Sindacato e laicità

di Massimiliano Morosini, Roma

Stralcio dell’intervento tenuto alla Camera del Lavoro Roma Sud, nell’ambito delle assemblee precongressuali della CGIL.

Sul comportamento che ritengo sia giusto tenere rispetto al rinnovato vigore dell’interventismo delle gerarchie clericali cattoliche sulla società italiana, voglio innanzitutto ricordare che la Carta Costituzionale recita: «tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge senza distinzioni di religione»; che la Consulta ha affermato che la laicità è supremo principio dell’ordinamento costituzionale e se la tesi n. 3 del nostro documento congressuale si intitola Difendere la Costituzione, tale difesa deve riguardare anche tale principio. Inoltre una direttiva CEE che stabilisce un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione per quanto concerne le condizioni di lavoro è stata di recente recepita, quasi solo formalmente, dal nostro Paese.

Lo Statuto dei Lavoratori sanziona come nullo qualsiasi atto o patto diretto a recare pregiudizio a causa di discriminazione religiosa e vieta trattamenti di maggior favore aventi carattere discriminatorio (occorre dire però che tale norma ha sempre trovato scarsa applicazione e non perché non esistano tali discriminazioni).

Per ciò che concerne la nostra organizzazione, lo Statuto prevede che «…l’adesione alla CGIL comporta piena uguaglianza di diritti e doveri nel pieno rispetto dell’appartenenza a fedi religiose…» e nel precedente congresso della Funzione Pubblica è stato affermato che «occorre poter affermare la cultura della globalizzazione dei diritti e della dignità delle persone senza distinzione di fede religiosa». I compagni Carlo Podda e Aitanga Giraldi hanno anche recentemente fatto riferimento all’importanza del principio di laicità [Gilardi: «il governo intende pagare con queste proposte alcune cambiali, contratte in campagna elettorale, a quella parte della Chiesa Cattolica più arretrata (…) dobbiamo difendere con determinazione (…) la laicità dello Stato»] e sulla nostra rivista Quale Stato pubblicata in occasione del referendum sulla legge 40, Miriam Mafai ha scritto un articolo ricordando che le istituzioni repubblicane devono garantire il rispetto della laicità ed è stata citata l’Unione degli Atei e degli Agnostici e Razionalisti (UAAR); in altri congressi cui ho avuto modo di partecipare il tema è stato ripreso da più delegati a riprova che la tematica comincia a essere fortemente sentita.

Ma, a fronte di questo quadro positivo, nello stesso tempo la maggior parte dei mass media continua a pubblicizzare la Chiesa Cattolica come unico baluardo contro la deriva etica, unico difensore della pace e della giustizia sociale, unica istituzione in grado di affermare la cultura della vita contrapposta alla cultura della morte.

Abbiamo il dovere di diffondere la consapevolezza che NON È COSÌ!

Ovviamente le Chiese hanno tutto il diritto di affermare ciò che pensano: tanti compagni hanno combattuto per una Costituzione democratica nella quale viene garantito il diritto alla libera espressione del proprio pensiero.

Non dobbiamo però permettere al clero cattolico (o di qualsiasi altro culto) una così pesante ingerenza sulla vita dei cittadini di uno Stato laico e soprattutto di quei cittadini che non aderiscono ad alcun credo religioso. Basti ricordare quanto detto, ma soprattutto fatto, dagli ecclesiastici in merito alla vicenda dei referendum sulla procreazione, poi sulle unioni civili e sulla famiglia, e il loro rinvigorito impegno in tema di autodeterminazione della donna e di aborto. Nello stesso tempo occorre pure ricordare i beneficî di cui gode la Chiesa, beneficî pagati da tutti i cittadini, quindi anche dai non credenti: 8 per mille, esenzione ICI, assunzioni senza concorso degli insegnanti di religione, sovvenzioni alla scuola privata, concordato, extraterritorialità degli impianti di Radio Vaticana, ecc.).

Non ci dobbiamo nascondere che la sinistra non è esente da colpe avendo approvato leggi che favoriscono e quindi rinvigoriscono le ingerenze clericali nella vita civile.

Perché come cittadino italiano devo vedere affisso (in quanto imposto da un regolamento fascista) sulla parete dell’aula scolastica di mio figlio, che non si avvale dell’insegnamento religioso cattolico, il crocifisso? Perché mia moglie atea e dipendente del Ministero della Giustizia deve vedere imposta la presenza dello stesso simbolo nelle aule di tribunale? Perché lo devo subire nei seggi elettorali? Quel simbolo, oltre ad avere un significato altamente negativo (è il simbolo delle crociate e delle guerre di religione che hanno insanguinato l’Europa, dell’inquisizione e dei roghi di “streghe” ed eretici, delle stragi degli indios, della schiavitù, del Gott mit Uns dei nazisti, dell’antisemitismo e del colpevole silenzio sui campi di sterminio, delle benedizioni sulle camicie nere e sui militari italiani che partivano per la campagna di Russia, il simbolo del KKK, il simbolo del God Bless America e In God We Trust stampato sulle banconote di chi esporta la libertà e la democrazia con il piombo, l’uranio e il fosforo, delle coperture dei sacerdoti pedofili e di tante altre belle imprese), è un simbolo di parte in cui non tutti i cittadini possono riconoscersi. È quindi, ritengo, nostro preciso dovere cominciare intanto una battaglia per liberare, prima di tutto, gli spazi pubblici dai simboli di quella parte che rappresenta la conservazione sociale e il “regresso” scientifico, battaglia che sia il preludio di una lotta più ampia che abbia come obiettivo ultimo l’affermazione definitiva di quel principio di laicità che tutti garantisce, credenti e non credenti ovvero superstiziosi e persone razionali.