Argomenti razionali in difesa della razionalità

di Ivo Dell’Ambrogio.

Vorrei ringraziare Baldo Conti, che in un arguto e provocante articolo («Credere in Dio o essere razionali? Due modalità di un’identica presunzione»), si è esibito in un’autoflagellazione intellettuale della specie umana, per poi supplicare il lettore di confutarlo. Stando al gioco, proverò ora, nei limiti delle mie scarse capacità (ma la passione mi verrà in aiuto!), di produrre “semplici e validi argomenti” in difesa della razionalità.

Per incominciare, definiamola: diciamo che un ente agisce in modo “razionale” se, in base alle informazioni che possiede, esso agisce in modo da ottimizzare il proprio tornaconto. Questa è la definizione utilizzata nella teoria dei giochi, cioè quella disciplina matematica che studia le interazioni strategiche tra “agenti”. Questi ultimi possono essere di volta in volta singole persone, intere nazioni, popolazioni animali, ecc. Cerchiamo ora di capire se, grossomodo, l’intera specie umana ultimamente si sia comportata in modo razionale (e supponiamo di sapere cosa sia il miglior “tornaconto” in questo caso).

Ora passiamo ai fatti (lezione numero 1: la razionalità si basa sui fatti, non su ciò che si vorrebbe o si teme che sia). La natura mi ha fatto miope, ma ora per fortuna porto un bel paio d’occhiali e ci vedo bene. Con le lenti a contatto posso anche giocare a calcio e, miracolo(!) vedo il pallone. Ma, un momento: io dovrei essere morto! Già, ho avuto una polmonite e varie bronchiti, senza penicillina sarei bello stecchito da anni ormai. Pensando in grande: quale percentuale degli esseri umani ora in vita “non dovrebbero esserlo”, secondo natura? Quanti sarebbero morti di fame o malattia, probabilmente già nella prima infanzia? Il 30% o il 70%? Non lo so, e mi piacerebbe saperlo (chiedo ai medici fra voi).

Il progresso tecnologico, ci ricorda il Baldo Conti, ha anche un lato oscuro: è innegabile che i moderni armamenti o piccole perle quali la sedia elettrica non contribuiscono particolarmente al benessere dell’umanità. Il potenziale distruttivo nelle nostre (nostre?) mani non ha precedenti. Eppure se guardiamo ai fatti, scopriamo che la percentuale della popolazione maschile europea e statunitense che durante il XX secolo, il secolo delle due guerre mondiali, è morta a causa della guerra (1%), è minore di quella delle tipiche tribù primitive studiate in tempi moderni (Gebusi 8%, Yanomamö Namowei 24%, Dugum Dani 30%, Yanomamö Shamatari 28%, Jivaro 59%…)¹, con buona pace del mito del buon selvaggio. Forse che ci sia qualcosa di vero nell’idea di progresso? Quindi, in tempi (o luoghi) culturalmente più semplici saresti probabilmente un guerriero o uno schiavo ignorante in una società violenta, costantemente malaticcio e con un’aspettativa di vita ridicola, e senza possibilità di… (inserire uno fra «andare al concerto della filarmonica di Berlino», «leggere i Principia di Newton», «vedere Jessica Alba in Sin City», «fare le ore piccole in discoteca», «mangiare un piatto di lasagne», «passare il week-end a giocare alla Playstation» secondo le preferenze personali). Se sei una donna, saresti costantemente occupata da un nugolo di pargoli affamati, e puoi star certa che moriresti durante uno dei numerosi parti. In poche parole noi umani, unici fra gli animali, cerchiamo di non vivere secondo natura, e per fortuna. Non è razionale questo?

Dalle stesse osservazioni deduciamo: lezione numero 2, non tutto ciò che è naturale è auspicabile (né utile o razionale). Per natura, i deboli crepano e i forti prevaricano. Per natura possiamo essere violenti e crudeli. Per natura limitiamo i sentimenti “umani” e il comportamento altruista a una ristretta cerchia, il cosiddetto in-group: la famiglia o la tribù; mentre tutti gli altri, l’out-group, serve solo da cibo o da schiavi². Ma, nel corso della storia, grazie al commercio e ad altre attività, le società umane si sono evolute in maniera tale che i vicini dell’out-group risultassero spesso più utili da vivi che da morti, da partner e amici che da popoli sottomessi. Sempre più è conveniente allargare gli orizzonti del proprio in-group, al giorno d’oggi addirittura a tutta la specie umana, e per certi aspetti anche all’intera biosfera terrestre. Questo comportamento non è per nulla naturale, ma è certamente razionale.

Ma Conti ha ragione: in molti temono che, se uno scienziato afferma che l’uomo è “per natura” violento, magari per motivi genetici (e che altro?), allora la violenza è giustificata. O che, se l’uomo è “per natura” fedifrago, allora le mogli farebbero meglio a rassegnarsi. O che è giusto che i deboli scompaiano, perché questa è selezione naturale (= buona e inevitabile). E così via giustificando. Ma questo errore logico³ può commetterlo solo chi non si è ancora reso conto che “naturale” non significa “buono”, né tanto meno “inevitabile”. La selezione naturale certo produce meraviglie, ma è un sistema incredibilmente crudele e sprecone. In quanto esseri umani, soli fra gli animali, ci si presenta una scelta: possiamo ciecamente soccombere alla nostra bruta natura, o possiamo cercare di cambiare le cose. Ma per cambiare le cose bisogna prima capirle; le origini biologiche e i meccanismi mentali della violenza, ad esempio, vanno capiti a fondo, prima che si possa intervenire in modo efficace (con una pillola o piuttosto con una terapia da divano o in qualche altra maniera, l’importante è che funzioni). Viva gli scienziati dunque, e ben venga l’indagine razionale della natura umana.

Com’è possibile tutto ciò? Cosa rende possibile il progresso materiale e spirituale della specie umana? In una parola: la cultura; cioè la trasmissione da una generazione all’altra, tramite il linguaggio simbolico (di cui la natura ci ha generosamente dotati, unici fra gli animali), di conoscenze e tecnologie. Va notato che la cultura, a differenza del bagaglio genetico, si evolve lamarckianamente: le acquisizioni dei genitori si trasmettono ai figli. Addirittura i figli possono apprendere cose utili da altri che dai propri genitori biologici. I vantaggi darwiniani della trasmissione culturale della conoscenza sono evidenti. Meno evidente è comprendere come il gioco sia sfuggito di mano ai nostri geni. Un esempio per tutti, seppur trito: la contraccezione è un comportamento assolutamente innaturale, chiaramente in contrasto con l’“interesse” dei geni di chi la pratica (questo esempio è ripetutamente utilizzato da Richard Dawkins, l’autore del Gene egoista, per rassicurare il lettore sul fatto che il nostro comportamento non è determinato dai nostri geni). La cultura è preziosa, ma non ogni forma di cultura. Molte forme di conoscenze tradizionali non passano il test dei fatti, e a volte si rivelano dannose (sia in senso darwiniano, per la riproduzione della specie, che più direttamente per noi, per quanto riguarda il benessere e la felicità delle persone). Qualcuno ha dei sospetti?

Lezione numero 3: la razionalità dovrebbe riappropriarsi delle scuole e delle altre fonti di indottrinamento e apprendimento. Passiamo ora alle cose serie. Meschineddu, il gatto sardo di Conti è, al di là di ogni dubbio, un gioiello dell’ingegneria. Ah, quei salti, dimostrazione inconfutabile della più profonda comprensione della legge della gravità! Quei movimenti aggraziati, prova di un’ottimizzazione del consumo energetico! Verissimo. Ma tutto questo è nei nostri occhi: il topo ha un’altra, ben più limitata visione di Meschineddu. Meschineddu non sa come faccia a saltare, manco si pone la questione. O prendete un ippopotamo, che si è evoluto nella stessa parte del globo, secondo le stesse leggi naturali. Dov’è l’eleganza? Indubbiamente l’ippopotamo nasconde altre meraviglie, magari un impressionante sistema digerente. Noi umani siamo gli unici in grado di apprezzarle, siamo gli unici a poter aprire l’ippopotamo. O a poter capire come funziona un gatto, in effetti siamo gli unici a porci la domanda. Tutto questo è possibile in virtù di un’altra meraviglia della natura, che lascerò al lettore di identificare.

Lezione numero 4: faremmo meglio a essere orgogliosi della nostra umanità per i buoni motivi (i quali non scarseggiano). Non perché abbiamo un’anima (e gli animali no) o perché abbiamo un posto privilegiato nel disegno divino, ma perché abbiamo un posto privilegiato nei nostri piani per il futuro; perché, semplicemente, abbiamo piani per il futuro e non siamo in balia della natura, come lo sono invece i nostri colleghi meno fortunati.

Concedetemi un orripilante gioco di parole: la razionalità (studiare i fatti, ragionare correttamente) è un comportamento umano perfettamente razionale (cioè utile e preferibile alle “strategie” alternative, a giudicare dai dati a nostra disposizione). Ho forse risposto ad alcuni dei punti sollevati da Conti, quelli che restano li lascio ad altri lettori.

NB – La trasmissione culturale della conoscenza differisce dalla genetica anche per questo: è molto più fragile; a causa di una qualche catastrofe, naturale o meno, potremmo tornare all’età della pietra in una sola generazione (è successo a intere nazioni, anche negli ultimi decenni). Non dimentichiamo le numerose lezioni della razionalità, ma trasmettiamole ai nostri figli con passione.

Note

  1. Si veda l’illuminante capitolo 3 di Steven Pinker, Tabula rasa (tit. or. The Blank Slate, 2002), Mondadori 2005, e le referenze lì riportate.
  2. A proposito, si legga la Bibbia, nella quale il meccanismo etico in-group/out-group di una tipica tribù dell’Era del Bronzo è crudamente illustrata, genocidî e tutto il resto. O in alternativa, se la Bibbia risulta essere troppo lunga, si veda l’ottimo articolo di John Hartug, «Love thy Neighbour. The Evolution of In-group Morality», Skeptic, vol. 3, n. 4, 1995, disponibile on-line.
  3. Non posso che raccomandare la lettura di S. Pinker, op. cit.. Il libro si occupa di smantellare tre nocivi miti moderni, tra l’altro per nulla appannaggio esclusivo della teologia:
    1. il mito del buon selvaggio, da Rousseau in poi, o in generale dell’equazione “naturale = buono”;
    2. il fantasma nella macchina, o l’omuncolo dietro gli occhi: il dualismo Cartesiano, insomma;
    3. la tabula rasa, l’eponima “blank slate”: il mito secondo il quale noi siamo esclusivamente determinati dalla cultura, ovvero niente di meno che la negazione della nostra natura umana (natura biologica, va aggiunto oggigiorno, ma non dovrebbe essere necessario).