Ateismo e laicità

Volume I. Problemi, concetti, definizioni
Phil Zuckerman
Ipermedium
2014
ISBN: 
9788897647089


 

L’ateismo ha suscitato scarsa attenzione nelle scienze sociali, e in particolare nella sociologia, spesso poco interessate a elaborare strumenti capaci di cogliere le caratteristiche della mancanza di fede in quanto fatto sociale, rispetto alla quale sono scarse sia statistiche quantitative adeguate che analisi di campo qualitative specificamente dedicate.

La traduzione in italiano del testo a cura di Phil Zuckerman, cui seguirà a breve la pubblicazione di un secondo volume, intende colmare questa lacuna, nel contesto nazionale, proponendo una lettura scientifica del fenomeno. Necessaria, come sottolinea l’ampio saggio introduttivo di Cavicchia Scalamonti, a comprenderlo meglio, cogliendone le sfumature e decostruendo assunti che si sono spesso riproposti all’interno delle scienze sociali in generale e della sociologia delle religioni in generale – come il naturale teismo dell’essere umano.

Individuare le categorie ed i concetti utili per approcciare al tema dell’ateismo significa, anche, porsi criticamente, pur senza rinnegarli, rispetto ai pochi e pioneristici lavori contemporanei che pur avendo il merito di dare risalto alla questione “tuttavia non sono studi sugli atei e sui laici. Sono lavori decisamente polemici, il cui obiettivo esplicito è quello di convincere la gente che il teismo è menzognero e/o che la religione è una cosa cattiva o dannosa. Simili sforzi, sebbene stimolino l’interesse, non sono scienza sociale.” (pag. 43)

Il testo, così, affronta l’intera questione sociologicamente a partire dal saggio di Eller e dalla sua definizione di categorie di analisi e concettuali, che, immediatamente, decostruisce la presunta monoliticità del campo di analisi. All’interno del gruppo statistico “nessuna religione”, infatti, sono presenti diverse sensibilità e diverse visioni del mondo – ateismo, irreligiosità, agnosticismo, laicismo – che sono chiariti e messi in relazione con fenomeni più ampi e più ampiamente trattati nella letteratura sociologica, come modernizzazione e secolarizzazione.

Tale lettura dell’ateismo ne coglie le criticità e confuta alcune posizioni – quelle polemiche del nuovo ateismo ad esempio – ponendo un interrogativo fondamentale: qual è il futuro dell’ateismo nel mondo contemporaneo del ritorno, o della modernizzazione del religioso? L’ipotesi di Eller è che questo futuro “non è nel confutare dio o gli dei, ma, come nelle religioni non teiste o pre-teiste, nel non parlare affatto di dio o degli dei. È nel creare nuove istituzioni, nuove pratiche nuove abitudini, nuove celebrazioni e nuovi modi di vivere che non abbiano niente a che fare con dio o gli dei.” (pag. 72)

Tali istanze vengono messe a lavoro nei saggi che seguono e che, utilizzando approcci concettuali diversi e diverse metodologie di analisi, mettono in relazione l’ateismo e la laicità nelle loro differenti manifestazioni con alcune istituzioni all’interno delle quali il riferimento al religioso garantirebbe una maggiore stabilità – come la famiglia – o con alcuni elementi chiave della polemica religiosa/antireligiosa classica – sessualità, moralità/immoralità, genere.

Molti sono gli elementi che emergono con forza da tutti i contributi, pur nella loro eterogeneità. Quello che immediatamente colpisce è il dibattito sulla possibilità di costruire un ordine morale al di sopra e al di là del riferimento religioso, soprattutto riguardo la vita quotidiana e familiare. Se il binomio ateismo/immoralità e religiosità/moralità è scomposto da Beit-Hallahmi, che dimostra come il comportamento e il senso morale o immorale hanno “poco a che fare con l’assenze di credenze soprannaturali e hanno più a che fare con fattori generali comuni a loro e al resto dell’umanità” (p. 173), il problema, soprattutto nell’educazione dei figli, è come assicurare al di fuori del riferimento a una religione o a dio la continuità di alcune funzioni sociali, che si ritengono positive, a lungo considerate proprie e istituzionalizzate come patrimonio delle comunità religiose: la socializzazione a un ordine morale, competenze quotidiane, capitale culturale e sociale.

Queste, però, ci mostra Manning, possono essere riproposte all’interno di forme comunitarie non religiose né teistiche – associazioni laiche, umaniste o unitariste – che mantengono spesso alcune delle funzioni sociali e della fruizione di spazi e tempi delle comunità religiose. Di conseguenza, la socializzazione all’ordine morale, più che a Dio e alla religione, sembra esser legata alla partecipazione condivisa a uno stesso immaginario, ovvero “un ordine morale è significativo solo se viene vissuto all’interno della comunità. (pag.105)

La possibile relazione con una comunità scelta consapevolmente, questa volta non come riferimento educativo, ma come luogo all’interno del quale manifestare l’appartenenza, viene ripresa nel saggio di Linneman e Clendenen, che mentre mostrano come l’irreligiosità o l’ateismo non necessariamente implichino una maggiore apertura alle istanze omosessuali – come d’altra parte a quelle di genere approfondite da Furseth – pongono l’accento sulla percezione che atei e irreligiosi hanno di sé, in quanto parte di una minoranza cognitiva, e sulle conseguenze che tale percezione ha a livello individuale e collettivo, rispetto alla manifestazione della propria non credenza. Tale elemento, oltre a influenzare la veridicità dei sondaggi sulle posizioni religiose, come nell’analisi di Paul, sottolinea ancora una volta il bisogno di esprimere la propria visione del mondo all’interno di una comunità, soprattutto se la propria convinzione comporta una rottura rispetto alla famiglia o rispetto alla società.

L’adesione a un gruppo di senso non è parte della scelta di tutti gli atei, che spesso preferiscono vivere e manifestare il proprio sentire nel privato, criticando la stessa organizzazione delle comunità atee, come in uno dei due casi narrati da Furseth, perché in quanto comunità normative, implicano una condivisione pressoché totale di intenti e posizioni. Tuttavia, i non credenti in dio o nei sistemi religiosi enfatizzano la consapevolezza del proprio percorso, la scelta del proprio sistema di riferimento, indipendentemente dal fatto che venga condivisa con altri o meno

L’enfasi sulla scelta, l’individualismo delle posizioni e, quando c’è, il riferimento a comunità di affinità, che tipicamente assumono la forma organizzativa della congregazione, pongono gli atei in relazione con un cambiamento più ampio del sentire e dell’inserire il proprio sentire nello spazio sociale, che altri autori notano anche nelle religioni, organizzate e non organizzate, ribadendo ancora una volta come lo studio dell’ateismo e della irreligiosità siano parte costitutiva della sociologia delle credenze.

Nello stesso tempo, però, è necessario sottolineare che le declinazioni e le espressioni che irreligiosità e ateismo assumono variano, a seconda dei territori, della cultura politica nazionale e regionale, della religione dominante e del suo rapporto storico con le altre religioni, con l’ateismo, con lo Stato e con la società, per cui gli stessi concetti e le stesse categorie che nel testo si riferiscono al mondo occidentale, e all’interno di esso al mondo “bianco”, possono evidenziare dinamiche e forme diverse se messe al lavoro in altri spazi sociali. Un rilievo che probabilmente troverà risposta nel secondo volume di questa importante ricerca.

Valentina Fedele

dicembre 2013