50 motivi per cui si crede in Dio, 50 ragioni per dubitarne

Guy P. Harrison
Nessun Dogma
2015
ISBN: 
9788898602087

Ci sono libri che segnano un’epoca perché qualcuno prima o poi doveva scriverli. Penso a Viaggio nel mondo del paranormale di Piero Angela, in quel lontano 1978, che per la prima volta affrontò la problematica dei fenomeni ai confini della realtà, ad intra, permettendo di svelarne le suggestioni. Trent’anni dopo, nel 2008, negli Stati Uniti esce 50 Reasons People Give for Believing in a God del fotografo e giornalista scientifico Guy P. Harrison , oggi edito da Nessun Dogma, con la traduzione di Paolo Ferrarini, il cui titolo è mutato in 50 motivi per cui si crede in Dio, 50 motivi per dubitarne.

L’approccio (e si spera anche la fortuna in Italia) ricorda molto il best seller di Angela. Lì il giornalista e divulgatore scientifico affermava: “Questo non è un libro per coloro che vogliono credere, ma per coloro che vogliono capire”, qui Harrison dichiara: “Lo scopo di questo libro non è dimostrare l’inesistenza degli dei. Voglio soltanto incoraggiare i lettori a riflettere in modo più approfondito sui motivi per cui credono in un dio”. Ancora una volta un’analisi ad intra, schietta ma con atteggiamento rispettoso. Siamo ben lontani dalle lucide e caustiche requisitorie di quegli atei cattivi alla Dennett, Dawkins, Harris o (del compianto) Hitchens, che pure vengono menzionati.

Solo una volta forse l’autore viola la regola del politically correct, quando riporta il pensiero del comico George Carlin, a proposito dell’efficacia della preghiera (argomento supremo per molti credenti) il quale dichiara di avere smesso di pregare dio perché la percentuale di richieste esaudite era insoddisfacente, così ha deciso di mettersi a pregare un attore, Joe Pesci! Ecco il succo del discorso, capolavoro di ironia: “E’ da un anno che prego Joe, e ho notato una cosa. Ho notato che le preghiere che prima rivolgevo a Dio e le preghiere che ora rivolgo a Joe Pesci sono esaudite nella stessa percentuale del 50 per cento. Metà delle volta ottengo quello che voglio, metà delle volte no. Lo stesso con Dio, 50-50. Lo stesso del quadrifoglio e del ferro di cavallo, del pozzi dei desideri e del piede di coniglio, lo stesso del Mojo Man, lo stesso della signora vodoo che ti predice il futuro schiacciando i testicoli di una capra. E’ sempre la stessa cosa: 50-50. Insomma, scegliti la superstizione che preferisci, mettiti comodo, esprimi un desiderio e divertiti”.

Questo libro vuole essere anche un reportage, un corollario delle risposte più comuni alla domanda “perché credi al tuo dio o ai tuoi dei”. Harrison osserva che, a prescindere dalla religione di riferimento, le risposte dei suoi interlocutori, fatalmente, si assomigliano tutte. Un’altra considerazione acuta è che usualmente i credenti non arrivano alla fede dopo grandi elucubrazioni intellettuali o dopo avere letto magari la Summa theologiae. La fede è un’abitudine, qualcosa di acquisito che non ha bisogno di indagine critica anche se cozza con le più stridenti evidenze. Se solo qualcuno volesse passare al vaglio critico della storia, se non della logica, le proprie scritture “sacre” ne verrebbe sopraffatto.

Naturalmente così non è: la fede ha forti implicazioni emotive e sentimentali, ha un valore identitario, cementa le comunità, per questo un approccio fortemente polemico, secondo l’autore, non fa altro che mettere il credente sulla difensiva. L’unica strada, intrapresa da questo libro, è quella di soffermarsi sulle ragioni, anche poco ragionevoli, di quanti credono, cercando di instillare loro più che ragionevoli dubbi sui motivi di queste scelte. Per esempio, su un piano eminentemente etico, come è possibile pensare ad un dio buono se gran parte dell’umanità soffre la fame, le malattie, è vittima di guerra è ingiustizie? Perché i leader religiosi sono tutti straricchi? Come mai i Paesi più religiosi del pianeta sono quelli dove il livello di vita è più basso e più alta è la mortalità infantile?

Un altro argomento notorio a favore del fatto che si crede è perché la religione insegna a essere più buoni o in altre parole è intrisa di moralità mentre gli atei sarebbero persone intrinsecamente cattive, perché senza Dio. A questo proposito non meravigli che un presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, abbia potuto affermare: “Non credo che gli atei possano essere considerati cittadini a tutti gli effetti, e di certo non vanno considerati patrioti”. Harrison rammenta che due tra gli uomini più ricchi della terra, Warren Buffett e Bill Gates, ultramiliardari, atei dichiarati, utilizzano una fetta non indifferente del loro patrimonio per combattere la povertà nel mondo.

L’argomento, ricorrente, della popolarità della religione, è smontato sulla base della considerazione che un dio così evidente non avrebbe bisogno di genitori (e anche altri categorie di adulti) tanto zelanti da impartire sin dalla tenera età ai propri figli un’educazione religiosa, a volte arrivando a vere e proprie forme di coercizione (si vedano le scuole coraniche). Inoltre, come mai i gruppi religiosi sono così in disaccordo tra loro? E come la mettiamo sulla circostanza che esiste almeno un quinto dell’umanità che non si riconosce in alcuna religione e questo dato è in continuo aumento?

Un particolare interessante è che nel libro è spesso citato Dan Barker, noto predicatore cristiano poi passato all’ateismo. In genere si usa una certa enfasi riguardo alla conversione di persone che passano dalla non credenza alla fede. Barker è la prova inconfutabile che è possibile la rotta inversa. E che, almeno, anche il dono della fede non è irreversibile.

Stefano Marullo

giugno 2015