Tavola rotonda su Il valore della sofferenza in Madre Teresa

di Rosalba Sgroia, Circolo UAAR di Roma

Nell’ambito della Settimana Anticoncordataria ha avuto luogo a Roma una Tavola rotonda dal titolo Il valore della sofferenza in madre Teresa e la concezione laica del dolore. Riflessioni intorno al saggio di Hitchens.

Leggendo alcuni stralci del libro non si può rimanere indifferenti alle dure parole di madre Teresa: «…Secondo me è bellissimo che i poveri accettino il loro destino, che condividano la passione di Cristo. Penso che la sofferenza della povera gente sia di grande aiuto per il mondo» (pag 37).

Questo - e altri passaggi controversi del pamphlet La posizione della missionaria, scritto dal pungente giornalista inglese Christopher Hitchens - induce il lettore a confrontarsi con un argomento scottante e a mettere in dubbio la morale cristiana secondo cui il dolore abbia un valore espiatorio, purificatore e di elevazione a Dio.

Dalla fervida abnegazione di madre Teresa nei confronti dei poveri e dei moribondi emerge un inquietante fanatismo e un’esaltazione ideologica che fa della sofferenza il terreno fertile su cui seminare l’idea che in un aldilà si possa realizzare una vita beata. Ciò che scuote fortemente è apprendere che la suora di Calcutta ha omesso di curare i malati attraverso l’uso di farmaci che avrebbero potuto farli guarire o, quanto meno, con la somministrazione di analgesici per alleviare loro il dolore.

Prendendo spunto dal “chiacchierato” testo, si è affrontato il tema della sofferenza secondo vari punti di vista: giuridico, medico, psicologico e religioso.

La tavola rotonda, moderata da Rosalba Sgroia dell’UAAR, ha avuto inizio con l’intervento del professore di sociologia del diritto dell’Università di Milano-Bicocca, nonché presidente della Consulta di Bioetica, Valerio Pocar. Con la pacatezza e la semplicità esplicativa tipica dei grandi studiosi si è soffermato sul concetto di sofferenza, intesa come dolore sia fisico che morale, legato all’umiliazione e alla negazione dei diritti. Ha evidenziato, allora, l’importanza dei compiti che una società civile deve attuare per eliminare gli ostacoli che si frappongono al pieno svolgimento della personalità degli individui, come previsto dalla nostra Costituzione. Doverosa la sua puntualizzazione nel dire che non è corretto parlare di una “concezione laica” del dolore, dato che l’essenza stessa della laicità è il pluralismo. La sofferenza, infatti, è una condizione propria di ciascun individuo, con caratteristiche esclusivamente personali, il cui contenuto non può essere comunicato completamente e in modo univoco.

Pocar ha affermato che è impossibile eliminare ogni tipo di sofferenza, ma è certo che ogni individuo ha diritto a soffrire il meno possibile. A tale proposito egli ha chiamato in causa la Poesia e l’Arte in generale che, da sempre, hanno contribuito ad alleviare le angosce e i tormenti della vita. Andando, però, oltre le personalissime soluzioni che ogni persona può mettere in pratica per sopportare la sofferenza, è necessario che tale obiettivo sia perseguito dall’intera collettività. Nessuno può provocare nell’altro una sofferenza, anzi ognuno deve adoperarsi affinchè ne vengano rimosse le cause. Esiste, però, un tipo di sofferenza, quella provocata nelle carceri (limitazione della libertà), che può essere legittimata solo se è a vantaggio della collettività e quindi avere un senso, ma la sofferenza di un malato non può trovare alcuna giustificazione rispetto all’interesse di qualcun altro. Ognuno dovrebbe assumere un atteggiamento altamente rispettoso al cospetto della tragicità dell’esperienza di un sofferente, mettendolo in condizione di poter scegliere il trattamento medico e psicologico più adatto alla sua condizione e anche di poter troncare la sua vita. Pocar ha affrontato brevemente la questione dell’eutanasia come ultima possibilità di un malato inguaribile per smettere di soffrire.

Un altro chiaro e importante intervento, quello del dott. Giuseppe Casale, oncologo e direttore sanitario dell’ANTEA, ci ha messo di fronte alla cruda realtà dei malati in fase avanzata, attraverso il racconto di alcuni toccanti episodi della sua carriera medica.

Ha posto in evidenza il fatto che molti medici hanno grosse difficoltà, spesso legate all’incompetenza, nel somministrare farmaci come la morfina e quindi, per il timore di uccidere il paziente evitano tale pratica, lasciandolo inerme al cospetto di un indicibile dolore. Lo scopo dell’associazione, invece, è quello di assistere - gratuitamente - a domicilio e nella struttura residenziale (hospice), questi malati, per lenire al massimo la sofferenza fisica e psicologica delle persone coinvolte in malattie neoplastiche, utilizzando cure palliative. Con il sostegno psicologico di tutta l’équipe, rivolto anche ai familiari del paziente, si cerca in tutti i modi di aiutare l’individuo, a vivere dignitosamente gli ultimi giorni, allontanando in lui il desiderio di cercare la morte prima del tempo. A tale proposito il dott. Casale ha riferito che, sulle 6.000 persone trattate con le cure palliative e con il sostegno psicologico, solo una ha richiesto di morire. Questo dato conta molto proprio perché rileva l’importanza di consentire ai pazienti di svolgere tutte quelle attività che rendono possibile una vita significativa. Ha precisato che su questa esperienza si dovrebbe riflettere di più per dare una risposta concreta alla sofferenza in direzione della vita e non della morte.

A proposito di morte, ha discusso anche di come, nella nostra epoca, essa sia diventata un tabù, spogliata della sua naturalità, della sua dimensione reale. Le efferatezze che siamo costretti a subire leggendo i giornali e assistendo a trasmissioni che spettacolarizzano la morte ci portano, paradossalmente, a eluderla dai nostri pensieri. Tale fuga provoca nella collettività l’illusione dell’immortalità ma, nello stesso tempo, ci rende inermi - emotivamente e razionalmente - quando si deve fare i conti con una malattia inguaribile e quindi con la morte imminente.

L’ultimo intervento è stato dello scrittore Antonio Pascale (curatore del citato libro di Hitchens), il cui intervento accorato e lucido ha messo in evidenza l’assurdità di elevare la sofferenza a regola morale «…non da scegliere, ma da accettare per forza di cose». Nell’esporre le sue considerazioni, Pascale ha valorizzato la capacità e il coraggio di Hitchens nel portare avanti un’inchiesta scomoda e destinata a suscitare aspre critiche e condanne, coraggio che spesso manca ai nostri giornalisti. Ciò risulta evidente dall’imponente avanzata di molti programmi televisivi che esaltano le imprese miracolistiche dei santi di turno e della caritatevole missione di religiosi nelle zone più deprivate della Terra, senza porsi interrogativi e dubbi.

Secondo il giovane e capace scrittore, la mancanza di capacità introspettiva, lo scarto tra ciò che pensiamo e ciò che facciamo e l’effettiva lontananza dai veri problemi della sofferenza, rischiano di tramutare una materia così complessa in una problematica quasi irreale, la cui risoluzione è demandata ad altri. In questa prospettiva, allora, la cosiddetta società civile, spesso non preparata in proposito, ripone grande stima nei religiosi che “gestiscono” tale sofferenza, senza intravedere il rischio che questa diventi un sistema di costrizione, di potere e una «…una pratica quotidiana (…) legata a uno scopo ben preciso: portare il mendicante e la sua anima a Dio».

Lo spessore culturale e umano che è emerso da questo incontro ha sicuramente arricchito tutti i presenti e per questo ai tre relatori va tutto il nostro ringraziamento.