Il Giubileo, chiusura e bilanci

 

Articoli, interviste e commenti apparsi tra il 3 e il 16 gennaio 2001

UN SUCCESSO SOLO D’IMMAGINE

Il 6 gennaio 2001 si è finalmente chiuso il Giubileo più lungo ed invadente di tutti i tempi. «Chiudete quella porta», titolava quel giorno, opportunamente, il Manifesto. «…Di questo Grande Evento (e appunto proprio perché grande) cominciavamo a sentire e risentire un po’ il peso. Questo Giubileo che ogni giorno rilanciava sé stesso per giubilare qualcuno, ora i giovani, ora gli anziani, ora i ciclisti, ora i ferrotranvieri, ora i filatelici, ora i numismatici, cominciava, abbiamo il coraggio di dirlo, a stancarci», chiariva ancor meglio Indro Montanelli sul Corriere della Sera dell’indomani.

«Il Giubileo del 2000 è stato essenzialmente un evento spettacolare, che ha avuto successo perché si è svolto su un palcoscenico offerto dallo Stato italiano e in particolare dalla città di Roma con l’esclusione di ogni celebrazione del Millennio come festa civile. E perché l’Italia ha fornito anche la colonna sonora con una Tv costantemente elogiativa. Quale messaggio attraverso lo spettacolo? Il messaggio di una Chiesa Imperiale che non rinuncia alla sua vocazione autoritaria che la differenzia da ogni altra religione»: Federico Coen, durante il convegno di Società Laica e Plurale del 16 gennaio, individua bene il principale aspetto della manifestazione: la sovraesposizione mediatica.

Filippo Gentiloni, sul Manifesto del 6 gennaio, interviene direttamente su questo particolare: «Ma quale valore attribuire a questo “successo”? Fino a che punto rappresenta un successo anche di quel Gesù del quale il papa dovrebbe essere il rappresentante in terra? E quanto invece, si è trattato di una sovraesposizione puramente mediatica e quindi superficiale, come quella degli altri personaggi dello schermo?».

Per Giovanni Negri, responsabile dell’Osservatorio Laico sul Giubileo, intervistato da Avvenire il 7 gennaio, «il Giubileo m’è parso come una grande manifestazione di volontà e passione di una minoranza - rispettabilissima - in un mondo sempre più indifferente. Se il mondo cattolico sperava in una ri-cristianizzazione militante, non mi pare abbia da rallegrarsi troppo. Il solo effetto visibile è stato quello di una capillare pervasività mediatica. Preti in ogni programma Tv, fiumi di ufficialità di Stato… Forse si è addirittura prodotta una generazione di anti-clericali arrabbiati».
Magari, aggiungiamo noi: ma la crescita dell’UAAR nel 2000 fa da supporto a questa tesi.

«Una cosa… sono le folle plaudenti. Un’altra … più incresciosa, è l’estasi che s’è impossessata di tanti cronisti su carta e su onde hertziane. Il “combinato disposto” fra i tre elementi ha rischiato di dare al pubblico - non a tutto il pubblico, evidentemente - un senso di sacra sazietà. Per taluni spettatori mai Epifania sarà stata così benvenuta come questa del 2001, a suggello di una vertiginosa audience pontificia o cardinalizia. Ma se i suoi messaggi straripano invadendo i domini di Cesare è colpa di certi argini che non tengono», aggiunge Nello Ajello su Repubblica lo stesso giorno. Sempre il 7 Ida Dominijanni, sul Manifesto, evidenzia i reali scopi di questa overdose clericale: «salva e grandiosa l’immagine, i contenuti possono restare in secondo piano e sul resoconto degli insuccessi e delle omissioni si può glissare…».

Pareri che non contano nulla, secondo le gerarchie vaticane: «sono proprio le persone più istruite, le più famose, che non sono riuscite a cogliere lo spirito di questo evento, perché ne hanno misurato il successo e l’insuccesso esterno, utilizzando, soltanto, categorie mondane, senza valutare invece i doni in termini di grazia e conversione che ne sono scaturiti», ha sostenuto il cardinale Camillo Ruini, intervistato da Repubblica il 6 gennaio: senza precisare, ovviamente, come si fa a valutare la portata di questi doni, prettamente spirituali. Non sembra che l’umanità sia diventata improvvisamente più buona.

PELLEGRINI: FU VERA INVASIONE?

Difficile stilare un bilancio in termini quantitativi: «nella capitale si registrano in tutto il Duemila 25 milioni di arrivi e 78 di presenze, il 30 per cento in più del ’99», registra Alberto Mattone su Repubblica del 5 gennaio. Ma come stabilire che l’aumento sia dovuto esclusivamente ai pellegrini? Qualcuno, ad esempio, ha scorporato dal dato i partecipanti al Gay Pride?

Nello Ajello, su Repubblica del 7 gennaio, il bilancio lo stila: «Erano stati in genere i laici a soffiare, alla vigilia del Giubileo, nelle trombe dell’Apocalisse. Ma avevano peccato per eccesso di pessimismo. L’Apocalisse non c’è stata. Ancora una volta, Roma ha sperimentato la sua proverbiale forza d’inerzia, reggendo - pensiamo a un lavoro teatrale di Ennio Flaiano - alla calata di venticinque milioni di devoti marziani».
Ora, i laici saranno stati anche pessimisti, ma le cifre non se le sono certo inventate loro: l’Agenzia per il Giubileo, non certo un covo di atei, parlava inizialmente di 46 milioni di pellegrini.

«Pullman, treni, stazioni, parcheggi, cessi pubblici, vigili, spazzatura, pasti caldi, ambulanze… Ogni progetto amministrativo è stato piegato in funzione dell’arrivo dei pellegrini, ogni mattone è stato posto per chi veniva a chiedere indulgenza. Gli albergatori e i commercianti non hanno fatto un ricco bottino, le agenzie viaggi (vaticane) sì, i romani e le romane hanno sopportato. È andata, e tutto sommato la città ha retto», ha sostenuto Roberta Carlini sul Manifesto del 6 gennaio. Fino a un certo punto, però: sullo stesso numero si legge che «resta patente il fallimento delle ruspe sante, che abbatterono una domus romana pur di consentire alle betoniere di terminare la rampa di accesso a un parcheggio vaticano, nel ventre del Gianicolo. Un parcheggio così indispensabile che, persino durante il grande giubileo, è rimasto sovente semideserto».

Luciano Canfora, sul Messaggero del 7 gennaio, ha svolto fino in fondo il suo ruolo di storico: «a furia di parlare tanto di un evento lo si ingigantisce. Così capita anche per il Giubileo. Non c’è stata nessuna sostanziale novità rispetto ai secoli passati, rispetto ai tempi di Bonifacio VIII. Il papa parlava e ha parlato, i politici si facevano vedere e si sono fatti vedere. Gli alberghi di Roma hanno fatto buoni affari, ma non penso che le locande di un tempo se la passassero male in tempi giubilari. Solo che allora mancavano gli indicatori economici».

Sulla qualità dei partecipanti, invece, meglio stendere un velo pietoso. Nonostante le rassicurazione di monsignor Crescenzio Sepe, su Repubblica del 5 gennaio («quelle famiglie, quei giovani che seguivano messa sotto la pioggia erano spinti da un ideale»), le cronache in proposito sono state implacabili: dal becero slogan “chi-non-salta-musulmano-è-è”, scandito a più riprese dai pellegrini in coda, alle montagne di preservativi trovati sul prato di Tor Vergata dopo il passaggio dei due milioni di papa-boys.

PER IL VATICANO UNA SERIE DI INSUCCESSI

Lucio Colletti, filosofo e parlamentare di Forza Italia, è addirittura drastico: «una cosa mi inferocisce del Giubileo: che questo Pontefice, con i suoi meriti, seppure retrodatati, risalenti ormai agli inizi del suo pontificato, apra tutti i giorni il suo negozio in piazza San Pietro e continua a ripetere le sue chiacchiere che non spostano nulla» (da La Stampa del 3 gennaio).

«La remissione del debito dei paesi in via di sviluppo, la clemenza per i detenuti e la moratoria della pena di morte sono i tre grandi insuccessi dell’anno santo», secondo Roberta Carlini, sul Manifesto del 6 gennaio.

Ma ce ne sono anche altri: il Consiglio della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, il 9 gennaio, è stato molto duro nel commentare il blocco del processo ecumenico.

Il più grosso schiaffo, però, è stato il dover subire l’organizzazione del Gay Pride: «La prima grande manifestazione dell’orgoglio gay in Italia, aperta e popolata anche da tantissimi eterosessuali. Per il Vaticano, un boomerang» (sempre Roberta Carlini). «Oggi, a distanza di mesi, si può senz’altro affermare che si è trattato di una macchia su un bel quadro», ha con poca classe affermato il cardinale Angelo Sodano, sul Corriere della Sera del 6 gennaio. «Sodano dovrebbe considerare una macchia la visita di Haider che, a quanto pare, non lo ha minimamente infastidito», gli ha risposto Franco Grillini, presidente onorario dell’Arcigay.

Il Gay Pride scopre evidentemente alcuni nervi tesi. Il cardinale Ersilio Tonini, su Repubblica dell’8 gennaio, sbotta: «Come si può parlare di orgoglio gay? Noi parroci e confessori conosciamo bene tante situazioni. Parlare di “orgoglio” omosessuale può mettere in crisi ragazzi di quindici, sedici anni che si trovano in un’età di sviluppo non ancora determinato e rischiano di essere orientati in quella direzione… Ognuno è libero di manifestare. La Chiesa ha solo espresso il dispiacere per il fatto che venisse fatto a Roma e in quel momento. Mica si è detto “vi scomunichiamo”. Può o no la comunità cristiana esprimere i suoi desideri o criticare le leggi? La Chiesa è la comunità cristiana e i valori fondamentali della nostra società provengono da questa tradizione. Vedremo cosa succederà quando verrà l’Islam». Incredibile questa certezza nell’invasione musulmana: noi atei evidentemente sottovalutiamo il problema, abituati come siamo alle vessazioni religiose, ma i cattolici italiani stanno arrivando a livelli di paranoia notevoli.

QUALE CHIESA DOPO IL GIUBILEO

«Una Chiesa che dal Giubileo esce, a mio avviso, con un evidente rafforzamento dei poteri centrali curiali, e quindi in qualche modo modificando abbastanza drammaticamente la prospettiva conciliare. Che esce con una forte tendenza autocelebrativa, se non trionfalistica, quindi una Chiesa vittoriosa. Che esce con questo rapporto assolutamente spurio con l’autorità politica, in base al quale sembra quasi che l’omaggio, la rincorsa del politico siano bene per la Chiesa. Una Chiesa che esce dal Giubileo con queste zavorre, è una Chiesa dentro la quale le tensioni sono destinate a crescere e a moltiplicarsi», sostiene, senza peli sulla lingua, Massimo Cacciari, intervistato da Repubblica il 6 gennaio.

«Ci vuole la pazienza di un amanuense per concludere l’anno giubilare senza diventare anticlericali ed eccessivamente polemici di fronte ai ripetuti anatemi vaticani. Con il secondo millennio sembra essere terminata una fase storica in cui la Chiesa ha cercato di aprirsi al mondo, alle nuove sfide ed ai mutamenti del costume. Il bilancio, purtroppo, è assai magro. Dopo le innovazioni politiche e pastorali del pontificato giovanneo e la felice parentesi conciliare, la Chiesa è di nuovo precipitata in un buio regressivo, culminato con il papato di Wojtyla, un uomo di straordinario talento politico e mediatico, rivoluzionario e conservatore, centralista ed ecumenico, capace di grandi aperture, ma anche di rigide ed incomprensibili chiusure dogmatiche», scrive il 5 gennaio Francesco Moroni su Web Magazine.

Lo storico Massimo Salvadori va oltre: «questo in qualche modo sta a dimostrare che in realtà il processo di secolarizzazione sta andando ed è andato molto avanti, e l’influenza reale che la Chiesa può avere sull’opinione pubblica, per non dire sui governi, va in effetti riducendosi. Anche se all’immagine consumistica del Giubileo-grande evento, evidentemente non corrisponde poi un rapporto adeguato in termini di influenza reale» (da La Stampa del 3 gennaio).

Critiche non mancano anche all’interno dello stesso mondo cattolico: «Certo. E non è certamente nelle intenzioni di chi ha scelto il Giubileo “per categorie”. Ma che senso ha incontrare la gente con i costumi tradizionali? Bisogna incontrare le persone, non i personaggi o la loro rappresentazione categoriale. Altrimenti, diventa necessario pensare anche al Giubileo dei peccatori, delle prostitute…» dice Virgilio Ilari, professore di Storia all’Università Cattolica di Roma, intervistato da La Stampa il 4 gennaio. Le stesse Comunità di Base protestano perché «…il Vaticano è stato ben attento a non includere quanti, tra i cattolici, avrebbero potuto dire parole critiche contro l’attuale gestione della Chiesa».

Del resto, «…vescovi e cardinali non possono ignorare che il convergere di un 2,5 per cento di cattolici a Roma (tanti sono i venticinque milioni di pellegrini a paragone del miliardo di cattolici sparsi nel mondo) non può servire a rimuovere lo stato di crisi in cui versa l’istituzione ecclesiastica in Occidente», come sostiene Marco Politi su Repubblica del 6 gennaio. Lo stesso Karol Wojtyla ha dovuto ammettere, nell’ultima omelia giubilare, che «…noi figli suoi siamo largamente segnati dal peccato e gettiamo ombra sul suo volto: nessuna auto-esaltazione, dunque, ma grande coscienza dei nostri limiti e delle nostre debolezze».

Con le critiche, però, non si può andare oltre un certo segno: «…non si comprende il Giubileo se non si conoscono le persone e non si conosce bene il Cristo a cui l’evento si riferiva», scrive Vittorio Morero il 10 gennaio su Avvenire: ma allora, perché quando l’hanno indetto hanno sostenuto che il messaggio giubilare era rivolto all’intera umanità?

LA PIAGGERIA DEI POLITICI E IL MUTISMO LAICO

Esemplari, in senso negativo, le parole del Presidente del Consiglio Giuliano Amato: «io sono tra quelli che pensano che il messaggio della Chiesa sia un potente fattore di promozione di valori etici in una società difficile, come è la società contemporanea. Da questo punto di vista, il susseguirsi di questi eventi è stato fortemente positivo: i sentimenti che la Chiesa e questo Papa riescono a diffondere sono un collante forte tra gli esseri umani».

Paradossali, al contrario, le parole dell’ex Presidente della Repubblica, il cattolico Oscar Luigi Scalfaro: «l’Anno santo deve essere del popolo, dei romei, la presenza dei politici fa sempre venire il sospetto che qualcuno sia andato lì per mettersi in vista». Scalfaro si limita a sospettarlo, noi invece ne siamo certi: il Giubileo è servito a molti politici per mettersi bene in vista.

«Ben più stanche e anchilosate … sono le gambe della politica secolare che al giubileo ha assistito inadeguata, genuflettendosi o riscoprendo un laicismo incapace di misurarsi con la domanda di senso che dal mondo globale sale e che la Chiesa a suo modo corrisponde e satura. A fronte di quello trionfale di Wojtyla, questo bilancio dell’anno giubilare resta ancora impietosamente da fare», scrive Ida Dominijanni sul Manifesto del 7 gennaio.

Chi lo fa è, a sorpresa, uno storico cattolico, Pietro Scoppola su Repubblica del 7 gennaio: «quel corto circuito fra trionfo e potere sembra spingere progressivamente i rapporti fra la Chiesa e lo Stato (e in concreto le forze politiche che si contendono la guida dello Stato) sul terreno del mercato in una sorta di “asta al rialzo”: favori alla Chiesa contro consenso elettorale; chi offre di più avrà più consenso. Il fenomeno è sotto gli occhi di tutti e scandalosamente vistoso nelle vigilie elettorali, a prevalente beneficio dello schieramento di destra».

Gli replica l’indomani, sullo stesso giornale, il cardinale Ersilio Tonini: «non ci sto. Ho grande amicizia per Scoppola, ma non è così. La mia pena è un’altra, è che noi cattolici siamo rimasti gli unici a difendere i valori congiunti di ordine pubblico, progresso economico e giustizia sociale. Solo noi alziamo la voce in difesa dei poveri. Sembra che la questione sociale non esista, e non è così».

Sarà, ma la Chiesa cattolica fa di tutto per avvalorare questa idea. «In questi lunghi mesi la gerarchia ecclesiastica in Italia è stata assai temporalista e poco giubilare intervenendo aggressivamente nelle vicende politiche. Per impedire la fecondazione artificiale tra i partner di fatto, per bloccare una legge sulle unioni civili, per vietare la pacifica manifestazione del Gay Pride, per scomunicare la pillola del giorno dopo e attaccare il presidente del Consiglio. Non è così, chiusa la Porta Santa, che si guadagna il consenso nella società e nemmeno si convertirà un’anima più» (Marco Politi, su Repubblica del 6 gennaio).

Accusa Massimo Cacciari, stesso giorno e stesso giornale: «la cosa più scandalosa di questo Giubileo è stato l’omaggio dei politici, la vacua rincorsa. Ma non tanto per la vacuità dei politici, che hanno perso qualunque capacità di dialogare e discutere con la Chiesa. Quanto perché questa rincorsa ha esaltato i caratteri autocelebrativi del Giubileo. Ed è grave che la Chiesa abbia accettato questo omaggio, facendone parte delle celebrazioni. La Chiesa ha detto: io sono l’unica istituzione capace di un discorso che dà senso. Ma allora, al termine delle celebrazioni giubilari, la domanda da farsi è un’altra: la Chiesa è riuscita a comunicare quello che avrebbe dovuto essere il suo messaggio?».

In questo dibattito i laici fanno la figura dei muti. «I laici italiani», continua Cacciari, «non capiscono più assolutamente nulla. Non hanno più alcun rapporto con la dimensione religiosa. Ormai la politica è completamente secolarizzata, di un relativismo pragmatico puro e semplice. Lo dico senza giudicare: è una constatazione fattuale. Una politica ridotta a relativismo pragmatico è una politica che avverte la sua mancanza di capacità di dare senso. E’ penoso pensare di poter riempire questo vuoto di senso rincorrendo il discorso che fa la Chiesa».

«La Chiesa è riuscita a dissimulare, in un’orgia mediatica, d’essere assediata dalla sostanziale scristianizzazione di gran parte del suo popolo… l’operazione sarebbe stata più difficile se tanti “laici non praticanti” non si fossero lanciati in soccorso del vincitore. Con l’andar del tempo l’Italia - per fare l’esempio che c’interessa - va riempendosi non solo di credenti di mera facciata (e fin qui siamo nella tradizione) ma anche di ex illuministi la cui conversione odora d’ipocrisia», sostiene Nello Ajello il 7 gennaio su Repubblica.

I sospetti sembrano confermati dalle parole dell’ex comunista ed ex laico Ferdinando Adornato, che sul giornale dei vescovi Avvenire, il 7 gennaio strilla: «…in virtù del pontificato di Wojtyla, il mondo laicista sente, per la prima volta, di poter perdere le chiavi della modernità, il copyright dei “valori democratici” e in luogo di accettare, insieme all’universo religioso, la sfida del nuovo comune terreno di ricerca, un dialogo “oltre le vecchie appartenenze”, si rifugia spaventato nella nostalgia del passato», laddove «dialogo», secondo lui, fa evidentemente rima con conversione.

«Quando va oltre e trasforma i suggerimenti in condanne o plausi, quando cerca di indirizzare il voto politico utilizzando il suo lobbismo religioso, commette un’intollerabile invadenza e va fermata sul confine di quell’invadenza… Ricordino i membri della gerarchia che il clero italiano è in larga misura mantenuto dal denaro dei contribuenti e ricordino anche che il Concordato, pur con una larghezza che non cesseremo di lamentare, fissa limiti rigorosi tra esercizio del magistero religioso ed esercizio dell’autorità politica», scrive Eugenio Scalfari il 7 gennaio su Repubblica.

Forse, dovremmo ricordarlo più spesso anche noi.