Antropologia culturale e antropologia biologica: pro e contro Darwin

di Carlo Talenti.

1. In pieno dibattito pro e contro Darwin e la nuova sintesi del darwinismo l’argomento che più inasprisce i temi del contendere è certamente la mancata saldatura tra le scienze umane e le scienze biologiche e, in sintesi, tra l’antropologia culturale e l’antropologia biologica, che nella terminologia accademica figura ancora col nome di antropologia fisica. “Saldatura” nel senso forte di una piena accettazione delle metodologie analitico-empiriche e analitico-sperimentali da parte delle scienze umane, e dell’antropologia culturale in particolare. Ciò non significa che non siano in corso iniziative di dialogo tra le due parti in contesa e che dal dibattito non emergano aree sempre più significative di convergenza nella rappresentazione dell’uomo come specie animale che, pur nella sua specificità, non eccede l’ambito dei fenomeni naturali; significa tuttavia che il repertorio del dibattito risulta ancora troppo frammentato e carico di incomprensioni ed equivoci.

Ovviamente le posizioni più contrarie alla descrizione naturalistica sono quelle delle religioni, e soprattutto i monoteismi che più da vicino ci riguardano: cattolicesimo, confessioni protestanti, ebraismo e islamismo. In questo campo, la chiesa cattolica mostra di muoversi con maggiore abilità e sottigliezza, accettando – per esplicita dichiarazione dei più autorevoli responsabili della sua funzione docente – la scientificità della nuova sintesi del darwinismo e lasciando cadere la sua riduzione a pura ipotesi da mettere sullo stesso piano del “creazionismo”.

In realtà, si tratta di un ricupero, come al solito, tardivo e sostenuto per secondi fini. La nuova sintesi del darwinismo, ammette la punta avanzata della chiesa cattolica docente, anche se non è ancora una teoria universalmente condivisa dal mondo scientifico, come le teorie consolidate dei fenomeni fisici e dei fenomeni chimici, è ormai un modello esplicativo imperniato su una solida scienza come la genetica, intorno alla quale convergono verifiche raccolte in un vasto campo interdisciplinare che comprende la paleontologia, l’anatomia comparata, la fisiologia comparata, la paleoantropologia, l’etologia animale, l’etologia umana e altre scienze di confine.

Assumendo i toni da tribunale d’ultima istanza, la chiesa cattolica riconosce che in questi campi della ricerca viene impiegato il metodo della verificazione e falsificazione delle ipotesi e quello della misurazione e della elaborazione matematica dei dati. E già questa supponenza rovescia il gioco delle parti: come se fossero gli scienziati a dover apprendere le metodologie analitico-sperimentali dalla ragione illuminata della chiesa cattolica e se dunque questa fosse la corte di cassazione deputata a decretare se le indagini e i risultati della ricerca sono stati condotti a regola d’arte. Insomma come se Galilei, Newton, Laplace, Lagrange, Mendelejev, Einstein, Planck, Heisenberg e tutti i maggiori scienziati fossero stati covati da prestigiosi centri di ricerca del Vaticano e avessero imparato l’arte nel cuore della Verità per esportarla al mondo. Ma lasciando da parte questa denuncia, che pure deve essere fatta per tacitare il profluvio di interventi sentenziosi circolanti sui media, l’accettazione della nuova sintesi del darwinismo da parte della chiesa cattolica viene oggi sostenuta con particolare rigore per due ragioni teoriche. In primo luogo, per distanziarsi nettamente dalle sciocchezze che circolano in certe confessioni protestanti accanite sostenitrici dell’interpretazione letterale della Bibbia, con annessa difesa dei 5-6000 anni attribuiti alla creazione del mondo e alla storia umana. In secondo luogo per distanziarsi nettamente dall’insidiosa versione del “creazionismo scientifico” che riduce l’eventuale processo evolutivo al “disegno intelligente” della mente divina; con il rischio gravissimo di vanificare la drammaturgia cristocentrica del peccato e della redenzione e di finire in una concezione immanentistica del divino.

Intanto la chiesa cattolica lascia alle seconde e alle terze file dei suoi militanti il compito di portare abilmente discredito contro il darwinismo, avvalendosi delle dispute tra i darwinisti, che dovrebbero essere considerate il normale procedere della ricerca scientifica ed essere accettate come quelle che circolano tra i fisici, i chimici, i cosmologi e, semplicemente, entro qualsiasi campo di ricerca ormai consolidata (persino tra i teologi!); invece qui vengono subito utilizzate per decretare il crollo finale della teoria dell’evoluzione. Purtroppo i laici non hanno spazi adeguati sui media che arrivano al grande pubblico per denunciare che si tratta di un’operazione fraudolenta, intesa a confinare la conoscenza dell’uomo nella ristretta serra della “sapienza rivelata”. Per evitare che si consideri questa denuncia una forma di accanimento sospettoso di chi scrive, vale la pena di citare la conclusione esemplare di Giulio Barsanti, docente di Storia delle Scienze naturali all’Università di Firenze, nella sua recentissima pubblicazione Una lunga pazienza cieca, Einaudi, Torino 2005: «Si ha un bel dire che la Chiesa ha riabilitato, dopo Galileo (1983), anche Darwin (1996): nel maggio del 2002 l’“Avvenire”, quotidiano vicino alla Conferenza Episcopale Italiana, ha annunciato la morte di Gould con un articolo di poche righe in cui è riuscito a dire, nell’ordine, che il grande paleontologo può essere pensato come il “Gorbaciov del darwinismo” perché ha anch’egli vanamente tentato di riformare un sistema “irriformabile”, che la sua teoria ha provocato “il crollo finale del darwinismo” (il necrologio è graziosamente intitolato “Il funerale del darwinismo”) ed ha anzi “distrutto per sempre l’evoluzionismo” comunque pensato, che questo consiste nel ritenere per esempio che “un giorno da una coppia di serpenti è nato un mammifero” e “un altro giorno, da una coppia di scimmie, è nato un uomo”, grazie al fatto che nel frattempo, un mammifero terrestre decise di diventare balena…, che l’evoluzionismo è un “dogma” e il creazionismo, grazie alla sua nuova veste di Intelligent design… è “una vera teoria scientifica”» (p. 374).

Questi richiami sono necessari per valutare adeguatamente le resistenze e le reticenze contro una descrizione pienamente naturalistica dell’uomo; resistenze e reticenze che circolano soprattutto nelle scienze umane, ma anche in qualche settore della ricerca biologica. Non è raro trovare, in qualche trattato generale di biologia o di bioantropologia espressioni caute e sfumate che lasciano alla libertà del lettore il conforto di mantenere la convinzione che la nostra differenza specifica non sia riducibile ad una descrizione puramente biologica. Le dispute accanite che sorgono in materia di bioetica sono la conferma più evidente di questa situazione. Insieme a qualche biologo devoto o prudente troviamo sempre molti psicologi, sociologi e antropologi culturali brillantemente impegnati a fornire spericolate riflessioni filosofiche per far emergere nobilmente l’uomo dal suo retaggio animale. Del resto i termini “bestiale” e “animalesco” sono per uso comune peggiorativi, e come tali tradiscono un antico discredito contro il “riduzionismo biologico”. Lette dal versante darwiniano queste posizioni sono semplicemente descrizioni antropomorfiche dell’uomo, e come tali, frutto di una scienza debole e insicura, oppure d’una collaudata sublimazione letteraria.

2. Le vicende storiche che hanno portato al confronto ormai ineludibile tra antropologia culturale e antropologia biologica sono importanti per entrare nella sostanza del problema. In sintesi anticipatoria, esse possono essere così riassunte: regressione dell’antropologia culturale verso i tempi preistorici della nostra specie, alla scoperta delle sopravvissute culture di caccia e raccolta; progressione dell’antropologia biologica, a partire dal ramo delle scimmie antropomorfe che porta alla nostra differenza specifica fino ai fossili sicuramente attribuibili a Homo sapiens sapiens nella remota versione Cro-Magnon, certamente portatrice di una cultura di caccia e raccolta. La convergenza sembra suggerire un collegamento tra i due percorsi e una continuità ritrovata nella descrizione delle nostre origini; invece le due antropologie si ritrovano in posizioni asimmetriche. Quella biologica accoglie, senza difficoltà concettuali, i risultati dell’antropologia culturale e delle scienze affini come l’archeologia e l’etnografia; quella culturale invece guarda spesso con diffidenza il processo di ominazione e mira piuttosto a sottolineare un presunto salto dalla natura alla cultura. Come comprensibile attenuante di quest’ultimo atteggiamento, occorre anzitutto riconoscere che la sublimazione dell’uomo nella cultura ha alle spalle migliaia di anni, a cominciare dai racconti sacri delle origini che si ritrovano un po’ in tutte le culture, a seguire nelle versioni mitologiche e poi filosofiche delle tradizioni scritte, per giungere fino ai nostri giorni, dove la stessa inventività scientifica è portata a prova d’un distacco incolmabile tra gli animali e Homo sapiens sapiens.

Ma l’antropologia culturale ha dovuto fare i conti anche con una particolare situazione del proprio campo di ricerca: le “società primitive” delle quali studiava le modalità di sopravvivenza e di riproduzione erano tutte situate in località controllate da potenze coloniali che ne avevano modificato, più o meno profondamente l’identità; sia come atto di autoriconoscimento, sia come atto di eteroriconoscimento. In altri termini: la presenza dei colonizzatori – con le proprie presunzioni di portare la civiltà ai “selvaggi” – aveva finito per deformare sia la condizione di vita originaria di questi ultimi, sia la rappresentazione che essi offrivano di se stessi, sia la descrizione che gli antropologi occidentali credevano di poter dare dei “primitivi” secondo le categorie scientifiche delle nascenti scienze umane della cultura occidentale.

Dunque, l’antropologia culturale – a differenza di quella biologica che lavorava su reperti fossili – si è alla fine ritrovata coinvolta negli stessi pregiudizi delle potenze coloniali che finanziavano le ricerche antropologiche e ha lungamente lottato per disfarsene, più radicalmente di quanto non abbiano fatto le potenze coloniali nel corso del processo di decolonizzazione. Chi legge oggi la storia breve delle varie scuole di antropologia culturale – europee e statunitensi – non può fare a meno di cogliere il complesso di colpa che le perseguita, e le impegna tormentosamente a ricuperare uno sguardo libero da pregiudizi razziali, mentre intanto l’oggetto delle proprie ricerche – le “società primitive” – sta ormai scomparendo e gli antropologi culturali si ritrovano a indagare un incontro di culture che è anche oggetto della ricerca sociologica, di quella psicologica e di quella economica. E nei loro discorsi, le distinzioni tra culture primitive, culture agricole, culture industriali e culture postindustriali si traducono sempre più in quelle tra periferie e centri del processo di modernizzazione.

In breve, lo “sguardo venuto da lontano” che ha caratterizzato il sorgere dell’antropologia culturale ha perso ormai il suo riferimento temporale e si identifica sempre più con un riferimento spaziale che circoscrive pratiche sociali contemporanee, vissute secondo immaginari collettivi prevalentemente localistici in contrapposizione ai grandi processi di globalizzazione che li contengono. Questi spazi possono essere le periferie degradate delle grandi metropoli, le piccole comunità agricole di montagna, le reti d’aggregazione comunitaria che si instaurano all’interno delle grandi aziende, ma anche le serre privilegiate della borsa, dei salotti buoni o corrotti del capitalismo o dei grandi centri della ricerca scientifica avanzata; e ovviamente, qualche rara comunità “primitiva”, sopravvissuta in isolamento quasi completo all’invadenza della cultura occidentale.

Intanto, nel tentativo espiatore di disfarsi d’ogni rapporto gerarchico tra osservatore e osservato – specie quando indagano le comunità emarginate nel degrado ambientale – gli antropologi culturali cercano di osservare anche se stessi con uno “sguardo venuto da lontano” – quasi potessero diventare oggetto di uno sguardo paritetico degli ultimi “primitivi” – e sono ormai impegnati a praticare un’antropologia culturale dell’antropologia culturale, perdendo di vista le corpose gerarchie di potere che, nonostante tutto, continuano a porre la cultura occidentale in posizione di dominanza economica, tecnologica e scientifica.

Solo avendo presente questo processo autodissolvitore dell’antropologia culturale, si può comprendere perché essa spenda parte cospicua delle proprie risorse e delle proprie energie a contrastare la piena naturalizzazione dell’uomo ricostruita dall’antropologia biologica, nella quale finalmente si può svelare il segreto dell’origine e della persistenza ineliminabile del potere che instaura le gerarchie tra le culture e all’interno di ciascuna di esse. Invece, l’ultimo rifugio della maggior parte degli antropologi culturali continua a essere “il simbolico” accuratamente denaturalizzato e defisicizzato. Valga per tutte la dichiarazione di un antropologo così acuto e sensibile alla dimensione storica come Mondher Kilani: «Gli oggetti dell’antropologia sono forme simboliche e non realtà fisiche» (in Antropologia, Una introduzione, Dedalo, Bari 1994, p. 30; la seconda edizione rivista in francese è del 1992).