La pillola del giorno dopo

Articoli, interviste e commenti apparsi tra il 30 ottobre e il 10 novembre 2000

IL PROVVEDIMENTO

Su Repubblica del 30 ottobre Nello Martini, direttore del Dipartimento di farmacologia del ministero della Sanità, aveva precisato: «il medicinale è stato autorizzato al termine di una procedura europea di “mutuo riconoscimento” proposta dalla Francia dove è in commercio dal marzo scorso. Dopo una valutazione tecnico scientifica della validità del farmaco in termini di qualità, efficienza e sicurezza, tutti i Paesi coinvolti sono tenuti ad autorizzare la specialità medicinale. Per il medicinale il foglietto illustrativo è stato curato, nella versione italiana, ampliando in modo particolare le informazioni per il corretto uso del medicinale».
(come se le donne italiane fossero meno intelligenti delle altre).

Insomma, tutto tranquillo, un provvedimento che entrava in vigore nella semi-indifferenza generale: invece, l’avvio della vendita nelle farmacie (1° novembre) ha dato la stura al solito intervento integralista vaticano, con l’usuale seguito di lacchè e l’imbarazzo degli ultimi mohicani rimasti a difendere la laicità dello Stato.
Già l’intervento del ministro della Sanità Umberto Veronesi dell’1 novembre era inspiegabilmente sulla difensiva: «l’autorizzazione alla commercializzazione in Italia del farmaco è una procedura comunitaria pressoché automatica, in virtù del cosiddetto mutuo riconoscimento. Il processo di unificazione europea passa anche attraverso i ricettari dei medici e i banchi delle farmacie. È legittimo che ad ogni cittadino europeo venga garantito il diritto di trovare a disposizione gli stessi farmaci da Lisbona a Palermo, da Stoccolma ad Atene». Veronesi ricorda infine che in Italia il ministro ha disposto “norme severe di prescrizione per evitare un uso disinvolto del farmaco”, e che comunque da anni “sono usati in Italia metodi meccanici che impediscono l’annidamento e sono in commercio anticoncezionali contenenti lo stesso principio attivo“: «Chi, per motivi etici e religiosi, è convinto oppositore della 194 avrebbe dovuto gioire alla notizia che ora esiste in Italia un prodotto anticoncezionale che, semplicemente simulando un evento naturale quale il mancato annidamento dell’ovulo, sottrae le donne al rischio di trovarsi di fronte al dramma di dover decidere le sorti di un embrione sottoponendosi all’interruzione volontaria della gravidanza presso le strutture del Servizio sanitario nazionale o peggio facendo ricorso clandestinamente a gente senza scrupoli che per anni ha fatto degli aborti un business».
Di fronte alle critiche vaticane, l’ex ministro Rosi Bindi si è subito defilato (da Repubblica del 3 novembre): «La decisione politica e amministrativa dell’autorizzazione è solo di Veronesi». Sarebbe stato necessario un lungo “approfondimento tecnico-scientifico”, spiega polemica la Bindi, che non era ancora concluso il 25 aprile, data d’insediamento di Veronesi. «Troveremo un accordo - dice il segretario dei Popolari Pierluigi Castagnetti, del suo stesso partito - perché ci troviamo di fronte ad un provvedimento di governo che riprende una direttiva europea. Solo in Italia comunque solleviamo polveroni di questo genere».
[Castagnetti non si chiede chi e perché li solleva. Noi invece ci chiediamo perché, in Italia, per giustificare un provvedimento di cui andare orgogliosi è sempre necessario nascondersi dietro alle direttive europee]

Vedendo i tentennamenti del governo, gran parte dell’opposizione a quel punto si è scatenata: per Riccardo Pedrizzi di AN si tratta di un colpo di mano di Veronesi “che, invece di passare attraverso il Parlamento, ha preferito firmare in silenzio un decreto”.
Tesi ribadita ufficialmente da Giuseppe Savagnone, su Avvenire del 2 novembre: «…questa volta la decisione è stata presa d’autorità dal ministro, escludendo il Parlamento e l’opinione pubblica da un dibattito che, come s’è detto, ha invece di per sé un importante valore politico. E questo, a parte la discutibilità di un tale procedimento dal punto di vista istituzionale, non sembra un metodo adatto a far crescere la democrazia».
Savagnone fa finta di non sapere che il Presidente del Consiglio Giuliano Amato aveva già dibattuto la cosa all’inizio di ottobre, rispondendo a un’interrogazione alla Camera dei deputati, in vista dell’imminente commercializzazione del prodotto: «Siamo in presenza» - spiegò - «di una di quelle situazioni in cui l’autorizzazione da parte di uno stato membro risulta obbligata, cioè vincolata, in ragione delle regole del mutuo riconoscimento comunitario». Un vincolo, chiarì Amato, esercitato già in altre occasioni.
[Quindi o Savagnone è disinformato, oppure mente. Ma, guarda caso, agli inizi di ottobre il Vaticano ancora non aveva dato inizio al match, e le dichiarazioni di Amato passarono inosservate]

IL VATICANO PROTESTA: «È ABORTO

Il 30 ottobre uscì la presa di posizione ufficiale della Chiesa Cattolica: un documento della Pontificia Accademia per la Vita (un organismo internazionale quindi, che guarda caso si pronuncia però quando le cose riguardano noi italiani).

Un documento che fissava paletti altissimi: «la pillola del giorno dopo è un preparato a base di ormoni (estrogeni, estroprogestinici, oppure solo progestinici) che, assunta entro e non oltre le 72 ore dopo un rapporto sessuale presumibilmente fecondante, esplica un meccanismo di tipo “antinidatorio”, cioè impedisce che l’eventuale ovulo fecondato (che è un embrione umano), ormai giunto nel suo sviluppo allo stadio di blastocisti (5°-6° giorno dalla fecondazione), si impianti nella parete uterina. Il risultato finale sarà quindi l’espulsione e la perdita di questo embrione. Se può essere utile, per motivi di descrizione scientifica, distinguere con termini convenzionali (ovulo fecondato, embrione, feto) differenti momenti di un unico processo di crescita, non può mai essere lecito decidere arbitrariamente che l’individuo umano abbia maggiore o minor valore (con conseguente fluttuazione del dovere alla sua tutela) a seconda dello stadio di sviluppo in cui si trova. La gravidanza, infatti, comincia dalla fecondazione e non già dall’impianto della blastocisti nella parete uterina».
[Viene da chiedersi perché, con simili premesse, il Vaticano non consideri addirittura la produzione di uno spermatozoo l’inizio della gravidanza (non è uno stadio anche quello?)]

Umberto Veronesi rispose l’indomani, sostenendo che, pur «ritenendo più che legittime le preoccupazioni dei cattolici e rispettando le motivazioni etiche che le hanno ispirate […] l’Oms già nel 1985 aveva incaricato la comunità scientifica di individuare il momento di inizio della gravidanza. Dopo attenta analisi gli esperti avevano stabilito che essa ha inizio dopo l’annidamento dell’ovulo fecondato all’interno dell’utero».
Altri medici sono intervenuti sulla vicenda: per Silvio Garattini, direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano, tutti i farmaci approvati dall’Ue con la procedura centralizzata hanno diritto ad essere posti in commercio entro 90 giorni. «Se si tratta di aborto chimico o meno - dice Garattini - dipende dalle definizioni e dalle convinzioni religiose di ognuno. In questo caso si impedisce l’annidamento dell’ovulo e non c’è ancora un embrione che possa cominciare a crescere. Non c’è possibilità di sviluppo» (dal Corriere della Sera del 3 novembre).

Rilevante anche la presa di posizione del dottor Sandro Spinsanti, medico cattolico, intervistato da La Stampa il 2 novembre: «non c’è un’evidenza scientifica. Noi riteniamo che in un essere umano ci sia qualche cosa di più che in un altro essere animato o animale. Questo di più - l’anima - non si vede al microscopio».
Sicurezze cattoliche che vengono meno anche per don Sciortino, direttore di Famiglia Cristiana, che sul numero del 5 novembre: «possiamo concedere infatti che sia meno devastante per il fisico e la psiche della donna… minore è dunque il male: anche se minore, resta sempre un male».
Poche, ma dure, le critiche della stampa laica. Miriam Mafai (su Repubblica del 1° novembre), scrisse «infatti la Pontificia Accademia pretende, con la sua dichiarazione di ieri, di fissare essa, contro il parere di studiosi e scienziati di tutto il mondo, il momento in cui inizia una gravidanza. La “pillola del giorno dopo” infatti non provoca, come è ben specificato da tutte le ricerche, una interruzione della gravidanza, non provoca cioè un aborto. La pillola infatti, se assunta entro le prime 72 ore da un rapporto sessuale non protetto, evita che una eventuale gravidanza abbia inizio, dato che impedisce l’ annidamento dell’ ovulo fecondato nell’utero, processo che richiede almeno sei o sette giorni».
Secondo Filippo Gentiloni (Manifesto, 2 novembre): «la maggior parte degli studiosi non è d’accordo su questa estensione del concetto di aborto. E, quel che più dovrebbe contare nei palazzi vaticani, non è d’accordo neppure la storia della dottrina cattolica: anche i più autorevoli studiosi cattolici del passato non sono stati concordi sul momento di inizio della persona umana. Perché, allora, questa improvvisa sicurezza? Forse per la necessità di riaffermare una specifica identità cattolica, in tutti i campi, anche - o soprattutto - in quello della morale sessuale, la più discussa e contestata. Perciò le prese di posizione di questa fine di anno giubilare».

Anche dal mondo politico poche voci critiche, quasi esclusivamente di donne. Ha sostenuto senza mezzi termini Micaela Goren (Forza Italia, responsabile sanità in Lombardia, da Repubblica del 10 novembre): «se è abortivo il Norlevo, allora lo è pure la spirale, anche quella impedisce l’annidamento nell’utero. E dovremmo forse macerarci nei sensi di colpa ad ogni mestruazione, visto che ogni volta va disperso “materiale genetico”, anche ovuli fecondati? Sono aborti anche quelli?».

A sinistra, il ministro per le Pari Opportunità, Katia Bellillo (PdCI), ha avuto il coraggio di ricordare su Repubblica del 2 novembre un episodio della sua giovinezza: «La pillola del giorno dopo… Quante polemiche per una cosa che c’è già da anni, da tanti anni. L’ho usata anch’io. E non per questo ho pensato di aver abortito».

Emma Bonino, dei radicali, ha sostenuto tesi ancora più dure: «che la Chiesa trovi difficoltà a coesistere con la modernità e la scienza, dai tempi di Galileo alla pillola del giorno dopo, non è una novità. Nulla da ridire, fin quando esercita il suo magistero nei confronti dei credenti. Ma dove il magistero spirituale si fa azione politica integralista è quando pretende di trasformare il precetto religioso in legge, il peccato in reato. Vietando il preservativo, l’aborto e la pillola del giorno dopo, la Chiesa propugna l’ideale della castità (non perseguibile per legge), ma di fatto ci ripropone i tempi bui dell’aborto clandestino».

LA CHIESA CATTOLICA LANCIA L’OBIEZIONE

Sempre l’ineffabile Pontificia Accademia per la Vita, nel suo documento lanciò l’ennesimo attacco alle leggi italiane: «Da un punto di vista etico la stessa illiceità assoluta di procedere a pratiche abortive sussiste anche per la diffusione, la prescrizione e l’assunzione della pillola del giorno dopo. Sono moralmente responsabili anche tutti coloro che, condividendone o meno l’intenzione, cooperassero direttamente con una tale procedura».

Posizione chiosata da Mons. Elio Sgreccia (da Repubblica del 3 novembre): «è lo Stato che obbliga il farmacista a operare contro i dettami della sua coscienza. Tutti hanno il diritto di non compiere azioni che ledono la propria coscienza. Soprattutto quando è in gioco la vita umana». «Ma la legge è chiarissima. I farmacisti hanno il dovere di distribuire farmaci prescritti dal medico», tenta invano di controbattere l’intervistatore. «Questa norma, l’articolo 38 della legislazione sulla sanità pubblica, si riferisce a medicine che servono a tutelare la salute. Qui siamo, invece, in presenza di sostanze soppressive di una vita umana. Se è così, allora è giusto modificare l’articolo. Bisogna cambiare la legge per consentire alla coscienza di esprimersi».

Sgreccia trovò subito un politico disponibile, il presidente della Regione Lazio Francesco Storace, intervistato su Repubblica il 4 novembre: «come governatore, lei rappresenta tutti, anche quelli interessati a comprare la pillola del giorno dopo in farmacia o no?». «Come governatore, mi devo preoccupare anche, con occhio laicissimo, di chi considera questo prodotto un metodo abortivo. La 194 prevede l’obiezione pure per l’infermiere che maneggia il bisturi… non vedo perché un farmacista non possa essere eticamente contrario». Ma «per i farmacisti non c’è l’obiezione», «Appunto, si tratta di garantire l’obiezione anche a loro, integrando la legge 194».

L’invito all’obiezione rivolto ai farmacisti ha ovviamente sollevato le perplessità di molti commentatori (in realtà, i soliti).

Miriam Mafai, su Repubblica del 1° novembre: «che la Chiesa condannasse l’uso della pillola era legittimo e prevedibile (ne vietò l’uso persino alle suore che erano state stuprate nel corso della guerra bosniaca)…».

Piero Ostellino, sul Corriere della Sera del 1° novembre: «l’appello del Vaticano si configura come una sollecitazione agli “operatori del settore” ad appellarsi alla legge 194 che esonera il personale sanitario dal compimento di procedure e attività dirette a determinare l’interruzione della gravidanza se contrastanti con la coscienza personale. Esso, pertanto, come del resto recita la stessa lettera dell’appello, identifica nella pillola del giorno dopo non un contraccettivo, come sostiene il ministero della Sanità, bensì un metodo abortivo… in conflitto, in tal caso, secondo l’interpretazione della Pontificia accademia per la vita, non sarebbe la Chiesa con lo Stato, bensì finirebbero con essere fra loro le leggi di quest’ultimo. L’una, che impone ai farmacisti di vendere la pillola-contraccettivo; l’altra, che li solleva dal dovere di vendere la pillola-metodo abortivo».

Peggio ancora sul versante dei politici. Micaela Bongi, sul Manifesto del 1° novembre, commentò desolata: «dall’altra parte della barricata tutto tace. Isolata si leva la voce dei radicali contro la “guerra santa dei cattolici”».

FARMACISTI

Dal Corriere della Sera del 2 novembre: «Abbiamo compiuto passi informali» - spiega il leader dei medici cattolici Nino Di Virgilio - «Ci è stato risposto che per i farmaci non è prevista obiezione. Non demordiamo e stiamo insistendo perché la legge venga rivista e l’obiezione allargata. Qui è in discussione la vita. La pillola produce l’aborto chimico. E noi non possiamo accettare la prescrizione di un medicinale che interrompe la gravidanza».

Siamo veramente alla guerra, allora? No. La posizione di Di Virgilio si rivelò isolata. Nello stesso articolo comparve la posizione dell’Ordine nazionale dei farmacisti: «non darei al prodotto una valenza così diabolica» - è la risposta del presidente, Giacomo Leopardi - «Pensiamo che può servire ad evitare gravidanze frutto di violenze sessuali, oppure che mettono a rischio la vita della donna. È giusto che sia venduto apertamente in farmacia. E non dimentichiamo che la pillola del giorno dopo è sempre stata utilizzata ricorrendo ai contraccettivi di prima generazione».

Filippo Gentiloni, commentando la ventilata obiezione sul Manifesto dello stesso giorno: «per fortuna, sembra che i farmacisti recalcitrino. Per il bene della laicità e anche - direi soprattutto - per il bene di tutte quelle donne che potrebbero ricorrere alla pillola contestata proprio perché non vogliono abortire: se non trovassero in farmacia la pillola del giorno dopo a chi dovrebbero imputare il loro aborto se non proprio alla Pontificio Accademia vaticana? A chi mandare il conto - soprattutto morale - dell’interruzione di gravidanza se non alla crociata vaticana?».

L’indomani, il ministro Umberto Veronesi sembrò aprire uno spiraglio: «per loro la situazione è un po’ più complessa visto che svolgono un servizio pubblico, dovrebbe intervenire il Parlamento con una modifica di legge, ma qualcosa va fatto perché uno Stato non può imporre la propria etica a tutti cittadini».
[Siamo proprio sicuri che sia questo il punto?]

Piero Ostellino, lo stesso giorno sul Corriere della Sera: «una dose eccessiva di sonnifero, presa volontariamente, conduce al suicidio. Il suicidio è, per i credenti, peccato mortale. Perché i farmacisti cattolici non pretendono di poter esercitare l’obiezione di coscienza anche per la vendita dei sonniferi? […lo Stato…] non obbliga i cittadini cattolici a fare i farmacisti, se non vogliono vendere la pillola, così come non obbliga i credenti islamici a fare i macellai se non vogliono vendere carne di maiale».
Il cattolico Giuseppe Della Torre, a corto di argomenti, cercò di giustificare l’obiezione in questo modo (da Avvenire del 10 novembre): «si pensi, per esempio, ad una materia in cui proprio la causa della tutela della vita e del rifiuto della violenza (in altre parole della ragione del più forte), era - come oggi - egualmente coinvolta: il riferimento è all’obiezione di coscienza al servizio militare. Su questa linea, com’è noto, le ragioni laiche trovarono consonanze e solidarietà nel mondo dei credenti, permettendo finalmente di giungere alla famosa e storica legge del 1972».
Un argomento già demolito da Paolo Flores d’Arcais sul numero 4/2000 di MicroMega (in riferimento per di più all’obiezione nei confronti dell’aborto, garantita dalla legge): «chi si è battuto con più intransigenza per quel diritto lo ha sempre fatto perché il servizio militare era obbligatorio. Laddove esso diventasse facoltativo, ovviamente, cioè una scelta professionale come un’altra, pretendere di fare il militare e di non portare le armi sarebbe considerata una semplice bizzarria, una stranezza da non prendere nemmeno in considerazione».
[A distanza di tempo si può notare come l’obiezione dei farmacisti non abbia preso piede, e lo stesso Vaticano taccia: quale la causa? Adesioni limitate all’appello pontificio, oppure, furbescamente, i farmacisti (imprenditori privati a differenza dei medici antiabortisti, dipendenti pubblici) hanno preferito non rinunciare agli introiti derivanti dalle vendite del farmaco?]

SIAMO O NON SIAMO IN UNO STATO LAICO?

L’attacco della Chiesa cattolica, né il primo né l’ultimo, ha riaperto la discussione sulla laicità dello stato. Livia Turco, ministro per la Solidarietà Sociale, intervistata da Repubblica l’1 novembre è stata la prima a sostenerlo: «la Chiesa ha tutto il diritto di lanciare messaggi in difesa della vita, anche con forza, rivolgendosi alla coscienza di tutti i cittadini ed ai legislatori, ma di fronte a una legge dello Stato non può invitare medici e farmacisti a disattenderla, a violare una norma che è anche europea, in questo caso è un attacco alla laicità dello Stato di cui non si sente il bisogno».

Miriam Mafai nello stesso numero ha rincarato la dose: «solo da noi si tenta di forzare questo limite, di passare dalla critica e dalla opposizione, all’appello alla disobbedienza civile. Quasi che solo da noi non si fosse ancora realizzata quella separazione tra Chiesa e Stato, che è fondamento di ogni moderna società», mettendo poi il dito nella piaga: «é possibile che posizioni troppo concilianti del mondo laico abbiano indotto le nostre autorità ecclesiastiche a questo errore. Ma si tratta di un errore, ed è augurabile che proprio da qui riparta una capacità dei laici di riproporre le loro ragioni, con il coraggio e la coerenza di cui non sempre hanno dato prova nel più recente passato».

Piero Ostellino, sul Corriere della Sera di due giorni dopo: «se le sue ragioni (della Chiesa, n.d.r.) fossero solo morali, perché non ha invitato anche i farmacisti cattolici degli altri Paesi dell’Unione Europea all’obiezione di coscienza?».

Incredibili le tesi di Giuseppe Della Torre (Avvenire del 10 novembre): «paradossalmente i credenti sono doppiamente vincolati nella fedeltà allo Stato: non solo, come ogni altro cittadino, per un dovere giuridico, cioè per un vincolo esterno; ma anche per un dovere morale, cioè per un vincolo interno. Forse non si riflette mai abbastanza sul fatto che, per il credente, “dare a Cesare quel che è di Cesare” è un precetto propriamente etico-religioso, che lo vincola in interiore homine ad una raddoppiata fedeltà all’autorità civile. Insinuare atteggiamenti intrinsecamente disubbidienti in chi professa la fede cristiana è quindi contro ogni evidenza. Almeno fino a che Cesare rimane nell’ambito che è suo proprio».
[Chiaro, no? Fedeli allo Stato, ma solo se lo Stato è confessionale]

E GLI ITALIANI?

«L’hanno usata in venticinquemila. Ragazze di 17-18 anni, informate dalle amiche, del Nord Italia come del Sud, reduci da un “incidente” che nella maggioranza dei casi è un preservativo che si rompe». La prima indagine sulla pillola del giorno dopo è un lavoro dell’AIED, l’associazione italiana per l’educazione demografica, che ha organizzato un congresso a Roma il 9 novembre. L’analisi è stata possibile sulla base dei dati provenienti dai consultori. «Il 4% delle donne che si rivolgono a noi ci chiedono di fare contraccezione d’emergenza» - dice la ginecologa Gloria Dolciotti - «Hanno saputo di questa possibilità attraverso un passaparola fra coetanee, mai dai genitori, qualche volta dal medico».
Un sondaggio Datamedia del 3 novembre aveva appena promosso la pillola del giorno dopo: a favore il 68,2% degli intervistati, contrari il 22,3%, non ha risposto o ha detto «non so» il 9,5%.
[Di fronte a questi dati la mancata rivendicazione di un provvedimento gradito alla stragrande maggioranza della popolazione non può che sorprendere, o far riflettere sul diffuso servilismo dei nostri politici nei confronti del Vaticano]

Eugenio Scalfari, su Repubblica del 5 novembre, ha avuto buon gioco nel commentare: «la Chiesa è libera di incitare i suoi fedeli a comportarsi in determinati modi; lo Stato dal canto suo ha il dovere di stabilire regole e garantire facoltà. Non c’è altro da dire su questo punto specie quando quelle regole e quelle facoltà derivano da direttive di fonte europea. I papisti clericali dovrebbero forse rifletter meglio e di più di fronte a sondaggi che registrano il favore alla pillola del giorno dopo da parte del 70 per cento della pubblica opinione. Ma questi sono fatti loro e non nostri».
[Tuttavia, se riflettessero maggiormente, non dovremmo combattere tante battaglie per difendere i nostri (elementari) diritti]