbio vulgari Trachela»: Epitome de Caesaribus, XL. Se la versione relativa al grosso collo è sempre stata la più diffusa, va però ricordato che certa esegesi moderna ha preferito leggere l’epiteto in relazione alla viscidità della lumaca (v. Barbero, p. 724).

  13. Eusebio, Vita di Costantino, cit., II, lxxiii [p.239].

  14. Ibid., III, x, 3 sgg.[p. 259].

  15. Ibid.

  16. L’episodio (tramandatoci, tra V e VI secolo da Zosimo nella sua ‘Storia nuova’, II, 29,1-2 e molto tardivamente, all’inizio del XII, da Giovanni Zonara nella sua ‘Epitome storica’, XIII, 2, 38-41) e che sarà rivestito da aspetti incestuosi che ricordano il mito d’Ippolito e Fedra, oppure considerato, in seguito al pentimento, come l’avvio alla conversione di Costantino, è oscuro anche se, così come ad esempio leggeremo in Gregorio di Tours, ne sarà data una lettura che vedrà in esso la drastica stroncatura di un complotto politico: «Hic Constantinus anno vicessimo [sic] imperii sui Crispum filium veneno, Faustam coniugem calente balneo interfecit, scilicet quod proditores regni eius esse voluissent»: Gregorii episcopi Turonensis Decem libri historiarum [Historia Francorum], I, 36, in MGH, Script. Rer. Mer., 1/1 (19512), ed. B. Jrusch.-W. Levison; trad. ital.con testo latino a fronte: La storia dei Franchi, cur. M. Oldoni, Milano, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, 1981, I, p.58. Durissimo invece, a proposito di questa che veniva definita come «foschissima tragedia domestica che doveva riflettere la sua ombra oscura su tutto il governo costantiniano», il giudizio datone da E. Buonaiuti, Storia del cristianesimo, I. Evo antico, Milano, dall’Oglio editore, 19463, pp. 264-265 (ed.1: Milano, Corbaccio-Dall’Oglio, 1942), che non risparmiava minimamente, giudicandola la funesta istigatrice di tutta la vicenda, la figura di Elena, la «vecchia stabularia di Trepano», piena di rancore a fronte di una moglie, diversamente da lei, legittima come Fausta, alla quale, dal suo canto, era fortemente inviso il figliastro. E se Buonaiuti giudicava l’episodio come quello che «doveva far chiamare l’epoca di Costantino una rinnovata epoca neroniana», riteneva altresì, in relazione al trasferimento della sede imperiale nell’erigenda Costantinopoli, che siffatti «cupi e tragici avvenimenti domestici dovettero rendere intollerabile la permanenza a Roma di Costantino» e a fronte della «necessità strategica, militare, economica, i sentimenti personali dell’imperatore dopo la tragedia romana dovettero rendere questa necessità tanto più pungente e dovettero pertanto affrettare l’attuazione del piano». Per Zonara e Zosimo cfr. Repertorium, cit., XI (2007) 539-541, 542-542.

  17. Per questi ed altri temi sufficiente qui il rinvio al sempre prezioso S. Mazzarino, L’Impero romano, in G. Giannelli-S. Mazzarino, Trattato di storia romana, II, Roma, Tumminelli, 1962, pp. 421 sgg.

  18. Per la leggenda, che propaga la Donazione come segno della riconoscenza di Costantino per la miracolosa guarigione dalla lebbra operata dal vescovo di Roma, bastevole qui il rinvio a W. Levison, Konstantinsche Schenkung und Silvester-Legende, in Miscellanea F. Ehrle, «Studi e Testi», 38 (1924) 159-247.

  19. v. Repertorium, cit., III (1970) 622-623. Probabilmente elaborata verso la seconda metà dell’VIII secolo in ambienti laterani, forse ad opera di un chierico di S. Salvatore durante il pontificato di Paolo I, anche se alcune tesi propendono per un ambito francese e temporalmente ancora successivo, siffatta ‘Donazione di Costantino’ è un falso che ben rivela il «Selbsdtverständnis (coscienza di sé) del Papato nel momento in cui fu fabbricato» (G. Arnaldi, Le origini dello Stato della Chiesa, Torino, Einaudi, 1987, p. 142), il tentativo cioè — non attraverso la pubblicistica ma per mezzo della falsificazione diplomatica e con una sorta di ecclesiale imitatio imperii mediante un Silvestro reso depositario degli attributi precipui del potere imperiale — di esaltare e contrapporre la superiore figura papale rispetto a quella dei sovrani dell’epoca e dell’imperatore stesso.

  20. Così nella lettera di Costantino ai vescovi e al popolo trasmessaci da Eusebio nella Historia Ecclesiastica, II, 36 e riprodotta in Porfirio, Contro i cristiani nella raccolta di Adolf von Harnack con tutti i nuovi frammenti in appendice. Trad. ital. con testi greci, latini e tedeschi a fronte. Introduzione, traduzione, note e apparati di G. Muscolino. Notizia biografica su Harnack di A. Ardiri. Presentazione di G. Girgenti, Milano, Bompiani, 2009, p. 136.

  21. CJ, I, 1, 3.

  22. Così nell’Assioco, 371 D, scritto pseudoplatonico d’epoca alessandrina, in cui Socrate discute sul tema della morte.

  23. Senza soffermarci sulla produzione letteraria e favolistica, se già Svetonio aveva scritto di un Ottaviano che credeva a sogni e prodigi (De vita Caesarum, II, 101, 102), la cui madre sarebbe stata ingravidata dal serpe apollineo durante un’incubatio e il cui padre avrebbe sognato il glorioso futuro del figlio, splendente con una corona radiata e dotato di sovrumana grandezza (Ibid., II, 94.); e se dopo che nel secolo precedente all’epoca costantiniana l’efesino Artemidoro di Daldi aveva già fornito la spiegazione dei sogni con la sua ’Ονειροκριτικά che non poca fama avrebbe avuto nel Rinascimento, l’oniromanzia e i riferimenti a visioni prodigiose e profetiche sarebbero divenute sempre più ricorrenti in racconti e in biografie; così come in quella, scritta proprio all’inizio del IV secolo e attribuita al siracusano Flavio Vopisco, di Aureliano, cui il solare dio emeseno di Eliogabalo avrebbe profetizzato la vittoria su Palmira e cui sarebbe anche apparso in sogno Apollonio che lo avrebbe convinto a risparmiare la conquistata Tiana (Vita Aureliani, in Historia Augusta, XXIV, XXV).

  24. Attribuito ad Hermes — appellativo greco del Toth egizio trimegisto, ‘tre volte grande’-, composto da diciassette trattati in lingua greca cui verranno aggiunti l’Asclepius, pervenutoci nella sola versione latina, ed altri testi copti ritrovati ad Nag Hammâdi, il Corpus risente d’influssi neoplatonici, gnostici e di quelli della mistica ebraica.

  25. «magnum miraculum est homo, animal adorandum atque honorandum» (Asclepius, VI).

  26. Mazzarino, L’impero Romano, cit., p. 265.

  27. Così nelle iscrizioni sul fornice interno dell’arco dedicatogli:v. Giuliano, L’Arco di Costantino, cit., p. 443.

  28. Eusebio, Vita di Costantino, cit., IV, lxxv [p. 429].

  29. Ibid., I, xii, passim [p. 94]; xx, 2 [p.108].

  30. v. G. Filoramo, La croce e il potere. I cristiani da martiri a persecutori, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 103. Peraltro lo stesso A., pp. 103-104, rilevando come in Costantino, devoto al sincretismo solare, giocassero l’anelito verso un’entità superiore nonché una superstiziosa sensibilità nei confronti dei talismani, ipotizza che l’imperatore avesse visto nella vittoria la risposta divina alle sue speranze e conclude definendo il figlio di Elena non già «un cinico calcolatore o un uomo superstizioso… ma un despota che vedeva in grande».

  31. Come ad esempio la condanna dell’adulterio e del concubinato (CJ, V, 26) o la legge che punisce i padroni che abbiano ucciso i loro schiavi (CTh, IX, 12, 1) e quella che proibisce, per cambi di proprietà, di separare le famiglie servili (ibid., II, 25) o il divieto, che sarà poi disatteso, dei giochi gladiatorii (ibid., XV, 12, 19); o quella che proibisce l’uso privato dell’auruspicina (ibid., IX, 16, 1), di cui però, in una disposizione che vietava l’esercizio privato di sacrifici (CTh, XVI, 10, 1), si ordinava l’impiego nel caso di fulmini che avessero colpito la dimora imperiale o pubblici edifici; e, particolarmente significative, quelle del 321 e 323 che permettevano di far testamento pro Sanctissimo Catholicae Ecclesiae venerabili concilio (ibid., XVI, 2, 4) e minacciavano gravi pene a chi avesse obbligato i cristiani a celebrare cerimonie pagane (ibid., XVI, 2, 5).

  32. Cito dall’edizione Giuliano Imperatore, Alla Madre degli dei e altri discorsi, Introduzione di J. Fontaine, Testo critico cur. C. Prato, Traduzione e commento di A. Marcone, Milano, Fondazione Lorenzo Valla-Arnoldo Mondadori editore, 2006 (19871), p. 100.

  33. Buonaiuti, Storia del cristianesimo, cit., p. 229.

  34. v. G. Rinaldi, Pagani e cristiani. La storia di un conflitto (secoli I-IV), Roma, Carocci, 2016, pp. 188-189; ma si veda anche ibid., pp. 188-192, il problema della semantica d’epoca costantiniana relativa al termine superstitio che, anche con la condanna dell’auruspicina e dei sacrifici animali, sembrerebbe incominciare a gettare le basi della di non molto successiva identificazione del termine con il paganesimo.

  35. «Fu così che, come ponendosi alla testa di un esercito divino per attaccarlo, convocò un concilio ecumenico… Nel giorno stabilito per l’apertura del concilio… quando l’intero concilio ebbe preso posto… a un segnale si alzarono tutti e l’imperatore fece il suo ingresso, egli in persona passò nel mezzo come un celeste angelo del Signore… Quando fu avanzato verso la prima fila dei seggi, si fermò nel mezzo, si mise a sedere su un piccolo seggio d’oro massiccio…»: Eusebio, Vita di Costantino, cit., III, vi, 1; x, 1-3, 5 [pp. 253, 259].

  36. «…voi siete i vescovi di quanti stanno all’interno della Chiesa, io invece è come se fossi stato designato da Dio vescovo di quanti si trovano all’esterno»: ibid., IV, xxiv [p. 369]. Sul tema v. Mazzarino, L’impero, cit., pp. 426 sgg.

  37. Arco in cui il ciclo musivo inneggia ad un’apoteosi temporale con i tondi del Sol nascente e della Luna calante e in cui il busto dell’imperatore fronteggia significativamente il Sol Invictus.

  38. IMP(eratori) CAES(ari) FL(avio) CONSTANTINO MAXIMO/ P(io) F(elici) AUGUSTO S(enatus) P(opulus) Q(ue) R(omanus)/ QUOD INSTINCTU DIVINITATIS MENTIS/ MAGNITUDINE CUM EXERCITO SUO/ TAM DE TYRANNO QUAM DE OMNI EIUS/ FACTIONE UNO TEMPORE IUSTIS/ REMPUBLICAM ULTUS EST ARMIS/ ARCUM TRIUMPHIS INSIGNEM DICAVIT: Corpus Inscriptionum Latinarum, VI, 1139; v. A. Giuliano, L’Arco di Costantino come documento storico, «Rivista Storica Italiana» CXII/II (2000) 441-472.

  39. J. Burckhardt, Die Zeit Konstantins des Grossen, Basel, 1853; Leipzig, E. A. Seemann, 1868 (trad. ital: cur. E. Dupré Theseider, Firenze, Sansoni, 1957).

  40. «…che il Cristianesimo fosse una forza notevolissima lo aveva mostrato lo stesso accanimento per estirparlo; che potesse essere — per lo Stato romano — la più importante delle forze ideologiche, lo si sarebbe acquisito col tempo… in fondo, la sincerità di un imperatore romano del IV secolo poteva essere coincidente con il disegno politico sopra indicato, poiché il “valore”… era il mantenimento dell’Impero. E se il Dio dei Cristiani… poteva rinsaldare un organismo pericolante, in Suo nome Costantino doveva vincere. Ma naturalmente il Cristianesimo era ben altra cosa e nessuno degli imperatori romano-cristiani… dimostrò di averne capito il significato e la carica profondamente rivoluzionari» dal momento che in esso «si prospettava una subalternità dell’ordinamento statuale rispetto alle finalità religiose e all’ordinamento ecclesiastico»: O. Capitani, Storia dell’Italia medievale. 410-1216, Roma-Bari, Laterza, 1986, pp. 18-19.

  41. Qui cito da Ivan il Terribile, Un buon governo nel regno. Il carteggio con Andrej Kurbskij. Con un saggio di Ja.S. Lur’e, Milano, Adelphi, 2000, p. 39. Per le altre edizioni, traduzioni e per la bibliografia v. Repertorium, cit., VI (1990) pp. 488 sgg.

  42. Ammiani Marcellini Rerum Gestarum libri, XXI, 8 [p. 486]. Traduzione italiana con testo latino a fronte: Ammiano Marcelino, Le storie, cur. A. Selem, Novara, De Agostini, 2013, p. 486 (ed.1: UTET 1973).

  43. «Namque ut documenta liquida prodiderunt, proximorum fauces aperuit primus omnium Constantinus, sed eos medullis provinciarum saginavit Constantius»: ibid., XVI, 8, 12 [p. 204].