Convegno “Non credenti e credenti: differenti, con identici diritti” - Stefano Levi Della Torre

Intervento di Stefano Levi Della Torre

Nella nostra società si aggirano malattie molto collegate tra loro. Penso innanzitutto alla superstizione che deriva dal fatto che non si capisce bene dove va la storia: è la confusione del grande cambiamento in corso a produrre derazionalità e superstizione. Poi le fobie che rappresentano la risposta a ciò che è già stato ricordato: come costituire continuamente comunità – basate su logiche di appartenenza – anziché polis. Le fobie rispondono infatti alla domanda di omogeneità. Razzismo, antisemitismo, omofobia sono parte di quel complesso patologico volto essenzialmente all’istanza securitaria sollecitata dalla confusione.

Prima si citava un passo di John Stuart Mill tratto dal suo testo “Saggio sulla libertà” del 1859: “Molti considerano lesiva dei propri interessi qualsiasi condotta che loro dispiaccia, e se ne risentono come di un oltraggio ai loro sentimenti, simili a quel bigotto che accusato di disprezzare i sentimenti religiosi degli altri, ha ribattuto che sono loro a disprezzare i suoi, persistendo nel loro abominevole culto o credo. Ma non sono sullo stesso piano ciò che uno pensa della propria opinione e ciò che ne pensa un altro che la considera un’offesa, come non lo sono il desiderio di un ladro di rubare una borsa e il desiderio legittimo del proprietario di tenersela”.

Ecco questo passo allude a un altro risvolto fondamentale di queste patologie: il vittimismo, ciò che ci fa dire: “Sono perseguitato da colui che quindi devo perseguitare”. Elemento caratteristico anche dell’antisemitismo: Hitler pensava di essere perseguitato dagli ebrei.

Ecco, questi sono i veleni che si aggirano per l’Europa.

Noi però, nel nostro Paese, abbiamo un elemento importante: il grande cambiamento in corso – le migrazioni, il contatto con altre culture – che mette all’ordine del giorno la laicità come terreno fondamentale della convivenza e della costruzione della polis. Magari una volta erano sparute minoranze ad avercela con la Chiesa perché era troppo invadente – cosa che è tuttora – però ora siamo in tanti ad essere minoranza e quindi si pone in effetti con forza la questione del pluralismo.

E qui ci troviamo di fronte a un bivio. Per costruire la polis di nuova dimensione – perché un conto è l’Atene del IV-V secolo, un conto è la polis ad estensione europea, continentale – e quindi sconfiggere queste regressioni che lavorano molto fortemente oggi in Europa, la grande alternativa è tra multiculturalismo e integrazione. Multiculturalismo che vuol dire tante comunità, tante istanze comunitarie separate che trovano poi un compromesso, e integrazione, intesa come formazione di cittadini della polis.

Se la laicità è il terreno di questa formazione, del pluralismo, non può essere solo metodo ma sistema di valori e orizzonti. Perché non si costruisce soltanto con il metodo: il metodo è solo l’infrastruttura di quelli che sono gli obiettivi che una società si deve dare.

Uno dei termini che, in questo periodo, più ha subìto una deformazione sta dentro il concetto di rispetto dell’identità. Prima di tutto perché l’identità può diventare idolo. Per esempio nella forma razzistica. Mi piace molto quella definizione del razzismo secondo l’amore anziché secondo l’odio insegnatami da Karl Kraus, il quale diceva “ i nazionalisti non mi sono tanto antipatici per l’odio perlopiù ragionevole che hanno nei confronti degli altri popoli, ma per l’amore del tutto ingiustificato che rivolgono a se stessi”.

Il razzismo è infatti lo sforzo di un narciso non riuscito che cerca in tutti i modi, attraverso il negativo, di rifluire su se stesso per dire: “Io sono meglio; il più cretino tra noi è meglio del più intelligente tra voi”. Un pensiero confortevole, prodotto nelle grandi ferite narcisistiche: così come quell’istanza narcisistica fondamentale che è stata il razzismo e l’antisemitismo tedeschi, fu il prodotto della sconfitta della Germania nella I Guerra mondiale.

Ecco, vittimismo e sforzo narcisistico sono le patologie che ci troviamo di fronte.

E allora, se pensiamo all’integrazione, quali sono gli orizzonti verso cui muoverci? Mi sembra abbastanza chiaro, per esempio, che sia necessario contrastare la forbice crescente dell’ingiustizia sociale, a colpi di legge, a colpi di lotte. Questo è già un terreno di orizzonte.

Però integrazione vuol dire anche fare molta attenzione al fatto che siamo tentati continuamente dall’idolatria. Dobbiamo stare attenti a non dire: “Noi non diciamo niente perché questa è la loro cultura”. Questa è una forma retorica spaventosa in cui magari non si accettano delle cose per sé, ma le si accettano per qualcun altro perché “fa parte della sua cultura e noi dobbiamo rispettarlo”. Penso per esempio a casi estremi come le ferite rituali femminili, considerate come fossero cose ammissibili mentre invece devono essere perseguite.

Integrazione vuol dire in realtà conflittualità tra comunità, identità e culture.

Senza una polemica di tipo culturale, religioso, dell’integrazione non si fa nulla: si ripiega sul multiculturalismo.

E qui entra in gioco il grande insegnamento di Beccaria, in Dei delitti e delle pene, quando dice: se vogliamo fare una Repubblica di famiglie allora avremo una Repubblica di molte autocrazie (cosa che somiglia, per esempio, alle comunità di appartenenza); se vogliamo davvero fare una Repubblica dobbiamo puntare sulle persone.

Una società che si basa sulle diverse comunità come soggetti principali, piuttosto che sulla persona, non è una Repubblica che piaceva a Beccaria e, sulle sue orme, posso dire che non piace neanche a me.

Puntare sulla persona è un’impostazione che mi sembra abbracci le varie forme di laicità ed è un portato anche delle tradizioni religiose. Un passo di Leopardi cui sono affezionato dice: l’essere umano non sarebbe areligioso se non fosse stato prima religioso. Questo perché la religione ha avuto la forza di porre come ordini del giorno questioni con cui dobbiamo confrontarci, come il senso della vita e della morte. E al tempo stesso ha dato formidabili forme simboliche a problemi che anche i non credenti devono affrontare, però con una difficoltà particolare per il fatto stesso che poniamo fortemente l’accento sulla persona singola, sull’importanza dell’individuo, sul come formare grandi gruppi mantenendo però la caratteristica individuale, personale delle cose. Insomma su come favorire l’aggregazione tenendo presente che il modo di aggregarsi, il senso di appartenenza, può essere sano ma comporta immediatamente il rischio della vocazione all’idolatria dell’identità.

 

Convegno “Non credenti e credenti, differenti con identici diritti”