Sentenza Corte Costituzionale n. 440 del 18 ottobre 1995

«Bestemmia: illegittimità costituzionale dell’articolo 724, comma primo, del codice penale»

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:


    Presidente - Prof. Vincenzo CAIANIELLO
    Giudice - Avv. Mauro FERRI
    Giudice - Prof. Luigi MENGONI
    Giudice - Prof. Enzo CHELI
    Giudice - Dott. Renato GRANATA
    Giudice - Prof. Giuliano VASSALLI
    Giudice - Prof. Francesco GUIZZI
    Giudice - Prof. Cesare MIRABELLI
    Giudice - Prof. Fernando SANTOSUOSSO
    Giudice - Avv. Massimo VARI
    Giudice - Dott. Cesare RUPERTO
    Giudice - Dott. Riccardo CHIEPPA
    Giudice - Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

     

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 724 del codice penale promosso con ordinanza emessa il 14 novembre 1991 dal Tribunale di Milano nel procedimento penale a carico di Onesti Fabio, iscritta al n. 457 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 1995.

 

Udito nell’udienza pubblica del 3 ottobre 1995 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky.

Ritenuto in fatto

  1. Nel corso di un giudizio penale, il Tribunale di Milano, con ordinanza del 14 novembre 1991 (pervenuta alla Corte costituzionale il 3 luglio 1995), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 724, primo comma, del codice penale, in riferimento agli artt. 3, 8 e 25, secondo comma, della Costituzione.
  2. Si sostiene nell’ordinanza di rinvio che, poiché la norma impugnata sanziona con l’ammenda la condotta di chi pubblicamente «bestemmia, con invettive o parole oltraggiose, contro la Divinità o i Simboli o le Persone venerati nella religione dello Stato» e, poiché il Protocollo addizionale all’Accordo di modifica del Concordato lateranense, recepito con legge 25 marzo 1985, n. 121, al punto 1, prevede testualmente il venir meno della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano, ne conseguirebbe, in violazione dell’art. 25, secondo comma, della Costituzione, la indeterminatezza della fattispecie penale di cui all’art. 724 del codice penale, che «àncora» esplicitamente la sussistenza del reato all’offesa alla religione, appunto, di Stato.

     

    Né la censura potrebbe superarsi ritenendo che la norma denunciata continui a riguardare la religione cattolica come confessione religiosa più diffusa del Paese - mutuando l’espressione dalla sentenza n. 14 del 1973 della Corte costituzionale - poiché non verrebbe ora in discussione la ratio della norma incriminatrice, bensì la sua (sopravvenuta) incompatibilità con il principio di tassatività.

     

    Nemmeno potrebbe ritenersi rispettato tale ultimo principio opinando che l’art. 724 del codice penale tuteli la religione cattolica «in quanto già religione di Stato» - così potendosi individuare la condotta sanzionata secondo le affermazioni contenute nella sentenza n. 925 del 1988 della Corte costituzionale - perché nella norma predetta non è contenuto alcun riferimento alla religione cattolica, essendo questa oggetto di tutela solo indiretta, per il fatto della sua qualificazione come religione di Stato.

  3. Qualora invece si volesse ritenere che la stessa norma contenga un riferimento univoco alla religione cattolica, essa, ad avviso del giudice rimettente, violerebbe gli artt. 3 e 8 della Costituzione. A sostegno della censura, nell’ordinanza si riportano brani di precedenti pronunce di questa Corte che sono consistiti in espressi inviti al legislatore, non ancora accolti, per una revisione della disciplina in vista dell’attuazione del principio costituzionale della libertà di religione, dal momento che «la limitazione della previsione legislativa alle offese contro la religione cattolica non può continuare a giustificarsi con l’appartenenza ad essa della quasi totalità dei cittadini italiani».

Considerato in diritto

  1. L’ordinanza del Tribunale di Milano ripropone la questione di legittimità costituzionale del reato di bestemmia, previsto dal primo comma dell’art. 724 del codice penale, sotto il duplice profilo della violazione del principio di determinatezza della fattispecie penale (art. 25, secondo comma, della Costituzione) e della violazione del principio di uguaglianza in materia di religione (artt. 3 e 8, primo comma, della Costituzione).
  2. 1. L’art. 724, primo comma, del codice penale punisce a titolo contravvenzionale la condotta di chi «pubblicamente bestemmia, con invettive o parole oltraggiose, contro la Divinità o i Simboli o le Persone venerati nella religione dello Stato». La prima prospettazione della questione si incentra sulle conseguenze che - ad avviso del Tribunale rimettente - deriverebbero dall’espunzione dal vigente ordinamento della nozione di «religione dello Stato». Di tale nozione, enunciata nell’art. 1 dello Statuto albertino, ribadita nell’art. 1 del Trattato del 1929 tra la Santa Sede e l’Italia e largamente utilizzata dal codice penale vigente, ma incompatibile con il principio costituzionale fondamentale di laicità dello Stato (sentenze nn. 203 del 1989 e 149 del 1995), il Protocollo addizionale all’Accordo di modifica del Concordato lateranense, recepito nell’ordinamento italiano con legge 25 marzo 1985, n. 121, ha constatato (al punto 1) il superamento: «Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano».
  3. Da questa caducazione, secondo il Tribunale rimettente, deriverebbe l’indeterminatezza della fattispecie dell’art. 724, primo comma, del codice penale e quindi la violazione dell’art. 25, secondo comma, della Costituzione, in quanto ora non sarebbe più individuabile la religione destinataria delle invettive e delle parole oltraggiose costitutive dell’elemento materiale del reato di bestemmia.

     

    La questione, così delineata, è già stata esaminata e respinta da questa Corte con sentenza n. 925 del 1988.

     

    La formula dell’art. 724, primo comma, del codice penale, dopo la scomparsa dall’ordinamento giuridico della nozione di «religione dello Stato», non contempla alcuna nozione generica e quindi non giustifica la censura di indeterminatezza. Semplicemente, si apre un’alternativa tra due possibilità, entrambe determinate: o ritenere che l’eliminazione della nozione di «religione dello Stato» abbia fatto venire meno la fattispecie dell’art. 724, primo comma, del codice penale e l’abbia così privata di contenuto normativo; oppure, ritenere che quell’espressione sia semplicemente il tramite linguistico per mezzo del quale, ora come allora, viene indicata la religione cattolica. Si tratta di una scelta interpretativa dipendente da una presa di posizione in ordine al «perché» della volontà del legislatore espressa nell’art. 724 (la religione cattolica in quanto religione dello Stato ovvero la religione dello Stato in quanto religione cattolica). La giurisprudenza penale ha seguito ora il primo, ora il secondo orientamento e quest’ultimo ha finito per prevalere con l’avallo di questa Corte, la quale ha affermato che «l’innegabile venir meno del significato originario dell’espressione “religione dello Stato” non esclude che, entro il contesto dell’art. 724 del codice penale, essa ne abbia acquistato uno diverso, ma sempre sufficientemente determinabile …: cioè, il significato di “religione cattolica”, in quanto già religione dello Stato» (sentenza n. 925 del 1988 e ordinanza n. 52 del 1989).

     

  1. 2. Riaffermata così la sopravvivenza dell’incriminazione penale della bestemmia in relazione alla «religione dello Stato», formula da intendersi - nei limiti che saranno appresso precisati - senza possibilità di dubbio o oscillazione come religione cattolica, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 724, primo comma, del codice penale deve essere esaminata rispetto agli altri parametri costituzionali invocati.
  2. 1. L’esame della legittimità costituzionale del reato di bestemmia previsto dall’art. 724, primo comma, del codice penale, con riferimento al principio di uguaglianza senza distinzione di religione (art. 3 della Costituzione) e al principio di uguale libertà davanti alla legge di tutte le confessioni religiose (art. 8, primo comma, della Costituzione) presuppone la ricostruzione del bene giuridico protetto dalla norma oggetto di sindacato, a partire dalla concezione originaria del legislatore penale del 1930.
  3. Il riferimento alla religione dello Stato - religione cattolica è il primo elemento di questa ricostruzione. Tale riferimento è generale nelle fattispecie dei reati attinenti alla religione (artt. 402-404: vilipendî variamente caratterizzati, e 724: bestemmia) e si spiega per il rilievo che, nelle concezioni politiche dell’epoca, era riconosciuto al sentimento religioso collettivo cattolico quale fattore di unità morale della nazione. Lo Stato, espressione e garante di tale unità, aveva, comprensibilmente, la «sua» religione ed era interessato a sostenerla e difenderla. Il secondo elemento - che si somma al precedente, senza escluderlo - è rappresentato dalla configurazione del reato di bestemmia congiuntamente alle manifestazioni oltraggiose verso i defunti e dalla sua collocazione nel «titolo» quanto mai eterogeneo delle «contravvenzioni concernenti la polizia dei costumi», collocazione che giustifica anche per la bestemmia (come per il gioco d’azzardo, gli atti contrari alla pubblica decenza, il turpiloquio, ecc.) una configurazione più riduttiva, come atto di malcostume.

     

  1. 2. In prosieguo, anche in conseguenza dei nuovi principî costituzionali di libertà e di uguaglianza dei cittadini e di laicità dello Stato, il reato di bestemmia è stato sottoposto a una riconsiderazione, i cui punti fondamentali sono rappresentati da altrettante pronunce della Corte costituzionale. Nella sentenza n. 79 del 1958 viene operata una prima conversione del bene giuridico protetto. La religione cattolica è configurata non più come la religione dello Stato in quanto organizzazione politica, ma dello Stato in quanto società: la protezione speciale della «religione dello Stato» si giustificherebbe per «la rilevanza che ha avuto ed ha la religione cattolica in ragione della antica ininterrotta tradizione del popolo italiano, la quasi totalità del quale ad essa sempre appartiene… La norma dell’art. 724 Cod. pen., come altre dello stesso Codice…, si riferisce alla “religione dello Stato” dando rilevanza non già a una qualificazione formale della religione cattolica, bensì alla circostanza che questa è professata nello Stato italiano dalla quasi totalità dei suoi cittadini e, come tale, è meritevole di particolare tutela penale, per la maggior ampiezza e intensità delle reazioni sociali naturalmente suscitate dalle offese ad essa dirette».
  2. Successivamente, con la sentenza n. 14 del 1973, la giurisprudenza della Corte costituzionale va oltre e la religione cattolica come religione della «quasi totalità» degli italiani viene sostituita - come oggetto della tutela penale - dal «sentimento religioso», elemento base della libertà di religione che la Costituzione riconosce a tutti. Si apre così, attraverso il riferimento al concetto di sentimento religioso, una prospettiva che investe l’atteggiamento dell’ordinamento verso tutte le religioni e i rispettivi credenti e va quindi al di là del riferimento alla sola religione cattolica. Tuttavia l’espressa limitazione della previsione legislativa alle offese contro la sola religione cattolica è ritenuta dalla Corte, in tale sentenza, ancora giustificata, data «l’ampiezza delle reazioni sociali… della maggior parte della popolazione italiana», ma viene aggiunto un richiamo: che, «per una piena attuazione del principio costituzionale della libertà di religione, il legislatore debba provvedere a una revisione della norma, nel senso di estendere la tutela penale contro le offese del sentimento religioso di individui appartenenti a confessioni diverse da quella cattolica».

    Da ultimo, la sentenza n. 925 del 1988, che rappresenta il punto di partenza per l’esame della questione ora riproposta alla Corte costituzionale, dichiara non fondato il dubbio di costituzionalità sulla vigente disciplina della bestemmia, ma in base a diverse affermazioni di principio che accantonano l’argomento numerico, sul quale fino ad allora si era motivato per escludere la violazione del principio di uguaglianza: «la limitazione della previsione legislativa alle offese contro la religione cattolica non può continuare a giustificarsi con l’appartenenza ad essa della “quasi totalità” dei cittadini italiani… e nemmeno con l’esigenza di tutelare il sentimento religioso della “maggior parte della popolazione italiana”…: non tanto vi si oppongono ragioni di ordine statistico (comunque sia la religione cattolica resta la più seguita in Italia), quanto ragioni di ordine normativo. Il superamento della contrapposizione fra la religione cattolica, “sola religione dello Stato” e gli altri culti “ammessi”, sancito dal punto 1 del Protocollo del 1984, renderebbe, infatti, ormai inaccettabile ogni tipo di discriminazione che si basasse soltanto sul maggiore o minore numero degli appartenenti alle varie confessioni religiose».

    L’abbandono del criterio quantitativo, così argomentato dalla Corte, significa che in materia di religione, non valendo il numero, si impone ormai la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede, quale che sia la confessione religiosa di appartenenza. Il primo comma dell’art. 8 della Costituzione trova così la sua piena valorizzazione.

     

    Il riconoscimento da parte della sentenza n. 925 del 1988 della disparità di disciplina, derivante dalla «perdurante limitazione insita nel dettato dell’art. 724», è dunque inevitabile, ma si afferma che la norma «possa trovare tuttora un qualche fondamento nella constatazione, sociologicamente rilevante, che il tipo di comportamento vietato dalla norma impugnata concerne un fenomeno di malcostume divenuto da gran tempo cattiva abitudine per molti», aggiungendosi peraltro che incombe sul legislatore «l’obbligo di addivenire ad una revisione della fattispecie». La Corte costituzionale ha così nuovamente definito i beni protetti dalla norma del codice penale (beni attinenti l’uno alla religione e l’altro al buon costume) e ha ritenuto, per il momento e in attesa dell’intervento del legislatore, che le esigenze di tutela del secondo bene portassero ad escludere la declaratoria di in costituzionalità della norma, pur difettosa sul piano della tutela del primo, in ragione dell’imperativo di uguaglianza.

  1. 3. Nella riconsiderazione della questione di legittimità costituzionale dell’art. 724, primo comma, del codice penale cui l’ordinanza del Tribunale di Milano chiama la Corte costituzionale, devono essere tenuti fermi due punti essenziali, affermati nell’ultima giurisprudenza ora richiamata: l’irrilevanza del criterio numerico nelle valutazioni costituzionali in nome dell’uguaglianza di religione e l’appartenenza della norma sanzionatrice della bestemmia (anche) all’ambito dei reati che attengono alla religione.
  2. In particolare, non può essere condivisa la tendenza - risultante da alcune pronunce della giurisdizione penale di legittimità e di merito volta ad attrarre senza residui la norma dell’art. 724 del codice penale solo all’ambito dei reati di mal costume. Di tale norma, infatti, si perderebbe la ragione d’essere caratteristica - cioè la sua attinenza alla protezione della sfera della religione - una volta che la si volesse intendere nell’ambito esclusivo della maleducazione verbale. Contro, stanno la sua origine, il riferimento testuale alla «religione dello Stato», poi mutato in riferimento alla religione cattolica, e la sua collocazione sistematica accanto alla disposizione che punisce il turpiloquio non ulteriormente qualificato (art. 726, secondo comma, del codice penale). Si potrà dire che la bestemmia - anche per la nostra legislazione - è un atto di inciviltà nei rapporti della vita sociale che non colpisce necessariamente soltanto i credenti, ma non si può trascurare che esso è caratterizzato dal suo attenere alla sfera della religione. La religione e i credenti sono pur sempre cose diverse dalla buona creanza e dagli uomini di buona creanza.

     

    Per questa ragione, i parametri costituzionali invocanti l’uguaglianza di fronte alla legge senza discriminazioni di religione (art. 3) e l’uguale libertà di tutti i culti (art. 8, primo comma) sono pertinenti. Da essi deve trarsi ora la conseguenza della declaratoria d’incostituzionalità della norma che punisce la bestemmia, in quanto differenzia la tutela penale del sentimento religioso individuale a seconda della fede professata. A tale declaratoria, la sentenza n. 925 del 1988 non era per il momento pervenuta, in attesa di un intervento del legislatore penale (già auspicato fin dalla sentenza n. 14 del 1973) che valesse a sanare la discriminazione tra fedeli di diverse confessioni religiose. La perdurante inerzia del legislatore non consente - dopo sette anni dall’ultima sentenza, ribadita nei suoi contenuti dall’ordinanza n. 52 del 1989 - di protrarre ulteriormente l’accertata discriminazione, dovendosi affermare la preminenza del principio costituzionale di uguaglianza in materia di religione su altre esigenze - come quella del buon costume tutelato dall’art. 724 pur apprezzabili ma di valore non comparabile.

     

  1. 4. La dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 724, primo comma, del codice penale deve tuttavia essere circoscritta alla sola parte nella quale esso comporta effettivamente una lesione del principio di uguaglianza. La fattispecie dell’art. 724, primo comma, del codice penale è scindibile in due parti: una prima, riguardante la bestemmia contro la Divinità, indicata senza ulteriori specificazioni e con un termine astratto, ricomprendente sia le espressioni verbali sia i segni rappresentativi della Divinità stessa, il cui contenuto si presta a essere individuato in relazione alle concezioni delle diverse religioni; una seconda, riguardante la bestemmia contro i Simboli o le Persone venerati nella religione dello Stato. La bestemmia contro la Divinità, come anche la dottrina e la giurisprudenza hanno talora riconosciuto, a differenza della bestemmia contro i Simboli e le Persone, si può considerare punita indipendentemente dalla riconducibilità della Divinità stessa a questa o a quella religione, sottraendosi così alla censura d’incostituzionalità. Del resto, dal punto di vista puramente testuale, ancorché la formula dell’art. 724 possa indurre alla riconduzione unitaria delle nozioni di Divinità, Simboli e Persone nella tutela penalistica accordata alla sola «religione dello Stato», è da notarsi che, in senso stretto, il termine «venerati», impiegato nell’art. 724, è propriamente riferibile ai soli Simboli e Persone. Cosicché, dovendosi ritenere che il legislatore abbia fatto uso preciso e consapevole delle espressioni impiegate, il riferimento alla «religione dello Stato» può valere soltanto per i Simboli e le Persone. La norma impugnata si presta così ad essere divisa in due parti. Una parte - esclusa restando ogni valenza additiva della presente pronuncia, di per sè preclusa dalla particolare riserva di legge in materia di reati e di pene - si sottrae alla censura di incostituzionalità, riguardando la bestemmia contro la Divinità in genere e così proteggendo già ora dalle invettive e dalle espressioni oltraggiose tutti i credenti e tutte le fedi religiose, senza distinzioni o discriminazioni, nell’ambito - beninteso - del concetto costituzionale di buon costume (artt. 19 e 21, sesto comma, della Costituzione). L’altra parte della norma dell’art. 724 considera invece la bestemmia contro i Simboli e le Persone con riferimento esclusivo alla religione cattolica, con conseguente violazione del principio di uguaglianza. Per questa parte, delle due possibilità di superamento del vizio rilevato: l’annullamento della norma incostituzionale per difetto di generalità e l’estensione della stessa alle fedi religiose escluse, alla Corte costituzionale è data soltanto la prima, a causa del predetto divieto di decisioni additive in materia penale.
  2. La scelta attuale del legislatore di punire la bestemmia, una volta depurata del suo riferimento ad una sola fede religiosa, non è dunque di per sé in contrasto con i principî costituzionali, tutelando in modo non discriminatorio un bene che è comune a tutte le religioni che caratterizzano oggi la nostra comunità nazionale, nella quale hanno da convivere fedi, culture e tradizioni diverse.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 724, primo comma, del codice penale, limitatamente alle parole: «o i Simboli o le Persone venerati nella religione dello Stato».

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 ottobre 1995.

Depositata in cancelleria il 18/10/1995.