Il crocifisso di Stato

Sergio Luzzatto
Einaudi
2011
ISBN: 
9788806207274

Cosa mettere nelle aule scolastiche: il crocifisso, niente o, come propose il presidente degli ebrei italiani, la doppia elica del DNA simbolo degli esseri umani?
Per rispondere, il veloce testo dello storico Sergio Luzzatto ci informa sulle molte questioni che girano intorno alla presenza del crocifisso nei luoghi pubblici; quel crocifisso indicato come identità dell’Italia e come oggetto che non ha mai fatto male a qualcuno.
Invece, per Luzzatto senza crocifisso l’Italia sarebbe più ricca e migliore. Solo da noi è così difficile capirlo. Il crocifisso è nella storia di altri Paesi come la Francia, la Baviera, la Spagna: ma lì le leggi non si ispirano alla morale del cristianesimo; non a caso il titolo è «Il crocifisso di Stato».
Il libro inizia a guardare alla sentenza della Corte Europea per i diritti dell’Uomo di Strasburgo sull’esposizione dei crocifissi nelle aule scolastiche. Quella sentenza «non basterà a schiodare» i crocifissi dalle pareti, ma li propone come un problema di diritto e di storia.
Un capitolo importante di questa storia è la sentenza Montagnana (1 marzo 2000, Marcello Montagnana purtroppo è deceduto nel 2004), epilogo di una lotta iniziata nel 1994 al Seggio elettorale n. 71 dell’ospedale Santa Croce di Cuneo, quando questo anonimo professore iscritto alla Uaar rilevò che non si poteva assolvere ai compiti di scrutatore in presenza di un simbolo così dichiaratamente dissonante con la neutralità prescritta dalla Costituzione.
Quella sentenza lo assolse dopo un calvario di sei anni.
Nel 1999 Montagnana veniva dipinto macchiettisticamente perfino dal futuro strenuo difensore delle libertà civili, nonché allievo dei Salesiani, Marco Travaglio. Su «la Repubblica», ci informa Luzzatto, questi scrisse un articolo, «Il crocifisso va rispettato», in cui descrisse sarcasticamente Montagnana e rubricò la sua iniziativa come un «rifiuto pretestuoso».
La sentenza Montagnana, invece, smentiva il parere del Consiglio di Stato che nel 1988 aveva elevato il crocifisso a simbolo di civiltà indipendente dalla sfera religiosa: nessuna radice storica può imporre la presunta universalità del cristianesimo.
Questo concetto è stato poi ribadito dalla vicenda legale dei coniugi Albertin-Lautsi: i crocifissi nelle aule sono proselitismo religioso. 
La eco che la vicenda Montagnana ebbe sulla stampa indusse una donna di sinistra, Natalia Ginzburg, a redigere un articolo su l’Unità del 25 marzo 1988 che si rilevò un vero e proprio urtext, un prototipo, di ovvietà e di disinformazione.
Luzzatto parte da questo articolo per ripercorrere i capitoli della storia del crocifisso e demolire alcune affermazioni della Ginzburg, quali: la cristianità ha cambiato il mondo, Gesù ha patito la croce come noi, il crocifisso non genera nessuna discriminazione, il crocifisso c’è sempre stato.
Partendo proprio da questa ultima affermazione dell’improvvida giornalista, croce e crocifisso non sono la stessa cosa. Per il primo millennio cristiano, il crocifisso è assente, c’è soltanto la croce. C’è un Cristo trionfante, non sofferente. Il crocifisso comparve solo col secolo XII, durante il quale perse il suo carattere trionfante. Nel 1300 Cristo divenne umano e sofferente, con l’evidente proposito di spingere i fedeli a immedesimarsi in quella sofferenza. Il 1300 è anche il secolo delle Crociate e delle persecuzioni contro gli ebree deicidi, che furono oggetto di battesimi forzati, massacri e processi del Sant’Uffizio.
Nel percorso storico che Luzzatto delinea, Gesù non fu crocifisso, perché la sentenza del Sinedrio seguì la legge ebraica, quindi fu lapidato e appeso a un albero.
Poi l’autore accenna ad «altri cristi», quali San Francesco e soprattutto Padre Pio, culto presto diventato mass mediale.
La Marcia su Roma del 1922, promossa dal governo Mussolini, fu la rivincita dei «buoni» cattolici sui cittadini sine deo; così almeno la interpretò Curzio Malaparte. Quella rivoluzione clerico-fascista consegnò i crocifissi alle pareti italiane, meglio di quanto aveva prescritto la Legge Casati del 1859 sull’obbligo di affiggerli in scuola assieme al ritratto del Re; successivamente quegli arredi sarebbero stati espianti dal periodo laico; ma un mese dopo la Marcia, una circolare ministeriale li rimise al loro posto in nome della «religione di Stato».
Dal ‘23 al ‘26 l’obbligo fu esteso a tutti gli ambienti pubblici. Luzzatto individua il motore di tutto quanto nel sottosegretario fascista Dario Lupi, che non solo impose il crocifisso ovunque, ma ideò altri ossequi al fascismo come i «parchi della rimembranza» dove ogni studente era obbligato a piantare un albero per ogni caduto della Guerra Mondiale, l’omaggio al tricolore promosso a nuova eucarestia, e l’elevazione di San Francesco a patrono della dittatura fascista.
Luzzatto si sofferma sulla figura dell’ateo devoto definendolo colui che tutela la Chiesa per motivi politici senza aderire alla fede: la convinzione che si possa governare solo così è una funzione storica dell’Italia unita, e le normative a favore del crocifisso ne sono la misura. L’attività dell’ateo devoto è la lotta al «laicismo», un lemma presente solo in italiano (in altre lingue è presente «laico» e «laicità») allo scopo di peggiorarne il significato. «Laicismo» risale alla pubblicazione del Sillabo di Pio IX.
L’utopistico «libera chiesa in libero stato» venne presto disconosciuto dagli eredi del defunto Cavour. L’Italia fu «laica» solo nei pochi anni fra la presa di Porta Pia e la Prima Guerra Mondiale, pur nella predominanza che il cattolicesimo conservò grazie allo Statuto albertino. Oggi, il fallimento di quella utopia è misurato dalla sostanziale impossibilità di togliere i crocifissi dalle pareti. Luzzatto ne incolpa la classe politica che, divisa su tutto, ritrova una unione sacra solo quando si tratta di difendere la presenza del crocifisso negli spazi pubblici. Nessun sondaggio ci informa su quanti italiani hanno ancora appeso il crocifisso al capezzale del letto; non se ne parla, non conta. Eppure sarebbe importante: gli antropologi concordano sul fatto che la difesa a oltranza del crocifisso pubblico serve a mascherare la sua sparizione negli spazi privati.
Il senatore Mario Gozzini, da cattolico, disse che la fede non ha bisogno di orpelli statali, e fece una profezia oggi attuale sulla mutazione pretestuosa del significato del crocifisso da simbolo di una religione a simbolo universale di sofferenza. I cattolici di allora e di oggi non si sono accorti che in questo modo quel simbolo «senza resurrezione» si impoverisce e diventa profano.
Di sicuro non se n’è accorto l’ex comunista ed ex molto altro Ferdinando Adornato, che nel 2002 si accodò all’ennesima difesa d’ufficio fatta dal papa sul crocifisso in scuola e dichiarò al Corsera che il crocifisso non è il simbolo di una religione ma di una nazione.
Il testo di Luzzatto percorre così la vicenda del crocifisso fra storia e attualità ma, «ovviamente», non addiviene a una risposta definitiva. Il moltiplicarsi di opinioni e pure di sentenze a favore della piena applicazione degli articoli 7, 8 e 20 della Costituzione non scuote più di tanto la volontà politica italiana, al di là del suo colore. I crocifissi restano appesi nelle aule scolastiche, nei tribunali, negli ospedali e nei municipi, oltre che campeggiare su monti e strade. E questo è tipico di uno Stato etico, con buona pace della trasformazione multiculturale della società e del cammino irrefrenabile della secolarizzazione.

Calogero Martorana

Marzo 2011