di Gaspare Serra
«Bisogna rendere obbligatoria l’affissione nelle scuole e in altri luoghi pubblici del crocifisso, in quanto simbolo della nostra identità cristiana». Questa la zelante proposta del ministro dell’Istruzione, Letizia Moratti, che si è presto guadagnate le più aspre critiche da parte di tutti coloro, tra laici e cattolici, credono ancora nel principio della «laicità dello Stato», sancito dalla Costituzione repubblicana.
In linea puramente culturale non c’è nulla di male nel sostenere che il crocifisso sia «l’espressione» più evidente e più profonda della tradizione e della stessa civiltà di un popolo: a patto che si prescinda dal suo significato specificamente religioso, usandolo come un simbolo «obbligatorio» da issare su una trincea. Difendere l’esposizione pubblica del crocifisso significa trattarlo alla stregua della bandiera italiana o di un qualsiasi altro simbolo della Repubblica: il che è evidentemente del tutto improprio e - osiamo credere - neppure gradito ai cristiani; lo spessore evocativo della croce per la sua drammaticità storica, etica ed emotiva pare anche a chi cristiano non si professa più intenso di quello della bandiera, ma - ed è questo che conta - anche completamente diverso: la bandiera simboleggia un’appartenenza che non discrimina, quella di essere cittadini della Repubblica, la croce invece un’appartenenza del tutto sprovvista di rilievo giuridico e che tale deve rimanere perché lo impone l’art. 3 della Costituzione; amiamo poi credere che si tratti di un’appartenenza tanto privata ed intima da non essere mai omologabile: «Il crocifisso bisogna averlo dentro. Credi che sia una di quelle cose in cui occorra una grande libertà, e anche la capacità di capire che cosa rappresenta per una intera società. Difficile pensare di imporlo proprio perché ha un valore molto profondo» (Romano Prodi).
La posizione neutrale del nostro Stato laico - e non confessionale - si concreta anche nella libertà di religione, intesa in senso individuale (per il singolo di professare liberamente la propria fede religiosa) e in senso collettivo (nel riconoscere l’uguaglianza di tutte le confessioni religiose davanti alla legge). È perciò deprecabile l’obbligatorietà dell’affissione del simbolo della cultura cristiana nei luoghi pubblici nei confronti dei non cattolici, come degli stessi cattolici animati da un profondo senso di laicità dello Stato, il che è ben espresso dalla formula del Conte di Cavour «libera Chiesa in libero Stato».
Significativa è la più recente sentenza sulla presenza dei crocefissi negli edifici pubblici, quella della Corte di Cassazione sul caso di tale Marcello Montagnana, condannato dalla Corte d´Appello di Torino perché nel 1999 si era rifiutato di svolgere le funzioni di scrutatore in un seggio dove era affisso un crocifisso. Montagnana fu assolto e la presenza del crocifisso nei luoghi pubblici fu giudicata «uno dei sintomi più evidenti del neo-confessionismo statale», in palese contrasto con lo spirito della Costituzione e con il supremo principio della laicità dello Stato.
Ancor più difficile appare accettare che il crocifisso sia usato politicamente, sia pure come arma di difesa contro un’«invasione» musulmana, come alcuni considerano il contributo culturale che a noi è venuto in questi anni dai tanti cittadini provenienti da realtà diverse dalla nostra. Noi non accettiamo e non accetteremo l´idea di un crocifisso usato per affermare l´identità occidentale, di un Cristo «contro».
Il simbolo del Cristianesimo non offende necessariamente la sensibilità di chi cristiano non è, ma è sbagliato pensare alla croce come baluardo di uno Stato confessionale: al contrario va rafforzata l´educazione interculturale. Imporre il crocifisso equivale ad imporre un obbligo, una cosa ben lontana da una libera scelta religiosa, e a ridurre lo stesso crocifisso ad un mero «ostaggio».
A favore della tesi pro-affissione si sostiene che il crocifisso è anche un simbolo culturale (tanto che toglierlo dai locali pubblici costituirebbe addirittura «un attentato all’identità storica del nostro popolo»: così il cardinal Biffi si espresse l’8 maggio del 1999). Giacché il crocifisso appartiene al patrimonio storico del nostro Paese le norme che ne prevedono l’esposizione non contrasterebbero con la Costituzione. Questa tesi parte da una premessa vera per trarne una conseguenza falsa. Se non si può certo negare che il crocifisso faccia parte del nostro patrimonio culturale, appare infatti arbitrario dedurne la legittimità delle norme che ne prevedono l’esposizione nei locali pubblici. Distinguere i due piani, quello «culturale» e quello «normativo», resta essenziale. Una cosa è constatare l’importanza di un simbolo culturale (in questo caso religioso), un’altra ritenere che tale importanza l’imponga a simbolo di tutta la collettività: solo la bandiera italiana è (o dovrebbe essere) un simbolo di tutti. Ci sono, del resto, anche altri simboli culturali che contribuiscono a definire la nostra identità, non si vede perché solo questo - per quanto importante - deve essere appeso ai muri degli uffici pubblici assieme alla foto del Presidente della Repubblica. Oltretutto, se quel che conta è il messaggio culturale, quale soluzione migliore di quella del presidente della Cassazione Ruperto che ha messo un’opera d’arte al posto del crocifisso?
Se le politiche per l’istruzione dovrebbero avere delle priorità, una di queste dovrebbe essere puntare all’integrazione culturale, non marcare gli aspetti di diversità fra i cittadini. Nessuno dovrebbe, in un’epoca di «politeismo dei valori», brandire simboli di fede per giustificare crociate (o violenze, o terrorismo); non la croce, non il chador o il burqa; nemmeno si dovrebbe peraltro - in nome di una tolleranza male intesa - negare la propria identità (sia pure laicamente vissuta), nel momento in cui ci si apre al dialogo con l’altro.
No davvero: non ci si può… crocifiggere al crocifisso, ma anche da esso si può trarre motivo per praticare l’unica religione davvero cogente per qualsiasi buon insegnante, cioè l’educazione al dialogo, alla tolleranza, al confronto reciprocamente rispettoso dei punti di vista. E allora ne viene anche una possibile indicazione operativa: è urgente oggi (e lo diventerà ancor più con l’andar del tempo) che le nostre strutture deputate alla formazione si aprano - come concreto esempio di educazione interculturale - alla discussione critica e non confessionale del fatto religioso.
A seguito dell’attentato terroristico alle Twin Towers dell’11 settembre scorso, in questi tempi convulsi nei quali si assiste ad uno scontro epocale tra civiltà, si moltiplicano gli appelli, da più parti, ad un maggior dialogo con l’Islam e con le altre fedi religiose. Certamente un ministro per l’Istruzione dovrebbe anche avere quel minimo di buon senso per comprendere l’inopportunità della sua proposta specie in questo periodo!
Di tutte le soluzioni, però, pensare che sia chi si sente offeso dalla presenza della croce in aula a doversi attivare per chiederne la rimozione è la più inaccettabile, perché lesiva delle posizioni garantite alle minoranze, perché impone la manifestazione di un dissenso in una sede pubblica, imponendo di rendere noto un dato - il convincimento religioso - al quale deve essere assicurata la riservatezza. Ecco, allora, che a tutt’oggi una parte degli studenti e degli insegnanti si limita semplicemente a «tollerarne la presenza», se non addirittura a ignorarla, e solo una minoranza la ritenga tuttora doverosa, in un luogo come la scuola pubblica. La rimozione su richiesta si configurerebbe come un’obiezione di coscienza, senza che ve ne siano le condizioni; l’obiezione è lo strumento attraverso il quale vengono risolti taluni conflitti tra libertà di coscienza e dovere giuridico, ma qui di quel conflitto non c’è neppure l’ombra: la libertà di coscienza sta da sola di fronte al potere pubblico che deve manifestarsi neutrale!
La violazione del principio d’eguaglianza resta anche se si ragiona in termini di libertà religiosa anziché di libertà di coscienza: misure come queste alterano - per usare una brutta ma efficace espressione - la «concorrenza sul mercato religioso» penalizzando le confessioni religiose che non si riconoscono in quel simbolo. La violazione del principio di laicità dello Stato è invece una conseguenza del favore verso una visione (in questo caso religiosa) della vita rispetto alle altre. Infatti, come ha osservato la Corte costituzionale, la laicità impone una «distinzione fra ordine civile e religioso» (sent. 334/1996) e «comporta equidistanza e imparzialità rispetto a tutte le confessioni religiose» (sent. 329/1997). Secondo la Cassazione norme di questo tipo costituiscono una delle «discipline di favore a tutela della religione cattolica». Sono una forma di privilegio per una confessione religiosa il cui simbolo religioso è esposto in tutti i locali pubblici. Di conseguenza, le norme sull’esposizione del crocifisso favoriscono le persone che hanno certe convinzioni religiose rispetto alle persone che hanno convinzioni diverse (religiose o d’altra natura). Le misure relative all’esposizione del crocifisso incappano dunque contemporaneamente nella censura del principio di eguaglianza e di quello di laicità.
Numerose sono, dunque, le giustificazioni per cui diciamo NO all’esposizione del Crocifisso non solo nelle aule scolastiche ma altresì, più in generale, in quelle di giustizia, negli uffici pubblici, nei luoghi di lavoro: dal rigetto del criterio «laico» del patrimonio culturale della Nazione al legittimo diritto di non credere nella religione di maggioranza, dal suo supposto imperialismo, generatore di una mentalità teocratica, alla garanzia del principio supremo della libertà di coscienza, dalla violazione dei parametri dell’uguaglianza dei cittadini e della laicità dello Stato al rispetto della tolleranza, della libertà religiosa e delle esigenze della società multiculturale, dalla tutela delle minoranze all’impossibilità di richiamarsi pure in materia alla c.d. coscienza sociale, dall’impostazione confessionale sottesa in Italia all’ingresso del Crocifisso «di Stato» all’idea di un «libero mercato delle religioni».
La Comunità scolastica comporta una convivenza fra tutti noi studenti. «Noi» viviamo insieme. Ma i motivi profondi per cui viviamo o dovremmo vivere insieme non vogliamo ci siano dettati «dall’alto». Per questo troviamo insopportabile le famose parole di Croce «non possiamo non dirci cristiani». Perché, allora, non dirsi «antichi romani» o «greci classici», dato che di queste culture il cristianesimo è certamente debitore? Come scrive Bellini, «la «cultura» o è «libera» ed è «critica», o «non è»».
E allora perché costringere, non solo gli alunni per vari anni, ma ancor più molti professori della scuola pubblica per un’«intera vita lavorativa» a svolgere la propria funzione sotto insegne così pregnanti come il crocifisso?