Punti cardinali d’un umanismo ateo

Pubblicato per la prima volta in Italia su L’Ateo 1/1999 (pp. 6-8), riteniamo di dover «salvare» in queste pagine il contributo del filosofo tedesco Joachim Kahl all’ardua definizione d’un umanismo integrale e davvero moderno, che la tradizione europea ha dovuto - in maniera coatta quanto inerziale - qualificare a priori come «cristiano».

L’umanismo ateistico, quale viene qui abbozzato in tratti essenziali, non è orientato verso sacerdoti o profeti, non si regge su predicatori né papi, né su messia di qualsivoglia genere. L’umanismo ateo si preclude al culto della personalità, alla coscienza della predestinazione, allo zelo della conversione, alla mentalità di conversi e di rinnegati. L’umanismo ateo è alieno da qualsiasi bisogno di credere, da qualsivoglia settarismo, da fanatismi di ogni specie.

 

In quanto impostazione postreligiosa e postmarxistica di pensare e di vivere, esso è tuttavia alla ricerca di elementari virtù umane, filosoficamente legittimabili, come intelligenza e saggezza, equità e dinamismo, senza escludere apporti di autoironia e di spirito umoristico.

 

La ricerca del senso, di punti fermi, d’un ubi consistam, insita nell’umano cosmopolitismo, la domanda del dove, del come, del perché dell’esistenza, non vengono mistificate - a guisa di corto circuito - in istanze religiose. Certo, l’uomo ha un bisogno elementare di spirituale orientamento nel mondo, che promana dalla sua riduzione istintuale rispetto all’animale. Un atteggiamento interrogativo, di stupore e di dubbio, scaturisce dalla stessa umana condizione di base, che è antropologicamente predeterminata. Non altrettanto antropologici, per contro, sono natura e contenuto della risposta: che può essere religiosa e non religiosa. È pertanto errato interpretare in chiave religiosa ogni cercatore di senso quale «cercatore di dio», mettendo sullo stesso piano istanze spirituali e bisogni religiosi.

 

Non esiste una «compulsione all’eresia»(1), come afferma il sociologo della religione austriaco-americano Peter L. Berger e, pertanto, non v’è neppure, necessariamente, una «religione dei senza religione»(2) come ritiene Heiner Barz, sulle orme di Berger, nel suo validissimo studio Religione postmoderna.

Gli uomini sono certamente in grado di vivere con dignità e con decoro, senza dover trasfigurare come sacro, o addirittura come divino, qualcosa nel mondo (oppure il mondo come tutto), né demonizzarlo come diabolico. Vero è che nessuna persona può vivere senza legami assoluti, che ne sia conscia o no, che lo voglia o meno. E questo - in quanto enunciato all’interno d’una filosofia ateo-umanistica - potrà magari lasciare sconcertati. Ma l’essere mortale non è anch’esso un tale legame assoluto? Ineluttabilmente noi siamo sottoposti alla legge della finitezza e dell’effimero. Ad ogni relatività delle cose umane è preposto un fondamento assoluto, che si sedimenta nell’umana coscienza anche come assoluta, incondizionata certezza: io sono mortale, noi tutti siamo mortali.

L’Assoluto è immanente nella struttura fondamentale dell’Essere stesso: nell’incessante mutazione della natura, nell’inarrestabile flusso del tempo. L’assoluta certezza che dobbiamo morire, che la nostra vita è breve, che giorni e anni trascorrono irreversibilmente, che quanto è accaduto (il fatto) non può divenire non fatto, costituisce il fondamento della scepsi filosofica. Proprio questa esclude l’idea di valori assoluti, ad esempio l’idea di assoluta giustizia e di assoluta conciliazione tra gli uomini, nonché tra uomo e natura.

 

Nell’invalicabile barriera naturale dell’uomo, nella morte, si misura nettamente la differenza tra una visione del mondo religiosa e una non religiosa. Mentre, per esempio, il messaggio cristiano - per dirla con Eugen Drewermann - «difende e annuncia l’esistenza d’una vita oltre la morte»(3) un umanismo laico raccomanda invece di smascherare il sogno della vita eterna come intemperanza e come incubo, per accettare pacatamente il proprio essere effimero e transeunte.

 

Per questa posizione, già prefigurata nell’antico materialismo di Epicuro, Norbert Elias ha trovato parole belle e chiare: «La morte non è nulla di spaventoso […] Spaventoso è quando le persone devono morire in gioventù, prima di dare un senso alla loro vita e di poter gustare delle gioie della vita […] La morte non nasconde alcun mistero. Non apre alcuna porta. È la fine d’una persona. Ciò che di essa sopravvive è ciò che essa ha dato ad altri, ciò che rimane nel ricordo».(4)

Nella mia rinnovata arringa a sostegno d’una humanitas senza dio, io cerco di evitare tre errori, che nella teoria e nella pratica hanno sospinto gli uomini in un vicolo cieco. Un umanismo attuale, adeguato alla cultura del nostro tempo, non dovrebbe essere in nessun modo:

 

  • antropocentrico,
  • logocentrico,
  • eurocentrico.

Un umanismo, che confonda se stesso con l’antropocentrismo, non coglie appieno le proporzioni nel rapporto uomo-natura, uomo-mondo. Mentre la natura eterna è esistita, può esistere ed esisterà anche senza la specie umana, l’uomo può sussistere soltanto come effimera sua creatura. La natura sussiste da sé stessa e per se stessa - con sua autonoma legittimazione. Essa non è fatta per l’uomo, come pretende la supponenza di questi, il quale si immagina suo signore, il suo centro focale, il suo fine.

 

Il linguaggio svela e occulta insieme questo dato di fatto. Quando nasce un bambino, è lui che viene al mondo, non già il mondo che va da lui. E, con la sua morte, è l’individuo che lascia il mondo, il quale continua ad esistere anche senza di lui. Il discorso sulla storia mondiale, per contro - ove si intenda solo la storia degli uomini - mostra la riduzione e il rimpicciolimento del mondo a misura del mondo umano. Ma la terra non è il cosmo. Essa è un granello di polvere nell’universo. E qualora tutta la vita si spegnesse sulla terra, questo non sarebbe la fine del mondo. Il mondo non può tramontare, il che non è peraltro una consolazione.

 

Fu Francois-Marie Arouet, detto Voltaire, quello che, fra i primi in Europa, mise alla gogna la megalomania antropocentrica, quale si era sedimentata nella tradizione giudaico-cristiana. Nel suo racconto filosofico Micromega (1752), egli fa che un abitante di Sirio e uno di Saturno intraprendano un viaggio d’istruzione attraverso il cosmo.(5) Alla fine, sul minuscolo globo terracqueo, essi scoprono sotto una lente d’ingrandimento degli uomini, insetti pensanti e parlanti «nell’abisso dell’infinitamente piccolo». Con l’ausilio d’un cornetto acustico prendono contatto con questi «atomi spirituali», origliando con sommo stupore il sermone d’un teologo cattolico che - appellandosi a Tommaso d’Aquino - spiega come i due abitanti celesti, nonché «i loro soli, le lune, le stelle e quant’altro sono fatti solo per l’uomo». Al che i due scoppiano ovviamente in una omerica risata. L’abitante di Sirio è inoltre alquanto irritato del fatto che quegli «esseri infinitamente piccoli possiedono una boria infinitamente grande».

 

Coi suoi racconti filosofici Voltaire ha fornito, oltretutto, un’eccellente prova che il pensiero illuminista non s’identifica col logocentrismo. Si trovano in lui, senza pregiudizi, il pensiero logico accanto al mito, la fantasia accanto al raziocinio, il sentimento unito al ragionamento, l’immagine a fianco del concetto, il romanzo col trattato, l’azione pratica col pensiero.

 

E sebbene guardasse agli uomini come ad «atomi pensanti», Voltaire era ben lungi dal sopravvalutare il loro carattere razionale. Nel citato racconto Micromega il gigante proveniente da Sirio non poteva non constatare indignato che la maggioranza dei grilli parlanti è composta d’una «massa di folli, malvagî ed infelici», che si squartano a vicenda a motivo di diversi «mucchi di terra», al punto che «Il viaggiatore si sentì preso da pietà per la minuscola razza umana in cui andava scoprendo contraddizioni così sconcertanti».(5)

Per mezzo della prospettiva cosmologica in Micromegas Voltaire detronizzava il genere umano dalla sua fantasticata posizione egemonica. Ed assestava un colpo decisivo anche all’eurocentrismo, facendo iniziare la storia umana nel lontano Oriente, nella pagana ma civilissima Cina. Il suo umanismo assumeva già un orizzonte cosmopolita ed una vastità ecumenica. Ciò che nel Settecento era accessibile solamente alle menti più illuminate, trova oggi ormai vasta risonanza, come dimostra lo slogan del Club di Roma «Pensare globalmente, agire localmente».

 

La scoperta della politica, della cultura e della filosofia cinese, fa parte essenziale dell’Illuminismo europeo, in quanto era con ciò connesso un discreditamento storico della prospettiva biblica della storia e una relativizzazione delle conquiste europee. Non fu solo Voltaire ad onorare in Confucio un «Socrate cinese», preferendo lui - quale emblema di saggezza e sapienza - ai proverbiali profeti veterotestamentari.

 

L’amore per la saggezza asiatica non deve significare quindi fuga dal razionalismo e dalla modernità, come - con miope prospettiva storica - si potrebbe arguire dalla religiosità New-Age dei nostri giorni. Non erano certo uomini oscuri, ma teste come Voltaire, Leibniz, Lessing, Goethe, Brecht che, con le loro aperture verso la civiltà e la filosofia dell’Oriente, non rinunziavano certo alla civiltà europea, e nemmeno rimpiazzavano meccanicamente l’eurocentrismo col sinocentrismo o con l’indofilia, ma operavano invece per una reale conciliazione tra Oriente e Occidente, in vista d’una reciproca fecondazione delle aree culturali del mondo.

 

Umanismo all’altezza dei tempi: ecco una mobile, intelligente sintesi di molti impulsi, elementi, verità, da qualunque parte essi provengano. Un umanismo consono alla coscienza contemporanea ingloba pertanto:

 

  • illuminismo e illuminazione,
  • riflessione e meditazione,
  • elevazione e approfondimento,
  • attività e contemplazione,
  • teoria e pratica.

Umanismo maturo e all’altezza dei tempi, riguardo ai contenuti, vuol dire: la posizione dell’uomo nella natura si determina per mezzo di umiltà e dignità. La posizione dell’uomo nella società si muove tra i poli di autoaffermazione e di autolimitazione.

L’umiltà è un valore tanto irrinunciabile quanto equivocabile e abusato. Concepita umanisticamente, l’umiltà non è soggezione nei confronti degli altri, bensì realistica introspezione nella pochezza e nella transitorietà dell’uomo - come specie e come individuo - nell’ambito della natura. La dignità deriva all’uomo dal fatto che egli, in quanto vivente ridotto all’istintualità e pertanto aperto al mondo, è costretto e abilitato a decidere e a rispondere di volta in volta direttamente della propria condotta, esprimendo così una seconda natura.

 

Oggi, all’interno dell’antitesi autoaffermazione e autolimitazione, è da porre in speciale rilievo la moderazione di sé. Nei paesi industrialmente più sviluppati, la spinta collettiva all’individualismo ha promosso una minacciosa tendenza allo sconfinamento da se stessi, ad una sorta di rigonfiamento narcisistico. Questo si esprime in un esasperato atteggiamento rivendicativo nei confronti dello Stato, in uno stile di vita dissipato e in abitudini ai consumi, come pure in mancanza di attenzione per gli altri.

 

È qui che si addensa un imponente groviglio di problemi. Senza autolimitazione, infatti, non vi sarà - nella prospettiva globale - alcuna autoaffermazione. Milioni e milioni di persone debbono imparare nuovamente a praticare virtù dal suono antico, che sanno di vecchio e di superato: sobrietà, modestia, rinuncia.

NOTE

  1. Peter L. Berger. Der Zwang zur Häresie (Herder Spektrum 4098), Freiburg 1992.
  2. Heiner Barz. Postmoderne Religion (…) , Opladen 1992.
  3. Intervista a E. Drewermann con Le Monde. «Libertà non è possibile senza rivolta», in Th. Schweer. Drewermann und die Folgen (…), Heyne 194, München 1992, 183.
  4. Norbert Elias. Sulla solitudine del morente, Suhrkamp, Frankfurt 1984.
  5. Voltaire, «Mikromegas», in Erzählungen, Leipzig 1924, 427, 435.
  6. Voltaire, op.cit., 430, 431.

L’Autore

Di Joachim Kahl, nel numero 2/19997 de l’Ateo (p. 17) a cui rimandiamo, abbiamo pubblicato Non esiste alcun dio, un articolo inviatoci allora dall’autore. Questi «punti cardinali» sono invece il capitolo 5, sezione IV, de La miseria prosegue, nella riedizione (Rowohlt 1993) del suo fondamentale saggio storico La miseria del cristianesimo. Queste pagine, dal titolo Leitmotive eines atheistischen Humanismus (pp. 191-196), sono rese in italiano da Luciano Franceschetti.