L’apostasia silenziosa: riflessioni su ateismo, agnosticismo e islam nell’epoca contemporanea

di Valentina Fedele

 

La religione musulmana è spesso descritta nella letteratura specifica e ancora di più sui mezzi di comunicazione come un monolite indifferenziato, intollerante e discriminatorio, soprattutto nei confronti delle donne e delle minoranze, linguistiche, etniche e religiose. Il trattamento di queste ultime è, spesso, oggetto di polemica e scontro, richiamato anche come arma dialettica nei confronti delle istanze di integrazione delle comunità musulmane diasporiche. Uno degli elementi di questa polemica è l’impossibilità per un musulmano di abiurare la religione di nascita, uscire dall’islam, sia per convertirsi ad un altro credo sia per attestare il proprio ateismo o agnosticismo: entrambe le scelte ricadono, infatti, nella fattispecie di apostasia, producendo medesimi effetti teologici e giuridici, ma diverse conseguenze sociali. Le riflessioni che seguono riguardano proprio le caratteristiche e gli esiti dell’uscita dall’islam quando questa non comporta l’adesione ad un altro sistema religioso, ma l’assunzione di posizioni atee o agnostiche, sottolineandone, in particolare, le ricadute sociali e sociologiche e il peculiare impatto sull’identità personale e l’appartenenza comunitaria, che produce quella che Barbara de Poli, riprendendo il sociologo marocchino Abdessam Dialmy, chiama apostasia silenziosa.

Per cercare di circoscrivere per quanto possibile il fenomeno, ci si concentra sulle prescrizioni teologico-giuridiche dell’islam sunnita, con particolare riferimento, rispetto alla loro persistenza nei sistemi giuridici contemporanei, all’area del Maghreb. In primo luogo, va sottolineato che la condizione di apostasia (in arabo ridda), riguarda solo i musulmani credenti, due condizioni che nell’islam classico sono considerate l’una il complemento dell’altra.

Tutti gli esseri umani nascono musulmani, nel senso etimologico di sottomessi a Dio, e l’islam è la religione naturale dell’uomo, fitra – come sottolineato nel Corano 30:30 “Alza il viso alla religione, da vero credente, secondo la natura prima che Dio ha dato agli uomini. Non c’è cambiamento nella creazione di Dio, la religione retta è quella, ma la gran parte degli uomini non sa nulla” – solo alcuni, però, diventano effettivamente credenti, perché è la socializzazione, la famiglia e il gruppo di nascita, a determinare la comunità religiosa, cui si appartiene.

Inoltre, perché un musulmano possa essere considerato apostata (murtadd), non basta che sia nato in una famiglia musulmana e, quindi, che sia socializzato all’islam, o convertito e, quindi, che abbia scelto l’islam, ma anche che sia adulto, sano di mente e – posizione che le quattro scuole giuridiche ufficiali enfatizzano in modo diverso – che sia stato senza ombra di dubbio musulmano, ad esempio, aderendo in maniera pubblica alle pratiche. L’islam, infatti, anche se spesso considerato un’ortoprassi, dona molta importanza alla dimensione della fede personale, giudicabile solo da Dio. I commentari teologici e giuridici offrono diversi esempi di cosa sia effettivamente considerabile apostasia, ma tutti concordano su alcune inequivocabili posizioni: negare l’esistenza degli angeli, dei Profeti e della profezia di Mu-hammad, credere nella trinità o nella natura divina del Profeta Gesù, negare la vita eterna e, soprattutto, negare o dubitare dell’esistenza di Dio.

L’ateismo e l’agnosticismo rientrano, quindi, a pieno nella definizione di apostasia e ne producono gli effetti giuridici dal punto di vista penale e civile. Nell’islam classico, infatti, l’apostasia è punibile con la pena di morte, anche se molti commentatori ne limitano l’applicabilità ai soli uomini, prevedendo pene sostitutive per le donne. La prescrizione della pena capitale, però, non ha solide basi teologiche: nel Corano, in effetti, si prefigurano punizioni nell’aldilà e non nella dimensione temporale, come dimostra la possibilità di un pentimento e di un ritorno alla religione musulmana; ad esempio, nella Sura 4:140: “Egli vi ha rivelato nel libro che quando sentirete rinnegare i segni di Dio oppure li sentirete deridere, non dovrete restare con coloro che lo fanno, finché non cambieranno discorso, altrimenti sarete come loro. Dio riunirà gli ipocriti e i miscredenti nella Geenna, tutti insieme” e nella Sura 3:86-91: “Come può Dio guidare degli uomini che hanno rinnegato la fede dopo averla accettata dopo avere testimoniato che il Messaggero è messaggero di verità, dopo avere ricevuto le prove chiare? La gente ingiusta Dio non la guida. La loro ricompensa sarà la maledizione di Dio e degli angeli e degli uomini insieme e vi rimarranno in eterno, non sarà loro alleggerito il castigo e nessuno li guarderà eccetto coloro che si pentiranno dopo questo e rettificheranno il proprio operato, Dio è indulgente e compassionevole. Coloro che rinnegano la fede dopo averla accettata e aggiungono infedeltà a infedeltà, ebbene, il loro pentimento non sarà accolto: sono coloro che hanno perduto la via. E così, quelli che rinnegano la fede e muoiono da miscredenti, da loro non verrebbe accettato neppure tutto l’oro che la terra può contenere anche se lo offrissero in riscatto, avranno un castigo doloroso e nessuno li aiuterà”.

Anche il versetto spesso citato a sostegno della punizione capitale della ridda – Sura 9:73: “Tu, Profeta, combatti i miscredenti e gli ipocriti, sii duro con loro, il loro rifugio sarà la Geenna che sorte orrenda!” – fa, ancora una volta, riferimento alle pene eterne e, notano alcuni commentatori, quando parla di combattere, usa il verbo jahada – da cui deriva il sostantivo jihad – senza accompagnarlo alla formula fı­­ sabı­­l Allah, “sulla via di Dio”, cui normalmente si accompagna quando si parla di combattimento offensivo, a sostegno della posizione che l’apostasia e la miscredenza possano essere combattute solo per via dialettica. Su questo approccio, però, i primi commentatori hanno fatto prevalere un atteggiamento più radicale, basandosi invece che sulle prescrizioni coraniche, su quanto contenuto nella Sunna – raccolta di hadı­­th, notizie sui detti e gli atti del Profeta – una fonte giuridica che, in genere, è più esplicita rispetto alla necessità di perseguire fino alla morte gli apostati: la raccolta di al-Bukhari, ad esempio, contiene il racconto delle parole del Profeta sia rispetto al dovere di uccidere chiunque cambi la propria religione, sia rispetto alle eccezioni al divieto di uccidere un musulmano, una delle quali è appunto il caso in cui la vittima sia un apostata.

La scelta di far prevalere gli hadı­­th sulla rivelazione coranica, giustificata attraverso l’utilizzo delle tecniche classiche di esegesi, e che ha comportato l’inserimento all’interno della sharı­­a della pena di morte per gli apostati che non ritrattano entro termini prestabiliti le proprie posizioni, evidenzia il particolare valore sociale e sociologico dell’apostasia, fin dai primi secoli dell’islam: essere musulmani, non ha solo un’implicazione rispetto alla fede, ma anche rispetto all’appartenenza ad una comunità sociale e/o politica, in riferimento alla quale l’apostasia è considerata un vero e proprio tradimento, un crimine contro la società, una ribellione alle tradizioni oltre che alle leggi. Ciononostante, proprio la mancanza di solide basi coraniche, ha messo in dubbio più volte nella storia la validità della pena capitale – segnatamente a partire dal XIX secolo da parte degli autori del cosiddetto riformismo storico, Rashid Rida, Muhammad Abduh, e Muhammad Iqbal – tanto che oggi, anche nei sistemi giuridici e legislativi nei quali la sharı­­a mantiene il primato, rari sono i casi in cui la pena capitale è eseguita.

Nello stesso tempo, però, da un lato la mancanza di una istanza unica di riferimento in termini di guida religiosa e giuridica determina la possibilità – non remota – che, seguendo una diversa interpretazione, singoli musulmani sostengano che uccidere un apostata sia un dovere individuale, dall’altro, anche se non comporta più la morte, l’apostasia continua ad essere considerata un reato, e come tale punita sia dal punto di vista penale, con la reclusione – più o meno prolungata a seconda degli ordinamentisia dal punto di vista civile, comportando rilevanti effetti, tra cui la sospensione, in attesa di riconversione, dei diritti passivi e attivi alla successione, nonché dei contratti matrimoniali. Tra l’altro, essendo una sospensione, nel caso di conversione ad altro credo, l’apostata è escluso anche dalle prescrizioni riguardanti le comunità religiose riconosciute: è considerato un ex musulmano ma non un nuovo cristiano o ebreo.

Considerare l’uscita dall’islam un reato è una violazione dei principi di libertà di coscienza e religione, garantiti in diverse dichiarazioni internazionali sui diritti, ratificate da quasi tutti i paesi che nei loro ordinamenti conservano riferimenti più o meno forti alla sharı­­a e sottolinea ancora una volta le implicazioni della mancanza di statuti personali laici, che considerino l’individuo al di là della sua appartenenza religiosa. Nello stesso tempo, proprio il persistere dei riferimenti religiosi in questo campo – così come nel diritto di famiglia – evidenzia ancora una volta il valore sociale e sociologico dell’apostasia, permettendo anche di cogliere le peculiari conseguenze che questa assume nel caso in cui non si configuri come conversione ad altro credo.

Il valore identitario e di appartenenza dell’islam è stato nella storia più volte enfatizzato a seconda delle contingenze producendo diversi esiti: basti pensare alle giustificazioni di tipo sociologico e teologico che hanno permesso nelle Repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale il mantenimento da parte dell’élite musulmana della propria identità culturale-religiosa, anche a fronte dell’adesione al comunismo ateo, permettendo la convivenza di due appartenenze in contraddizione, che in nessuna altra comunità religiosa si era riuscita a realizzare. In particolare, l’enfasi sull’identità religiosa assunse peculiari declinazioni durante il colonialismo, quando famiglia, donne e comunità religiosa diventarono insieme obiettivo dei colonizzatori e simulacro di resistenza: nell’esperienza del Maghreb francese acquisire la cittadinanza del colonizzatore era equiparato a tradire la propria religione. Per esempio, quando nel 1923, il governo coloniale permise ai Tunisini di prendere la nazionalità francese, implicando che il naturalizzato sarebbe stato giudicato dalle corti francesi e secondo la legge repubblicana, il partito nazionalista tunisino lanciò una campagna contro la naturalizzazione, dichiarando i naturalizzati apostati e alcuni mufti sostennero che, proprio in quanto apostati, non potessero essere seppelliti in cimiteri musulmani. Malgrado tale opinione non fosse condivisa ufficialmente dalla maggior parte delle autorità religiose locali, le proteste della popolazione furono tali da costringere all’apertura di cimiteri speciali per i naturalizzati.

Inoltre, l’apostasia è stata spesso usata come forma di ribellione alle autorità e, viceversa, come accusa per isolare oppositori politici, acquisendo un peculiare valore politico che conserva ancora oggi: alla metà degli anni ’90 il professore e teologo cairota Nasr Abu Zayd fu accusato di apostasia per aver criticato teologicamente la prescrizione che impedisce ad una musulmana di sposare un non musulmano, il suo matrimonio sciolto ed egli fu, infine, costretto ad emigrare. Al di fuori della dimensione strettamente politica sono stati di recente perseguiti solo casi di apostasia dichiarata: nella Tunisia post-rivoluzionaria sono stati condannati a sette anni e mezzo di reclusione due tunisini, Jaber Mejri e Ghazi Beji – quest’ultimo fuggito in Grecia – per aver espresso su internet le proprie posizioni atee e pubblicato libri contenenti alcune caricature del Profeta.

Per quanto riguarda invece la religiosità dei singoli, essendo non giudicabile anche quando disgiunta dalla pratica, non è oggetto di interesse da parte delle autorità religiose e statali, che considerano l’appartenenza alla comunità – sociale, politica e nazionale – una prova dell’appartenenza all’islam e viceversa, quando non si appartenga per nascita ad un’altra comunità religiosa riconosciuta. Diversi studi, però, dimostrano come non siano tanto le conseguenze giuridiche a spingere l’ateismo al silenzio, quanto quelle sociali: l’apostasia produce effetti paragonabili ad una vera e propria morte civile, spingendo spesso gli individui all’esilio, effetti che, nel caso di ateismo dichiarato, sono peggiori di quelli prodotti da una conversione, che comporta comunque l’ingresso in una nuova comunità religiosa e sociale, che, in qualche modo, attutisce le sanzioni morali e affettive che derivano dall’alienazione dalla comunità musulmana.

È per questo che la deviazione palese dalla norma religiosa è rara, mentre prevalgono diversi modelli di dissimulazione, di non dichiarata uscita dalla comunità, pur nella presenza, spesso diffusa, di ateismo o agnosticismo, producendo quella che si è definita apostasia silenziosa, un atteggiamento diffuso di privatizzazione delle posizioni di coscienza, accompagnato spesso dall’adesione distante agli elementi culturali della religione, allo scopo di preservare la propria integrazione sociale. A sostegno del peso dei legami comunitari sulle scelte degli individui, la privatizzazione della coscienza avviene anche in contesti nei quali l’apostasia non è giuridicamente perseguita e perseguibile, come nel caso delle comunità musulmane diasporiche in Europa.

Le statistiche ufficiali in questo senso sono poche ed imprecise anche se alcuni studi sulle conversioni dei musulmani stimano gli atei e gli agnostici di cultura musulmana tra il 30% e il 50%, con un maggiore impatto nelle cosiddette seconde e terze generazioni. Pur nella mancanza di statistiche attendibili, sono stati elaborati diversi modelli sociologici che danno conto della posizione degli atei di cultura musulmana rispetto alla comunità religiosa di origine: Roy, per esempio, riprendendo le strategie adottate dai mudejar dopo la Reconquista, considera gli atteggiamenti dei musulmani forzatamente convertiti al cristianesimo come sociologicamente assimilabili a quelli degli atei e degli agnostici di origine musulmana, che conservano alcuni costumi culturali, nel contesto del sistema di credenze europeo, a maggioranza cristiano. La sociologa Césari individua come atteggiamento prevalente nei musulmani diasporici l’islam culturale, un’identificazione con l’universo musulmano attraverso la lingua, il lignaggio, il gruppo etnico, non necessariamente legato alla fede e alle pratiche, mentre Dassetto elabora più esplicitamente la categoria degli agnostici indifferenti, dichiarati o silenti, che si declina in due atteggiamenti: indifferenza silenziosa – che non si interroga sulla propria fede, ma mantiene in apparenza l’adesione alla comunità musulmana – e appartenenza culturalista – che si manifesta con la partecipazione ai rituali e a forme islamiche di passaggio, nonché alle prescrizioni alimentari, senza che questo determini l’islamizzazione delle relazioni sociali o dei comportamenti, o la messa in discussione della propria coscienza.

La posizione degli atei e degli agnostici di cultura musulmana sembra, dunque, restare per lo più nel silenzio delle convinzioni private e, nei paesi tradizionalmente a maggioranza musulmana, anche in quelli dove il rispetto dei diritti delle donne e l’inclusione politica e sociale delle minoranze religiose hanno fatto passi in avanti, essa non riesce ad avere una visibilità sociale che non comporti esiti drammatici. Nello stesso tempo, però, proprio i recenti eventi che hanno interessato i paesi tradizionalmente a maggioranza musulmana, ed in particolare il Maghreb, ripropongono il trattamento dell’apostasia dichiarata, attraverso la conversione o l’espressione pubblica della propria coscienza, come un nodo cruciale nelle transizioni dei paesi investiti dalla cosiddetta Primavera Araba.

Il caso di Jaber Mejri e Ghazi Beji, cui si è fatto riferimento, mette, infatti, in luce non solo le contraddizioni degli eventi politici e sociali connessi alle rivoluzioni, ma anche il ruolo che i nuovi mezzi di comunicazione – internet e i social network – hanno nel rendere palesi le proprie posizioni rispetto alla religione, anche quando non direttamente collegate all’opposizione politica, ponendo nuove sfide alle autorità statali e sovranazionali, disegnando nuovi scenari e campi di espressione della propria identità e problematizzando ulteriormente il binomio comunità politica / comunità religiosa.

 

 

Valentina Fedele è Dottore di Ricerca in “Politica, Società e Cultura” presso il Dipartimento di Sociologia e Scienza Politica dell’Università della Calabria e Cultrice della Materia in Diritto Islamico presso la Facoltà di Scienze Politiche della stessa università. Tra le sue pubblicazioni: “La soggettività delle musulmane diasporiche in Europa e lo spazio della umma virtuale”, in Temperanter International Quarterly Journal, 2011, Vol. II, n. 3/4, pp. 63-78. “L’evoluzione dell’imamato in Europa e l’inquadramento del personale religioso musulmano. Riflessioni sociologiche e problemi socio-politici a partire dall’analisi della formazione e dello status dell’imam nel contesto francese”. Jura Gentium, 2010, Vol. VI,1.