Audizione alla Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati (16 luglio 2007)

MEMORANDUM

Per quanto riguarda i diritti degli atei e degli agnostici, anche l’ultima proposta di testo unificato non si discosta dalle precedenti bozze: a parte il riconoscimento della libertà di non credere, il documento non recepisce alcuno dei suggerimenti formulati sia dalla nostra associazione nel corso dell’audizione svoltasi il 10 gennaio scorso, sia da diversi giuristi nel corso di quella effettuata l’indomani.

Scorrendo i resoconti delle riunioni di codesta commissione, si può notare come la principale obiezione opposta a un inserimento, all’interno del testo, di norme riguardanti in maniera specifica gli atei e gli agnostici sia rappresentata dalla constatazione che «l’ateismo non è una religione». Per quanto ci riguarda, possiamo tranquillamente sottoscrivere tale assunto. Ma il punto non è questo. Come ha già sottolineato la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 117 del 2 ottobre 1979, «il nostro ordinamento costituzionale esclude ogni differenziazione di tutela della libera esplicazione sia della fede religiosa sia dell’ateismo, non assumendo rilievo le caratteristiche proprie di quest’ultimo sul piano teorico». Ancora, la sentenza n. 203/89, la sentenza cioè che ha sancito che la laicità dello Stato è un supremo principio costituzionale, ha evidenziato il divieto a che «il pluralismo religioso limiti la libertà negativa di non professare alcuna religione».

Come si vede, anche da un punto di vista giuridico è impossibile separare religione e ateismo. Del resto, è la stessa commissione a dimostrare concretamente come una simile distinzione non sia realizzabile: l’ha fatto chiamandoci per un’audizione; lo fa, implicitamente, non avendo in programma l’emanazione di una legge distinta disciplinante la libertà di non credere; e lo fa, infine, innervando il progetto di legge di tutta una serie di articoli che toccano temi che interessano anche gli atei e gli agnostici. Ci riferiamo, in particolare:

  • all’art. 3, dove sancisce il divieto di discriminazioni su base religiosa, dimenticando che si può essere discriminati anche per la propria non credenza (ed è l’occorrenza statisticamente più probabile);
  • all’art. 8, dove tratta dell’educazione religiosa dei figli, come se uno Stato democratico nell’Europa secolarizzata assumesse ancora, nel 2007, che dare un’educazione non religiosa alla prole sia un atteggiamento non condivisibile;
  • all’art. 9, dove l’affermazione che nelle scuole «l’insegnamento è impartito nel rispetto della pari dignità degli studenti» glissa sul fatto che la realtà è assai diversa, in quanto l’insegnamento della religione cattolica gode di uno status e di finanziamenti non riconosciuti alle attività didattiche alternative;
  • sempre all’art. 9, dove consente l’organizzazione di «libere attività complementari relative al fatto religioso», quando tali attività possono tranquillamente svolgersi anche in merito alla miscredenza (anch’essa un fatto, fino a prova contraria);
  • all’art. 11, dove si garantisce il pluralismo religioso nel servizio pubblico radiotelevisivo, dimenticando che tale pluralismo deve, come ha riconosciuto la Corte Costituzionale, esplicitamente estendersi anche alle concezioni del mondo non religiose;
  • all’art. 13, dove si introduce la previsione di sale per lo svolgimento di «riti» di commiato, quando anche gli atei e gli agnostici desiderano avere spazi per ricordare i propri defunti, sia pure non «ritualmente»;
  • all’art. 14, dove si disciplina il diritto a ricevere un conforto unicamente «spirituale» nelle strutture obbliganti: circostanza invero bizzarra, in quanto sembra implicitamente riconoscere che gli atei e gli agnostici, nei momenti di difficoltà, se la sanno cavare da soli;
  • all’art. 27, che determina gli effetti civili delle «attività di religione», quando analoga previsione non è formulata per le attività associate dei non credenti;
  • all’intero capo IV, che nel dettare minuziose regole per i matrimoni delle confessioni di minoranza tralascia ancora una volta di risolvere l’annoso problema della mancanza di spazi per lo svolgimento di matrimoni: circostanza che, specialmente nelle grandi città, dove sono ormai la maggioranza, si traduce in liste d’attesa indegne di un Paese civile.

Questa implicita ambivalenza è peraltro testimoniata anche dall’utilizzo del concetto di “libertà di coscienza” che, all’art. 2, è «compreso e presupposto» nella libertà di religione, e all’art. 9 ne è invece distinto. Distinzione che è peraltro presente anche nella legge n. 176 del 27 maggio 1991, citata all’art. 8: non è un caso, in quanto tale legge recepisce una convenzione internazionale. Ma è tutto l’impianto della legge che, nell’introdurre privilegi per le confessioni religiose (le organizzazioni in cui si uniscono i credenti), consolida implicitamente l’handicap delle organizzazioni in cui si uniscono i non credenti. Chiediamo alla commissione, ad esempio, perché sia necessario sancire il diritto di fare propaganda a favore della religione (e, quindi, contro la miscredenza), e non sia necessario fare altrettanto per la propaganda a favore della miscredenza (e, quindi, contro la religione).

Sappiamo bene che lo spirito della legge è figlio di una concezione per cui il «fatto ateo» non deve trovare alcuno spazio. Alcuni recenti provvedimenti, come l’attivazione di una commissione interministeriale giovanile sulla religione, o il servizio di assistenza spirituale assicurato all’ospedale Le Molinette di Torino da esponenti di religioni di minoranza, attestano fin troppo bene che è un atteggiamento veramente duro a morire. Ed è per questo motivo che siamo a richiedere a codesta commissione una vera e propria discontinuità storica. Da due millenni, infatti, le discriminazioni nei confronti dei non credenti sono state perpetrate attraverso provvedimenti confessionisti. La nascita dell’impero romano cristiano portò all’adozione di provvedimenti liberticidi, come i decreti del codice di Giustiniano con cui si sanciva la pena di morte per gli apostati e l’obbligo di battesimo per tutti i non cattolici, ebrei esclusi. Lo Stato post-unitario, da parte sua, escludeva qualunque praticabilità per l’ateismo nella scuola, nell’esercito e nelle carceri. Il fascismo soppresse immediatamente le associazioni in cui si univano i laici e i non credenti. Perfino nell’Italia repubblicana, negli anni Cinquanta, a causa di un’interpretazione restrittiva dell’art. 19 della Costituzione (che, come noto, non contempla esplicitamente la libertà di non credere), diverse sentenze di tribunale affidarono i figli di coppie miste (cattolici-non credenti) al coniuge cattolico, ritenendo l’ateismo lecito ma irrilevante.

L’esempio fascista è peraltro particolarmente significativo proprio perché gli sviluppi recenti sembrano ripercorrere gli stessi passi: accordi concordatari che sanciscono una supremazia per la confessione cattolica (nel 1929 come nel 1984); una legge che, pur disciplinando le confessioni religiose, finisce per porle su un gradino più basso (nel 1929 come nel 2007); le associazioni non confessionali che, non essendo in nessun modo regolate alla stessa stregua, finiscono per essere confinate nella disciplina comune dell’associazionismo, con tutti i rischi che l’adozione delle leggi fascistissime ha già platealmente evidenziato. Non deve dunque destare stupore la nostra preoccupazione, deve semmai rappresentare uno stimolo a non ripetere tragici errori del passato solo in base a opinioni inerziali che lo stesso recente comportamento dello Stato italiano nondimeno smentisce: è veramente assurdo che il parlamento italiano, avendo ratificato con la legge n. 57 del 7 aprile 2005 il trattato di adozione della Costituzione europea, riconosca i diritti garantiti alle associazioni filosofiche non confessionali in altri Paesi europei, come il Belgio e la Germania, e non li riconosca proprio in Italia!

Le nostre preoccupazioni crescono, peraltro, leggendo i resoconti dell’attività della commissione, da cui emerge come siano presenti dei sostenitori delle radici giudaico-cristiane della nostra società. A tali sostenitori rammentiamo come una legge debba essere orientata ai problemi presenti e non alle celebrazioni del passato. Ma se anche, per assurdo, si volesse perseguire un disegno del genere, ci corre l’obbligo di ricordare, e con un certo orgoglio, che la presenza di atei nella penisola antecede di diversi secoli non solo la presenza dei primi cristiani, ma anche quella degli stessi ebrei: attestata per la prima volta con il filosofo Ippone di Reggio (V secolo prima dell’era cristiana), essa trova la sua espressione più alta nella figura del poeta Tito Lucrezio Caro (vissuto un secolo prima di Gesù). E non è nemmeno un fenomeno meramente intellettuale, in quanto è supportato da una corposa testimonianza epigrafica.

Venendo invece all’oggi, ricordiamo ancora una volta come i sondaggi di opinione, nel nostro Paese, stimino il numero dei non credenti tra i tre e i dieci milioni. Anche a prendere per buona la valutazione più bassa, emerge comunque una popolazione più che doppia rispetto ai fedeli di tutte le confessioni religiose messe insieme, con una spiccata diffusione nelle fasce più dinamiche della società odierna: aumenta infatti con il diminuire dell’età e con il crescere del titolo di studio. La nostra associazione è in continua crescita e attrae un numero di cittadini molto superiore a quello dei suoi iscritti: per fare un esempio, le visite giornaliere al sito sono in media 5.000; le pagine viste a giugno sono state oltre un milione; i visitatori unici al sito sono stati, dall’inizio dell’anno, oltre 60.000 (una cifra superiore a quella degli appartenenti alle due minoranze storiche italiane, ebrei e valdesi, messe insieme).

Per queste ragioni riteniamo sia doveroso che il Parlamento italiano, nel discutere e approvare una legge che garantisce la libertà religiosa, garantisca contemporaneamente i diritti degli atei e degli agnostici. Può farlo citandoli articolo per articolo, oppure inserendo un articolo che stabilisca espressamente che i diritti che la legge stabilisce si estendono anche a loro. Un identico ragionamento deve essere fatto per le organizzazioni in cui si uniscono, che tra l’altro si contraddistinguono per meccanismi interni sicuramente più democratici e trasparenti delle confessioni religiose.

Mantenere gli atei e gli agnostici al di fuori della legge significa, in definitiva, considerarli fuori legge. Questa legge, se approvata, sostituirà un provvedimento vecchio di quasi 80 anni. E non vogliamo aspettare altri 80 anni per vedere riconosciuti i nostri legittimi diritti.