Fede e infelicità

di Eliana Vianello

Il sito uaar.it ha recentemente pubblicato alcuni messaggi di visitatori indignati dall’iniziativa dell’UAAR per la rimozione dei crocifissi dai seggi elettorali. Mi astengo dal replicare alle volgarità, che si commentano da sole come ovvia testimonianza delle discriminazioni di cui gli atei sono spesso vittime nella nostra società. I messaggi più civili e pacati mi hanno fatto riflettere su quanto sia forte l’incomprensione nei confronti del punto di vista ateo, incomprensione che è probabilmente la causa principale dell’intolleranza che talvolta si manifesta.

Un visitatore scrive: «che brutta impressione fa il vostro sito: è malinconico, senza speranza, è buio, fa venire voglia di suicidarsi, perchè tanto Dio non c’è e non c’è niente di quello che ha promesso Gesù. Così si sentivano prima della conversione tanti personaggi: S. Agostino, Alfonso Ratisbonne, Bruno Cornacchiola, e per ultimo io stesso […]».

Questa immagine della fede come antidoto alla depressione mi ha ricordato che il fervore religioso è presente più tra le masse di derelitti che tra i ceti abbienti, più nei Paesi depressi economicamente che non in quelli ricchi: la religione fornisce un sostegno morale lì dove è presente un disagio. È evidente che non risolve i problemi alla radice di questo disagio: il morto di fame rimane tale, ma trova nella fede la forza per sopravvivere.

Apprendo ora che S. Agostino, Bruno Cornacchiola (e chi è?) e il nostro visitatore hanno trovato nella fede conforto ad altra forma di disagio, non legato a problemi materiali. Anche in questo caso, non ritengo che la fede costituisca un’autentica soluzione al problema; tuttavia sono felice di sapere che qualcuno possa, in qualche modo, trovare sollievo al proprio disagio psicologico. Quello che il visitatore non sembra afferrare è che la tristezza che lui e S. Agostino provavano prima di abbracciare la fede cristiana erano la tristezza sua e quella di S. Agostino: un problema loro, non una condizione universale, connaturata nell’essere umano, da cui solo la fede può salvarci. Mi è capitato spesso che qualche credente mi abbia chiesto come faccio a campare felicemente senza fede, con che cosa la rimpiazzo, come se esistesse negli esseri umani un vuoto che in qualche modo deve essere colmato. Sarebbe il caso che queste persone capissero che si può vivere felicemente senza postulare l’esistenza di alcunché di trascendente.

E, anzi, dovrebbero capire anche che la religione, con i suoi dettami morali, spesso tradotti in leggi dello Stato, è, per molte persone, di ostacolo al pieno raggiungimento della felicità. Pensiamo a un omosessuale che, se credente, vive un conflitto tra i precetti religiosi e lo stile di vita che potrebbe consentirgli di essere felice; se ateo, deve comunque convivere con pregiudizi e discriminazioni all’interno della società, che trovano la loro origine nella concezione cristiana della sessualità umana. Pensiamo a una coppia, o anche solo a una donna, che non possa procreare naturalmente: la scienza medica, ovvero secoli di lavoro per garantire all’umanità un’esistenza migliore, le permetterebbe ugualmente di avere il tanto desiderato figlio, ma la chiesa no e, di conseguenza, nemmeno la vigente legge sulla procreazione assistita, il cui obiettivo è evidentemente quello di garantire l’osservanza di precetti religiosi anche da parte di chi religioso non è, invece che quello di garantire ai cittadini il diritto alla felicità.

Non è paradossale che continui a porre ostacoli alla felicità altrui chi tanto predica l’amore per il prossimo? Amare qualcuno non significa innanzitutto desiderarne la felicità? Non sarà che troppa felicità costituisce una minaccia al sentimento religioso, che rischierebbe di diventare, per molti, superfluo? Non sarà che la religione campa della sofferenza umana e chi campa di religione vede nella lotta alla sofferenza una minaccia al proprio status o al proprio potere?

E i credenti dovrebbero capire anche che la loro religione non si limita a ostacolare la felicità delle persone; essa è spesso causa diretta di infelicità. Io stessa ho vissuto un certo disagio esistenziale nei primi anni di vita, come conseguenza del fatto che mi era stata inculcata (certo non dai miei genitori atei) l’idea dell’esistenza di Dio. Non potrò mai capire come una persona possa vivere serenamente nella convinzione che esista un essere superiore il quale, dietro minaccia di dannazione eterna, la costringe ad assoggettarsi ai suoi voleri. Questa convinzione ha compromesso la mia naturale felicità infantile fino a che, verso i sette-otto anni, mi sono resa conto che non esisteva alcuna prova dell’esistenza di un tale opprimente essere e che si poteva anche non crederci: che liberazione! Ho finalmente potuto sentirmi pienamente libera e felice!

Conosco persone che si sono liberate dall’oppressione della fede solo sui vent’anni o oltre. Queste persone detestano ferocemente la religione e tutto ciò che vi è connesso, come è comprensibile, trattandosi di qualcosa che così a lungo ha inquinato la loro esistenza. E mi chiedo quanti non arrivino mai a liberarsene e vivano infelicemente tutta la vita.

Certo, capisco che non siamo tutti uguali: c’è chi è fatto per essere libero e chi per assoggettarsi ai voleri altrui, salvo magari rifarsi in seguito abusando del proprio potere alla prima occasione (forse, se la gente si assoggettasse un po’ meno a Dio, non sentirebbe poi così tanto l’esigenza di asservire i propri simili).

Che non siamo tutti uguali e che per qualcuno la fede religiosa sia fonte di infelicità farebbero meglio a capirlo anche i credenti, soprattutto quando si accingono a indottrinare un bambino inerme. Cosa si possa fare, a livello sociale, per proteggere i bambini da questo attentato alla loro naturale felicità non lo so. Allo stato delle cose mi sembra difficile salvare i figli dei credenti, convinti di avere il diritto di inculcare ai figli le loro convinzioni. Si dovrebbe almeno riuscire a tutelare i figli dei non credenti, evitando che – com’è successo a me – cadano vittime dell’onnipresenza del credo cattolico in ogni aspetto della vita sociale: i miei genitori, da bravi atei rispettosi di tutti i punti di vista e del diritto di un bambino di crescere senza condizionamenti, hanno cercato di non influenzarmi con le loro concezioni, non rendendosi conto che stavano dando il mio cervellino inerme in pasto a persone non altrettanto rispettose, e pronte ad approfittare della malleabile mente infantile.

Trovo inconcepibile che, mentre ci si riempie la bocca del sacrosanto diritto di un genitore di scegliere l’educazione dei propri figli (in base a questo principio viene giustificata la sovvenzione pubblica alle scuole cattoliche e l’ora di religione nelle scuole pubbliche) si calpesta quello che, a mio avviso, è il vero diritto inalienabile: quello del bambino di crescere libero da indottrinamenti di sorta.

Cosa deve fare un ateo se vuole tutelare la felicità di suo figlio garantendogli questo diritto? Chiuderlo in casa e buttare la televisione? Può solo lottare per una società laica in cui la fede sia un fatto intimo, personale, proprio di alcuni cittadini che ne sentono l’esigenza, e non venga invece considerata come uno stato fondamentale dell’essere umano, con la conseguente arroganza di chi la professa.

L’esposizione di simboli religiosi in luoghi pubblici non dedicati al culto è un’ovvia manifestazione di quest’arroganza e della mancanza di rispetto nei confronti di chi ha concezioni diverse e può facilmente avvertire tale ostentazione come una prevaricazione. Continuo a pensare che, forse, se certe persone si assoggettassero un po’ meno al loro dio, sarebbero meno frustrate e non troverebbero poi altrettanta soddisfazione nel semplice gesto di umiliare gli altri imponendo loro la propria volontà.

Un altro visitatore afferma: «Sotto il profilo strettamente filosofico, non condivido l’uso che voi fate del termine “razionalista”. Vi suggerisco di sostituirlo con “illuminista”, certamente più pregnante e più appropriato. Naturalmente, nell’uno o nell’altro caso (a parte il “rischio” di incontrare… Voltaire!) dovrete spostare indietro, di qualche secolo, il quadrante della storia. Ma questo è un problema vostro».

Vorrei fargli notare che lui, dichiarandosi cristiano, abbraccia una concezione del mondo nata non qualche secolo fa, ma un paio di millenni fa o prima ancora, e non pare che la cosa gli ponga un grosso problema. Per il resto sono abbastanza d’accordo con lui. Capisco che l’aggettivo razionalisti non indichi, come pensa il visitatore, adesione a una corrente filosofica di qualche secolo fa, bensì rifiuto di tutte le credenze comunemente chiamate irrazionali, comprese quelle non religiose. Però, visto che si sarebbero probabilmente considerati razionalisti anche gli autori delle varie prove ontologiche, si rischia di finire in cattive compagnie. Meglio in effetti un sano empirismo di stampo illuminista, se proprio vi fosse l’esigenza di dare un inquadramento filosofico a un punto di vista così basilare qual è il non degnare di considerazione ciò che è pura invenzione di menti umane, che sia il dio dei cristiani, Visnù, la cartomanzia o il Flying Spaghetti Monster.

Personalmente sono approdata all’ateismo a un’età in cui la cosa non poteva certo essere frutto di riflessioni filosofiche e, una volta che l’idea di dio me l’avevano ficcata nella testa, ho fatto la scelta che mi rendeva felice. Qualcuno potrebbe affermare che, a quel punto, cioè nel momento in cui l’idea di dio me l’avevano purtroppo ficcata nella testa e non ne potevo dimostrare razionalmente la non-esistenza, quella di non credere è stata una scelta più passionale che razionale. Mi sta bene: non ho nulla contro le passioni e avrei comunque altro di meglio su cui impegnare la ragione che in sterili elucubrazioni sulle fantasie altrui. Mi infastidisce semmai che qualcuno, come forse il primo visitatore, compia l’errore di considerare gli atei come persone che, prigioniere della ragione, risultano incapaci di cogliere la dimensione emotivo-spirituale della vita, di provare passioni e sentimenti e siano condannate a una visione arida del mondo e all’infelicità.

Penso viceversa che, almeno per molti di noi, sia vero il contrario. Abbiamo fatto una scelta di felicità e, coerentemente con l’invito di un terzo visitatore a fare del bene agli altri, vogliamo una società in cui a tutti sia garantito il diritto alla felicità, ovunque la vogliano cercare, convinti come siamo che la sola opportunità di essere felici ci sia data nel corso della vita, non certo dopo.