La Conversione dell’Europa

Dal paganesimo al cristianesimo, 371-1386
Richard Fletcher
Tea
2003
ISBN: 
9788850203840

Premessa

Le intenzioni dell’autore sono chiarissime fin dalle prime righe della prefazione: «Questo libro è un’indagine sul processo per cui ampie parti dell’Europa accettarono la fede cristiana tra il quarto e il quattordicesimo secolo e su alcune delle conseguenze che ne seguirono. E per questo si tratta di un’opera ambiziosa». E corposa, superando le 600 pagine. Richard Fletcher, docente all’Università di York (Regno Unito), non si limita a cercare di ricostruire la cause di questo processo, ma segue passo per passo, cronologicamente, l’avanzare della fede cristiana sul continente. Non solo analisi ma anche resoconto, quindi, e ciò giustifica la mole dell’opera.

La domanda che fa da molla e spinge l’autore alla ricerca può apparire persino banale: «Per chi è dunque il Cristianesimo?». Ma è banale fino a un certo punto. Non era scontato che la nuova religione assumesse una vocazione missionaria (peraltro relativamente rara nell’antichità), e nemmeno che dovesse convertire l’intero ecumene: la predicazione ai “barbari” non era affatto inevitabile. E infatti, almeno inizialmente, tale spinta non vi fu.

Un impegno peraltro non facile, quello di Fletcher: le poche fonti disponibili sono quasi tutte documenti redatti da “cristiani professionisti”. Da una parte solerti, come Beda, nel censurare le notizie ritenute scomode o non essenziali, dall’altra portati a privilegiare una forma narrativa a carattere didattico. Il materiale agiografico, all’interno del quale «“edificazione” è la parola chiave», tende a incoraggiare l’ideale piuttosto che la storia, rischiando di far scivolare il ricercatore nel “pantano del >>I>topos”, le situazioni così ricorrenti da sembrare luoghi comuni. Da qui prendono spunto i dieci interrogativi che l’autore si/ci pone all’inizio del primo capitolo e che ricorrono spesso all’interno delle pagine, e che possono servire a noi come traccia per entrare nel merito del suo lavoro. Che, come ha premesso l’autore, «preferisce procedere suggerendo risposte piuttosto che imponendo affermazioni perentorie».

1. Cosa suscitò l’impulso apostolico?

Come noto, vi fu bisogno di alcuni secoli per consolidare la struttura ecclesiastica. Lo sviluppo della nuova fede all’interno dell’Impero romano fu quindi privo di linee guida: «L’impressione trasmessa da Luca di una diffusione ordinata e controllata è ingannevole. Fu anarchica quanto rapida, priva di strategia». Una volta accettato, e largamente diffusosi nelle realtà urbane, il cristianesimo si trovò davanti una doppia sfida: quella delle campagne (in larga parte nemmeno romanizzate) e quella dei cosiddetti “barbari”. Fu una sfida raccolta da singoli individui o, al limite, da alcune diocesi e ordini monastici, ma per la Chiesa non divenne mai un impegno prioritario. Per tutto l’arco temporale osservato, osserva Fletcher, «le prove di iniziative missionarie spontanee da parte di singoli papi sono prive di sostanza».

Cosa animava dunque questi uomini? Le ragioni possono essere tante. La fede, ovviamente, emerge con maggior forza dal materiale agiografico. L’autore non dimentica che, una volta che il cristianesimo diventò religione di Stato, «da quel momento, il martirio poteva essere trovato solo fuori dai confini imperiali». Ma non mancano motivazioni più materiali, e spesso una malcelata ambizione. La conclusione di Fletcher è che lo storico deve tenere conto sia «che ciò di cui si trattava non era il qui e adesso ma il mondo eterno», e dei conseguenti atti di pietà religiosa, sia delle «più o meno ignobili motivazioni».

2. Chi erano gli evangelizzatori?

L’autore rammenta le imprese attribuite ai grandi evangelizzatori come Martino di Tours, Patrizio, Colombano, Bonifacio. Vi sono dei temi ricorrenti nelle opere che narrano questi avvenimenti. Questi uomini si sentivano sicuramente portatori di un’energia spirituale non comune. Non si fermavano davanti alle prime difficoltà: i missionari del primo Medio Evo furono fermamente convinti della validità dell’“effetto a catena” sui convertiti. Erano missionari che dovevano dimostrare di disporre di un potere più efficace delle pratiche tradizionali nell’affrontare le forze della natura, e per farlo non si fermavano dal compiere distruzioni o dall’utilizzare metodi che non si discostavano poi così tanto dai riti magici dei loro concorrenti pagani. Anche in questo caso le azioni dei missionari più recenti sembrano ricalcare quelle dei loro predecessori: topoi letterari o sforzo di emulazione?

Gli evangelizzatori non erano affatto degli sprovveduti: non mancarono mai di tessere relazioni privilegiate con le autorità del momento, a costo (anche questa è una sensazione ricorrente) di rovinare i propri rapporti personali con i vescovi locali. La loro attività oltre le frontiere non fu mai continuativa: nel caso di Bonifacio, ad esempio, Fletcher ricorda che, più che tra i barbari, «il suo successo fu costituito dall’approfondimento del cristianesimo tra coloro che erano cristiani solo di nome».

Ma uno studio su questi missionari non sarebbe comunque sufficiente a spiegare i risultati del processo di conversione. In alcuni casi il passaggio al cristianesimo resta ancora avvolto nel mistero: ad esempio, «si potrebbe sostenere che la conversione delle terre native degli Scandinavi fu un evento che, anch’esso, si limitò ad avvenire».

3. Erano necessari i rapporti con le autorità secolari?

È la questione più dibattuta e su cui l’autore si sofferma maggiormente. Forse è inevitabile in un testo che vuole rappresentare anche un contributo di storiografia evenemenziale. Le stesse fonti disponibili si soffermano quasi esclusivamente sulle vicende che riguardano i regnanti.

Le Scritture cristiane non davano e non danno una risposta univoca alla domanda. L’autore individua in esse due tendenze: una radicalmente negativa, che trae spunto dall’Apocalisse attribuita a Giovanni, e che tramite i padri africani (Tertulliano, Agostino) avrebbero orientato la parte occidentale dell’Impero. L’altra, favorevole a un accordo, che trova le proprie fonti in Luca e si sarebbe diffusa a Oriente, fino alla coincidenza quasi perfetta tra Chiesa e Stato. L’Europa assunse quindi un punto di vista teologicamente neutro sull’Impero: il modello di vita cristiano diventa il peregrinus (ovvero il residente straniero, appartenente alla Città di Dio). Tuttavia due secoli dopo Agostino si era già operato un ribaltamento: perché?

Va detto che già da tempo le autorità ecclesiastiche cercavano la cooperazione con le classi più influenti della società: nel testo sono citati gli inviti di Giovanni Crisostomo e Massimo di Torino ai possidenti affinché convincessero i propri contadini ad aderire alla fede che si stava imponendo. In un contesto storico di aumentata insicurezza e di progressiva parcellizzazione del territorio (e quindi dell’autorità), anche la sola possibilità di ricalcare la struttura amministrativa imperiale, erigendo diocesi laddove già esistevano le province, veniva inevitabilmente meno. Non a caso il modello di maggior successo fu quello attuato in Irlanda: in un territorio su cui convivevano centinaia di realtà tribali, l’intuizione di Patrizio di utilizzare le due più potenti forze sociali, la parentela e il clientelismo, si dimostrò vincente. Gli accomodamenti non furono da poco: la consuetudine imponeva che la terra appartenente a una famiglia non potesse essere ceduta, per cui i monasteri irlandesi divennero possedimenti delle famiglie, che provvedevano anche alla nomina dell’abate.

Da un certo punto in poi, tuttavia, la liaison con le monarchie divenne sempre più fitta. In un capitolo significativamente intitolato I nuovi Costantini, Fletcher illustra come gli evangelizzatori ricorressero spesso all’esempio di Costantino, e alle vittorie che quest’ultimo riportò successivamente alla conversione, per “invogliare” i sovrani a passare al cristianesimo. Il vero e proprio mercanteggiamento attuato dal khan Boris della Bulgaria, quando poté attuare la politica dei due forni (cattolico e ortodosso), è lì a dimostrare i limiti “morali” di questa strategia. Ma le iniziative diplomatiche volte a convertire un sovrano non si sarebbero fermate così presto: non a caso il capitolo cita, in un interessante comparazione storico-culturale che è anche un documento delle ansietà dei sovrani timorosi delle reazioni dei propri sudditi, il tentativo di conversione del re del Lesotho Moshoeshoe attuato da missionari francesi neanche due secoli or sono.

A un certo punto la conversione al cristianesimo entrò anche nelle politiche matrimoniali delle diverse case regnanti europee. All’inizio si trattava di un semplice matrimonio misto, con la moglie cattolica che riusciva a “convincere” il marito pagano a convertirsi (lui e il suo popolo) al cristianesimo, grazie anche all’aiuto del proprio consigliere spirituale, solitamente un vescovo con chiari obiettivi di evangelizzazione. Anche questo si presenta come un motivo letterario ricorrente, e quindi sospetto. In seguito, tuttavia, si trattò di vera e propria merce di scambio. L’elenco dei sovrani convertiti dalle mogli cattoliche è notevole: il franco Clodoveo dalla burgunda Clotilde; Etelberto del Kent dalla franca Berta; Edvino di Northumbria da Etelburga del Kent, Peada di Mercia dalla figlia di Oswy di Northumbria, il moravo Pribina dalla moglie bavarese, Vladimir di Kiev dalla sorella dell’imperatore bizantino Anna, Mieszko di Polonia dalla boema Dobrava, Stefano d’Ungheria da Gisela, sorella del futuro imperatore tedesco Enrico III. L’ultimo matrimonio fu quello che, di fatto, conclude l’epopea dei cambiamenti di fede: la conversione del granduca lituano Jogalia, che il 15 febbraio 1385 fu battezzato, tre giorni dopo sposò Jadwinga di Polonia, e il 4 marzo ne ereditò anche il regno. Come commenta sapidamente Fletcher, «anche la Polonia valeva bene una messa».

Una volta convertiti i sovrani, poco dopo fu il turno dell’aristocrazia. Talmente stretto era il legame con gli ecclesiastici che gli storici tedeschi hanno coniato il termine Adelskirche per definire le chiese presso i popoli di recente conversione. Il termine letteralmente significa «Chiesa della nobiltà» ma, come ci dice l’autore, il vocabolo ha una portata maggiore e vuole indicare una chiesa governata in larga parte da e per l’aristocrazia.

Insieme ai popoli venivano convertiti in massa i loro sudditi. Gli evangelizzatori speravano che, convertendo l’élite, il popolo avrebbe fatto altrettanto. «Tale era la speranza», prosegue l’autore, «e, in verità, spesso essa trovò realizzazione». Ciònonostante, le stesse fonti ammettono che alcuni dei sudditi di Etelberto divennero cristiani «per paura del re o per ottenere il suo favore», e che Edvino «con doni e trattati incoraggiò gli uomini ad adottare la fede cristiana».

I popoli restii alla conversione divennero un bersaglio di guerra. La conversione dei Sassoni, e qualche secolo dopo quella dei Vendi (per mano degli stessi Sassoni!), avvennero con l’uso durissimo della forza militare. Citando ancora una volta l’autore, «la conquista spirituale della Prussia e della Livonia anticipa quella del Messico e del Perù».

Era dunque necessario ricorrere all’autorità secolare per convertire l’Europa? L’esempio scandinavo sembrerebbe dimostrare il contrario. Ma non necessariamente la via percorsa in un luogo per ottenere lo scopo perseguito ottiene meccanicamente gli stessi risultati in un altro. Il dubbio è destinato pertanto a rimanere.

4. Quali erano le aspettative dei potenziali convertiti?

La “religiosità empirica” che contraddistingueva i popoli che sarebbero stati convertiti ha lasciato pochissime tracce, a causa della cultura esclusivamente orale di molti di essi e del disinteresse degli scrittori ecclesiastici. Come ricorda Fletcher in apertura, «se ci poniamo la domanda: “Da quale religione i re germanici furono convertiti al cristianesimo?”, dobbiamo confessare di non sapere granché al riguardo e che, probabilmente, mai ne sapremo di più. La maggior parte delle tracce […] sono state diligentemente cancellate dai cristiani». Le stesse ragioni della preferenza che i Germani accordarono all’arianesimo rimangono elusive.

Secondo l’autore, «la carta vincente del cristianesimo era la sua abilità di soddisfare pienamente ogni aspettativa materiale». Specialmente nei confronti dei popoli del nord Europa, fu giocata anche la carta climatica: il sud cattolico godeva di raccolti eccezionali proprio grazie alla sua religione. La conversione dei “barbari” non portò loro un ambiente meno freddo, ma il messaggio era comunque passato: «Diventate cristiani e sarete ricchi», queste le argomentazioni di Daniele di Winchester (maestro di Bonifacio) riportate all’interno del testo.

Le aspettative dei sovrani si indirizzavano verso nuove vittorie in guerra: non tutte furono soddisfatte (Edvino, ad esempio, morì per mano di un re pagano). Per i più poveri, le speranze di condizioni di vita migliori si sarebbero ancora una volta rivelate un sogno. Questo non significa che, in seguito, i popoli convertiti non siano stati spesso caratterizzati da un sentimento di profonda religiosità (l’esempio irlandese è, in questo senso, addirittura emblematico): a prescindere dalle modalità di conversione e dal tipo di cristianesimo che praticarono.

5. Come comunicavano gli evangelizzatori?

Il loro compito non era certo facile: si muovevano in territori spesso sconosciuti dove venivano meno le garanzie offerte dalle autorità secolari, e dove non molti cristiani, prima di loro, si erano avventurati. La lingua poteva essere un ostacolo impegnativo: è ampiamente attestato l’utilizzo di interpreti da parte di tutti i più importanti missionari. Questo ovviamente significa, implicitamente, che esisteva già una rete di relazioni tra uomini al di qua e al di là della frontiera, uomini che l’autore individua soprattutto tra i mercanti: il movimento di merci (e uomini), all’interno del continente europeo, si ridusse senz’altro durante l’epoca alto-medievale, ma non si azzerò mai definitivamente, nemmeno per quanto riguarda i prodotti più preziosi. Gli evangelizzatori non si trovarono, quindi, di fronte a difficoltà quasi insormontabili come quelle a cui sarebbero andati incontro i loro successori nel continente americano. Nonostante ciò, le ragioni di alcuni fallimenti sono da individuare proprio nelle difficoltà di comunicazione: ad esempio quelle incontrate da Amando nei suoi tentativi di convertire i Baschi, il cui idioma non fa parte del ceppo indo-europeo.

La lingua poteva però anche essere uno strumento da sfruttare ai fini della conversione: ne diedero una dimostrazione passata alla storia i greci Cirillo e Metodio nella loro opera di evangelizzazione dei popoli slavi, dando una scrittura a chi non la possedeva ancora (e si trattava del glagolitico, non del cirillico che pur prende il nome da uno dei due fratelli). Solo leggermente meno famoso (a causa della sua fede ariana, probabilmente) è Ulfila, il vescovo goto autore della prima traduzione della Bibbia in una lingua germanica. La diffusione di una letteratura in lingua locale rassicurava i detentori del potere, e d’altro canto consentiva ai cristiani di raggiungere con maggior facilità le popolazioni con cui erano entrati in contatto. Anche in questo caso, tuttavia, disponiamo di un’eccezione rilevante rappresentata dall’Irlanda, un’isola che non fu nemmeno toccata dalla romanizzazione, e che per contro (o forse proprio per questo) divenne la terra dove si insegnava il miglior latino d’Europa.

Non bisogna tuttavia enfatizzare l’importanza del linguaggio: come sostiene l’autore, gli evangelizzatori riuscirono nel loro intento soprattutto grazie alle loro opere, intendendo con questo sia la carità nei confronti delle popolazioni interessate, atteggiamento che rappresentava una chiara discontinuità con la realtà precedente, sia quelle azioni efficaci di per sé che, nella successiva letteratura agiografica, sarebbero state definite miracolose. «La fede della gente viene stimolata da tali segni di santità», scrisse Rodolfo da Fulda narrando la vita di santa Lioba. «Ed era precisamente questo il punto», chiosa Richard Fletcher: «Potere spirituale e autorità avevano arriso a coloro che potevano rispondere alle aspettative della gente perché essi avevano accesso a mezzi di spiegazione, propiziazione e controllo negati alla maggior parte della gente». Una comunicazione non verbale, insomma, ma estremamente efficace. Tuttavia, «anche altri si vantavano di poter operare tali miracoli».

6. Quanto erano elastici?

«Da lungo tempo abbiamo stabilito che la propensione ad adattarsi fu un fattore di critica importanza per il processo della cristianizzazione», scrive l’autore, che si sforza di tracciare delle vere e proprie linee di demarcazione intorno a ciò che era accettabile nell’ambito della pratica tradizionale. Vi furono falchi e colombe, varianti di tempo e spazio, tanto che, suggerisce Fletcher, «la consuetudine di un’epoca poteva venir considerata una pratica empia in un’altra».

Una certa oscillazione si poteva riscontrare addirittura nella stessa persona: l’autore ricorda più volte le critiche di Bonifacio ai missionari Aldeberto e Clemente, che nello sforzo di conversione avevano probabilmente superato quelli che a quei tempi erano ritenuti limiti invalicabili. Ma il santo evangelizzatore accusava tra l’altro i due di aver moltiplicato i siti di adorazione cristiana, un’azione che anche Bonifacio andava conducendo nella stessa epoca (e suppergiù anche negli stessi posti).

La via dell’adattamento è adeguatamente rappresentata dalle parole di papa Gregorio Magno: «Tra quella gente non debbono affatto essere abbattuti i templi, ma piuttosto gli idoli che sono dentro di quelli […] in tal modo la gente, mentre non vede abbattuti i suoi templi, potrà però allontanare dal cuore l’errore, e conoscendo e adorando il vero Dio, si riunirà più facilmente nei luoghi che le sono familiari […] Non c’è dubbio infatti che è impossibile tagliar via tutto in un colpo da menti indurite». Parole che tuttavia non ebbero la forza di imporsi: anche nei secoli successivi le distruzioni dei luoghi sacri delle popolazioni non cristiane si sarebbero ripetuti.

Che l’adattamento vi sia stato è testimoniato dallo stesso calendario, dai giorni della settimana che (ancora oggi) sono dedicati a divinità pagane. Ed è testimoniato anche dalla lentezza con cui fu accolta la datazione degli anni a partire dalla nascita di Cristo.

7. Come reagirono I convertiti alle richieste della nuova fede?

La cristianizzazione dell’Europa fu un percorso che durò oltre un millennio. La sincera adesione dei convertiti alla religione trionfante fu anch’essa estremamente lenta. Non a caso Fletcher intitola un capitolo Un gradino alla volta. Ancora nel VI secolo le gerarchie ecclesiastiche individuavano territori da evangelizzare in Anatolia e a Terracina, nel cuore stesso cioè delle aree storiche della presenza cristiana. E diffusissimi erano ancora all’epoca gli arioli, sorta di stregoni a cui si rivolgeva la popolazione (compresa una parte del clero) in caso di difficoltà.

Gli stessi problemi sarebbero stati riscontrati in seguito alla conversione dei popoli non romanizzati, soprattutto laddove era stata imposta da una scelta dell’autorità secolare. Accettare il cambiamento fu relativamente semplice per i ceti più elevati: non solo per l’aristocrazia, ma anche per quei sacerdoti come Coifi di Northumbria, che ebbe a osservare come adorare le divinità pagane non gli avesse portato grandi benefici, e che fu poi il primo a guidare la profanazione dei templi della religione di cui era stato capo fino a pochi giorni prima della conversione.

Diversamente andò per la popolazione più semplice. Estremamente significativo (e anche molto divertente, se vogliamo) è il racconto delle prime conversioni dei danesi, a cui, dopo il rito battesimale, veniva fornita una veste di un certo pregio. Un giorno che tali abiti furono insufficienti per tutti i battezzati, si levarono delle critiche: «Sentite un po’! Ho già fatto tutte queste abluzioni per almeno venti volte e sono sempre stato abbigliato con un bellissimo abito bianco […] Se non fosse per il fatto che mi avete privato dei miei vestiti senza darmene altri con il risultato che mi sentirei uno stupido ad andarmene via nudo, vi direi di riprenderVi Cristo e anche la vostra tunicaccia!».

Da questa comprensione (o accettazione) parziale della nuova religione nacquero quelle pratiche sincretistiche di cui, a distanza di secoli, possiamo ancora osservare la genesi in altre parti del pianeta.

8. Come si consolidò la nuova fede?

Fletcher dedica ben due capitoli all’argomento (l’ottavo e il tredicesimo). Nonostante l’impegno risulta difficile individuare percorsi comuni nello sviluppo della nuova fede. In alcune parti di Europa la presa della nuova fede fu immediata (ricordiamo ancora una volta l’Irlanda): in altre si dovette invece ricominciare più volte daccapo, come in Sassonia. Le diocesi e gli ordini monastici furono generalmente solerti nel dotare le aree recentemente cristianizzate di chiese e monasteri, in una rete di relazioni che comprendeva anche gruppi di importanti e influenti famiglie che provvedevano patrimonialmente i nuovi luoghi di adorazione. Tuttavia, come ricorda Fletcher, «le aspettative della Chiesa sul comportamento dei laici erano realisticamente minime». Il consolidamento della fede, specialmente tra le fasce di popolazioni più umili, avrebbe talvolta richiesto secoli: va anche ricordato che il tempo non ha mai rappresentato un problema per gli uomini di Chiesa.

9. Quali furono le conseguenze culturali della conversione?

La più importante fu, ovviamente, l’ingresso nella romanitas. L’autore insiste spesso su questo aspetto: il cristianesimo si presentò come un tutt’uno con i valori della civiltà romana (si ricordino in proposito i due aggettivi che Carlo Magno usò per definire il suo Impero). I vescovi, come detto, agitarono più volte il ricordo di Costantino per convincere i sovrani tentennanti. In tal modo, sia il cristianesimo che la romanità si fecero strada in territori che non avevano mai fatto parte dell’Impero. Non solo il diritto romano, ma anche le lettere e le cognizioni scientifiche si espansero a macchia d’olio, in una vincente accoppiata con la nuova fede.

Verso la fine del libro l’autore si sofferma proprio su questo aspetto, aprendo un’interessante prospettiva di osservazione: «Lo studio antropologico delle moderne società che hanno sperimentato la transizione dal politeismo tradizionale a un mondo monoteistico come quello del cristianesimo o dell’islam hanno sottolineato l’effetto solvente del cambiamento sociale e della dislocazione su fedeltà religiose antiche. Un tale solvente è composto da un misto di vicinanza, interazione e penetrazione in una cultura che viene percepita come portatrice di una più avanzata civiltà (in termini di ricchezza, tecnologia, ordine, autorità e via dicendo)». L’attrazione per il mondo romano era fortissima tra i “barbari”, e giocò un ruolo rilevante non solo nella caduta dell’Impero, ma anche nell’ascesa della nuova religione.

10. A che punto si può dire di un individuo o di una società: «lui (o lei o essa) è diventato, è un cristiano?»

Nell’ultimo capitolo Fletcher non può non entrare nel merito della contesa che si è accesa da tempo tra gli storici che negano la sostanza cristiana delle società europee premoderne (specialmente di quelle rurali, in primis Jean Delumeau) e quelli che invitano a osservare il cristianesimo dell’epoca con occhi diversi dai nostri (tra i quali spicca soprattutto John Bossy).

Le simpatie di Fletcher vanno senz’altro a quest’ultimo: la sua convinzione, riprendendo le parole di Bossy, è che «sia possibile ritenere che la chiesa rurale dell’Europa medievale abbia trasmesso, a modo suo, un’immagine rispettabile del cristianesimo al contadino medio». «Poiché siamo così ignoranti sul contenuto e le opere del paganesimo pre-cristiano, sappiamo molto poco riguardo alla religione dalla quale furono convertiti questi popoli […] È quasi ugualmente difficile definire la religione alla quale furono convertiti». Il cristianesimo dei popoli convertiti era anch’esso, a modo suo, cristianesimo. Certo, come conclude l’autore, riformatori e controriformatori del XVI e XVII non sarebbero stati d’accordo con questa affermazione.

Raffaele Carcano
gennaio 2005