Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, Sezione terza, sentenza n.1110/2005

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, terza sezione,

con l’intervento dei signori magistrati:

Umberto Zuballi - Presidente relatore

Angelo Gabbricci - Consigliere

Riccardo Savoia - Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso n. 2007/02, proposto da S. T. L., in proprio e quale genitrice dei minori A e B, rappresentata e difesa dall’avvocato Luigi Ficarra, con domicilio presso la Segreteria del T.A.R. Veneto, giusta art. 35 r.d. 26 giugno 1924, n. 1054,

contro

l’Amministrazione dell’istruzione, dell’università e della ricerca, in persona del ministro pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura distrettuale dello Stato di Venezia, per legge domiciliataria,

con l’intervento ad opponendum,

dell’associazione «Forum», rappresentata e difesa dal suo Presidente avvocato Ivone Cacciavillani il quale dichiara di agire anche in proprio quale avvocato, e altresì rappresentata e difesa dall’avvocato Sergio Dal Pra’ e domiciliata ex lege presso la Segreteria del TAR, ai sensi dell’articolo 35 del r.d. 1054 del 1924, in quanto lo studio del domiciliatario indicato risulta situato al di fuori del territorio comunale di Venezia;

e del signor P.B. in proprio e quale genitore della minore C e del signor L. B., in qualità di presidente della A. Ge. (associazione italiana genitori) di Padova, rappresentati e difesi dall’avvocato Franco Gaetano Scoca ed elettivamente domiciliati presso lo studio dell’avvocato Chiara Cacciavillani in Stra (VE) Piazza Marconi n. 48 (rectius domiciliati ex lege presso la Segreteria del TAR, ai sensi dell’articolo 35 del r.d. 1054 del 1924, in quanto lo studio del domiciliatario indicato risulta situato al di fuori del territorio comunale di Venezia);

per l’annullamento

della decisione assunta il 27 maggio 2002 dal Consiglio di Istituto dell’Istituto Comprensivo «Vittorino da Feltre» di Abano Terme (Padova) — verbale n. 5 — nella parte in cui delibera di lasciare esposti negli ambienti scolastici i simboli religiosi;

nonché per l’annullamento degli atti presupposti e conseguenti, comunque connessi con quello impugnato.

Visto il ricorso notificato il 24 luglio 2002 e depositato il 25 settembre 2002 con i relativi allegati;

visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Amministrazione dell’Istruzione, depositato il 30 ottobre 2003;

vista l’ordinanza di questo TAR n. 56 del 2004;

vista l’ordinanza della Corte Costituzionale n. 389 del 2004;

vista la successiva domanda di fissazione d’udienza proposta dalla parte ricorrente in data 11 gennaio 2005;

visto l’atto di intervento ad opponendum dell’associazione «Forum» depositato il 29 gennaio 2005;

visto l’atto di intervento ad opponendum del signor P. B. in proprio e quale genitore della minore C e del signor L. B. in qualità di presidente della A. Ge. (Associazione italiana genitori) di Padova, depositato il 4 marzo 2005;

viste le memorie prodotte dalle parti;

visti gli atti tutti di causa;

uditi nella pubblica udienza del 17 marzo 2005 - relatore il presidente Zuballi - l’avvocato Ficarra per la ricorrente, l’avvocato dello Stato Gasparini per l’Amministrazione resistente e infine gli avvocati Chiara Cacciavillani e Franco Gaetano Scoca per il signor P.B. in proprio e quale genitore della minore C e per il signor L. B., in qualità di presidente della A. Ge. (Associazione italiana genitori) di Padova, nessuno comparso per l’associazione «Forum»;

ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:

FATTO

M. A. e S. T. L., quest’ultima nata nella città di Sipoo, in Finlandia, sono i genitori di A e B, nati rispettivamente nel 1988 e nel 1990, e iscritti nel 2002 rispettivamente alla III ed alla I classe dell’istituto comprensivo statale «Vittorino da Feltre» di Abano Terme (Padova).

Il 22 aprile 2002, nel corso di una seduta del consiglio d’istituto – come si legge nel verbale della riunione - lo stesso M. A., «in riferimento all’esposizione di simboli religiosi» all’interno della scuola, ne propose la rimozione; dopo una approfondita discussione, la decisione fu rinviata alla seduta del 27 maggio, quando fu posta in votazione ed approvata una deliberazione che proponeva «di lasciare esposti i simboli religiosi».

S T L, in proprio e quale genitrice esercente la potestà sui figli minori, ha impugnato tale determinazione con il ricorso in esame; nel successivo giudizio si è costituito il Ministero dell’istruzione, concludendo per l’inammissibilità, l’improcedibilità e, comunque, per l’infondatezza del ricorso.

Il ricorso censura la deliberazione impugnata anzitutto per violazione dei principi d’imparzialità e di laicità dello Stato, e segnatamente del secondo, quale principio supremo dell’ordinamento costituzionale, avente priorità assoluta e carattere fondante, desumibile insieme dall’art. 3 della Costituzione, che garantisce l’uguaglianza di tutti i cittadini, e dal successivo art. 19, il quale riconosce la piena libertà di professare la propria fede religiosa, includendovi anche la professione di ateismo o di agnosticismo: principio confermato dall’art. 9 della Convenzione europea dei dirittidell’uomo, resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848 [1], che riconosce la libertà di manifestare «la propria religione o il proprio credo».

Il rammentato principio di laicità, prosegue la ricorrente, precluderebbe l’esposizione dei crocefissi e di altri simboli religiosi nelle aule scolastiche, disposta in violazione della «parità che deve essere garantita a tutte le religioni e a tutte le credenze, anche a-religiose»: l’impugnata deliberazione del consiglio della scuola «Vittorino da Feltre» costituirebbe «aperta e palese violazione dei suesposti principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico».

Inoltre, continua la L., la stessa deliberazione sarebbe illegittima anche per eccesso di potere sotto il profilo della sua contraddittorietà logica.

Si desume invero dal verbale della seduta, in cui il provvedimento fu assunto, che uno dei membri dell’organo aveva espresso l’auspicio per cui «tale problema possa incentivare una maggiore educazione all’integrazione religiosa e al rispetto della libertà di idee e di pensiero per tutti»: ma, secondo la L., non si potrebbe affermare ciò e nel contempo negarlo, «dicendo che nella scuola debbono essere presenti i simboli religiosi appartenenti peraltro ad una sola determinata confessione religiosa».

L’Amministrazione si difende in giudizio contestando nel merito il ricorso e ponendo tra l’altro un dubbio sulla giurisdizione del giudice adìto.

La difesa erariale eccepisce altresì l’inammissibilità del ricorso, che non sarebbe stato notificato a quei genitori ed allievi dell’istituto «Vittorino da Feltre», i quali vogliono mantenere nelle aule scolastiche il crocifisso – che è l’unico simbolo religioso colà attualmente presente - e che per questo avrebbero la qualità di controinteressati.

Ancora, lo stesso Ministero sostiene di aver diramato, sia pure dopo l’avvio del processo, una circolare, datata 3 ottobre 2002, in cui si inviterebbero i dirigenti scolastici ad assicurare l’esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche: e tale disposizione, secondo la difesa erariale, «sarebbe comunque ostativa alla possibilità per la parte ricorrente, di ottenere la rimozione del simbolo cristiano».

Questo Tribunale ha sospeso il giudizio e inviato alla Corte Costituzionale gli atti, con l’ordinanza n. 56 del 2004, sollevando la questione di legittimità costituzionale degli artt. 159 e 190 del d. lgs. 16 aprile 1994, n. 297, come specificati rispettivamente dall’art. 119 del r.d. 26 aprile 1928, n. 1297 (Tabella C) e dall’art. 118 del r.d. 30 aprile 1924, n. 965, nella parte in cui includono il crocifisso tra gli arredi delle aule scolastiche e dell’art. 676 del d. lgs. 16 aprile 1994, n. 297, nella parte in cui conferma la vigenza delle disposizioni di cui all’art. 119 del r.d. 26 aprile 1928, n. 1297 (Tabella C) ed all’art. 118 del r.d. 30 aprile 1924, n. 965, in riferimento al principio della laicità dello Stato e, comunque, agli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione.

La Corte costituzionale, ha dichiarato inammissibile la questione, disponendo con l’ordinanza n. 389 del 2004 che a decidere sulla controversia sia questo giudice, in quanto la sollevata questione di legittimità riguarda norme di rango regolamentare prive di forza di legge.

E’ intervenuta ad opponendum l’associazione «Forum» rilevando la carenza di giurisdizione del giudice amministrativo, in base al petitum sostanziale, trattandosi di un diritto della personalità la cui cognizione spetta al giudice ordinario.

Sono altresì intervenuti ad opponendum, con unico atto, il signor P. B. in proprio e quale genitore dell’alunna minore C e il signor L. B. in qualità di Presidente della A. Ge. (Associazione italiana genitori) di Padova, i quali eccepiscono l’inammissibilità del ricorso per mancata tempestiva notifica ad almeno uno dei controinteressati, ai sensi dell’articolo 21 della legge n. 1034 del 1971, tra i quali va annoverato anche il signor P. B..

Quanto al merito, osservano che il crocifisso rappresenta il simbolo della civiltà e cultura cristiana, come valore universale, indipendente da una specifica confessione religiosa; comunque si tratterebbe di un segno non discriminatorio.

In vista della trattazione, parte ricorrente ha depositato un’ulteriore dettagliata memoria, nella quale eccepisce anzitutto l’inammissibilità dell’intervento dell’associazione «Forum», priva di alcun interesse alla controversia; del pari inammissibile sarebbe l’intervento di L.B., quale presidente della A.Ge. di Padova.

Sostiene poi la giurisdizione del giudice amministrativo e contesta altresì l’eccezione sollevata dai secondi intervenienti circa l’inammissibilità del ricorso per mancata notifica ai controinteressati, richiamando sul punto l’ordinanza del TAR n. 56 del 2004.

Quanto al merito, parte ricorrente, rifacendosi anche alle memorie difensive dell’Avvocatura dello Stato svolte in sede di giudizio di costituzionalità, rileva come le norme regolamentari sull’esposizione del crocifisso, in quanto collegate all’articolo 1 dello Statuto albertino, sono state tacitamente abrogate almeno dalla legge n. 121 del 1985 recante modifiche al Concordato e dalle successive norme che garantiscono la libertà di coscienza.

Ove il TAR considerasse ancora vigenti le citate norme regolamentari, esse comunque dovrebbero essere disapplicate, in quanto contrastanti con i principi costituzionali di aconfessionalità dello Stato e di libertà di coscienza.

Dopo un’ampia e approfondita discussione svoltasi nel corso della pubblica udienza del 17 marzo 2005, la causa è stata introitata per la decisione.

DIRITTO

1.1. La controversia torna a questo Tribunale dopo la dichiarazione di inammissibilità della Corte costituzionale, la quale con l’ordinanza n. 389 del 2004 ha stabilito che a decidere sulla questione sia questo giudice, nella considerazione che la sollevata eccezione di legittimità costituzionale degliarticoli 159 e 190 del d.lgs. 16 aprile 1994 n. 297 [2] è manifestamente inammissibile, in quanto frutto di «un improprio trasferimento su disposizioni di rango legislativo di una questione di legittimità concernente le norme regolamentari richiamate».

1.2. In via preliminare va affrontata la questione dell’ammissibilità dell’intervento ad opponendum dell’associazione «Forum», la quale, peraltro, sostiene nella sua memoria unicamente il difetto di giurisdizione del Tribunale amministrativo.

Orbene, detta associazione, il cui scopo sociale è genericamente la difesa dei diritti civili dei cittadini, afferma di voler intervenire con intento di «socialità partecipativa». Come noto, l’intervento «ad opponendum», finalizzato ad avversare la iniziativa del ricorrente, presuppone che l’interventore sia portatore di un interesse alla conservazione dell’atto dal quale possa trarre - sia pure di riflesso - una qualche utilità o comunque sia portatore di un interesse al quale, a seguito dell’accoglimento del ricorso e al conseguente annullamento del provvedimento impugnato, possa derivare indirettamente una lesione (tra le tante, T.A.R. Puglia Bari, sez. I, 5 aprile 2002, n. 1682). Nel caso dell’associazione «Forum» tale interesse non viene affatto dimostrato e nemmeno esplicitato; ne discende l’inammissibilità dell’intervento e l’estromissione dell’interventore.

1.3. Per le stesse ragioni testé esaminate va estromessa l’associazione A. Ge. (Associazione italiana genitori) di Padova, intervenuta attraverso il suo presidente L. B., la quale anch’essa non ha affatto esplicitato l’interesse al rigetto del ricorso.

1.4. Risulta invece ammissibile l’intervento ad opponendum proposto dal signor P. B., in proprio e quale genitore della minore C, che frequenta la medesima scuola dei minori ricorrenti, in quanto la sua posizione sostanziale fatta valere appare qualificata in relazione alla questione oggetto del presente giudizio.

Incidentalmente si osserva che la domiciliazione dei primi e dei secondi interventori, elettivamente avvenuta presso lo studio di un avvocato sito fuori dal territorio comunale di Venezia, deve intendersi effettuata ex lege presso la Segreteria del TAR, ai sensi dell’articolo 35 del r.d. 1054 del 1924.

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2.1. Alcune questioni preliminari sono già state risolte da questo Tribunale, sia pure in via incidentale, ma con argomentazioni che questo Collegio condivide e fa proprie, con l’ordinanza n. 56 del 2004 di rimessione alla Corte costituzionale.

La prima questione in ordine logico che si pone al Collegio è quella della giurisdizione; invero, trattandosi di questione di un diritto di libertà, intesa come libertà religiosa e di pensiero, si potrebbe ipotizzare la giurisdizione del giudice ordinario.

Ad avviso di questo Collegio peraltro la giurisdizione rientra nella giurisdizione amministrativa, sia perché viene impugnato un atto amministrativo discrezionale, sia in quanto il diritto di libertà viene, nella stessa prospettazione di parte ricorrente, in ipotesi leso da un’attività amministrativa e viene fatto valere in via indiretta tramite la richiesta di rimozione di detto atto.

L’atto impugnato, infatti, si riferisce ad un arredo scolastico, seppure certamente sui generis, ed è dunque espressione di una potestà organizzativa che appartiene all’Amministrazione scolastica, a fronte della quale i singoli utenti hanno posizioni di interesse legittimo.

In una materia analoga, concernente un altro diritto costituzionalmente garantito, quello della salute, è stata ritenuta la sussistenza della giurisdizione amministrativa qualora esso venga fatto valere in correlazione a una potestà discrezionale della pubblica amministrazione (Consiglio di Stato, sezione V, 10 aprile 2000 n. 2077).

In una questione sostanzialmente identica a quella che ne occupa, il Tribunale dell’Aquila, con ordinanza del 19 novembre 2003, in sede di reclamo proposto ex articolo 669 terdecies del Cod. proc. civ. avverso l’ordinanza del 23 ottobre 2003 emessa dallo stesso Tribunale ex art. 700 del Cod. proc. civ., ha statuito tra l’altro che, venendo in discussione l’ambito del potere dell’amministrazione scolastica in ordine all’organizzazione e alle modalità di prestazione del servizio scolastico, se essa cioè abbia l’obbligo o comunque il potere di disporre l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, la giurisdizione era di spettanza del giudice amministrativo.

2.2. La soluzione della questione della giurisdizione – come osservato nella citata ordinanza 56/04 - consente di respingere altresì l’ulteriore eccezione proposta dalla difesa erariale e dall’interventore P. B., per cui il ricorso non sarebbe stato notificato a quei genitori ed allievi dell’istituto «Vittorino da Feltre», i quali vogliono mantenere nelle aule scolastiche il crocifisso – che è l’unico simbolo religioso colà attualmente presente - e che per questo avrebbero la qualità di controinteressati.

Invero, nel giudizio amministrativo la posizione di controinteressato va riconosciuta – con il conseguente onere di notificazione del ricorso introduttivo - ai soggetti che si trovano in una posizione antitetica a quella del ricorrente, traendo utilità propria e diretta dal provvedimento impugnato, e sono facilmente individuabili in base a questo. In specie manca senz’altro questo secondo requisito, poiché la ricorrente (come d’altronde la stessa resistente) non era certamente in grado di stabilire, nel momento in cui ha proposto il ricorso, chi condividesse la decisione assunta dal consiglio d’istituto e qui impugnata.

2.3. Ancora, lo stesso Ministero sostiene di aver diramato, sia pure dopo l’avvio del processo, una circolare, datata 3 ottobre 2002, in cui si inviterebbero i dirigenti scolastici ad assicurare l’esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche: e tale disposizione, secondo la difesa erariale, «sarebbe comunque ostativa alla possibilità per la parte ricorrente, di ottenere la rimozione del simbolo cristiano».

Si deve peraltro anzitutto osservare come la circolare non risulti essere stata ufficialmente pubblicata, né comunicata direttamente alla ricorrente, e neppure prodotta in giudizio: sicché neppure il Collegio è in grado di valutarne la rilevanza, e l’effettivo valore vincolante.

La stessa circolare, comunque, non costituirebbe in ogni caso, per ammissione della stessa Amministrazione resistente, un atto presupposto del provvedimento gravato, né ciò sarebbe possibile, essendo a questo successiva.

Non si potrebbe dunque far carico alla ricorrente di non averla impugnata con il ricorso introduttivo, né di non averla successivamente gravata mediante motivi aggiunti, come pure si sostiene nel controricorso, non trattandosi di un atto appartenente allo stesso procedimento ed adottato «tra le stesse parti» (art. 21, I comma, legge 1034/71): si deve quindi concludere che, allo stato, la L. conserva integro il proprio interesse all’annullamento della deliberazione 27 maggio 2002, la quale incide direttamente sulla sua posizione soggettiva d’interesse legittimo.

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3.1. Un altro aspetto preliminare riguarda l’interesse a ricorrere, in quanto si potrebbe dubitare – come espone la resistente Avvocatura erariale nella sua memoria difensiva a pagina 6 - della lesività del provvedimento rispetto alla sfera giuridica di parte ricorrente; sennonché non vi è chi non veda come la valutazione della lesione o meno di tale interesse – di natura indirettamente etica e morale, in quanto coinvolgente la sfera di libertà individuale - risulta strettamente collegata alla soluzione della questione principale sollevata in ricorso, quella cioè della legittimità del provvedimento impugnato nella parte in cui consente l’esposizione in aula del crocifisso.

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4.1. Va in via preliminare rilevato che questo Tribunale considera - ai fini del presente giudizio e di una valutazione complessiva della questione - equivalenti i simboli della croce e del crocifisso, come già indicato nell’ordinanza di questo TAR n. 56 del 2004 e prima ancora dal Consiglio di Stato nel parere n. 63 del 1988, anche se non ignora certo le differenze tra i due segni. Va a tale proposito rammentato che l’approccio delle varie confessioni cristiane rispetto alla rappresentazione del Cristo risulta alquanto diversificato; basti pensare alle note e variegate posizioni sul punto della chiesa cattolica, delle chiese riformate e ortodosse, di quella valdese, anglicana, vetero-cattolica, hussita, copta e armena.

Si deve peraltro tener conto che nella prolungata prassi applicativa della normativa regolamentare, che, come si vedrà in seguito, menziona solo il crocifisso, le singole scuole pubbliche espongono spesso una semplice croce. Posto che anche nel diritto amministrativo è ipotizzabile la configurabilità di una consuetudine quale fonte non scritta di diritto, il comportamento univoco, ripetuto e costante per un certo numero di anni risulta idoneo ad integrare la formazione di una consuetudine interpretativa della norma regolamentare.

4.2. Inoltre, il crocifisso è stato sempre ritenuto come un segno previsto in maniera non tassativa, in quanto considerato fungibile con altre immagini di significato equivalente, tant’è che la circolare n. 8823 del 1923 del Ministero della pubblica istruzione, pur nel contesto di un quadro normativo che si riferiva anch’esso solo al crocifisso, ammetteva (sembra per venire incontro alle richieste dei valdesi) la possibilità che tale simbolo venisse sostituito con un’immagine del Cristo in un’altra postura, ad esempio da un quadretto raffigurante Gesù con i fanciulli.

In sostanza, tenuto conto della consuetudine applicativa (e quindi anche interpretativa) della normativa sull’esposizione di tale simbolo nelle scuole, i due oggetti – croce e crocifisso - possono essere considerati assimilabili e intercambiabili.

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5.1. Quanto alla ricostruzione del fondamento regolamentare del provvedimento gravato, non resta che richiamare la ripetuta ordinanza di questo TAR n. 56 del 2004, la quale ha rilevato come l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche sia espressamente prescritta da due disposizioni, l’art. 118 del r.d. 30 aprile 1924, n. 965 [3], recante disposizioni sull’ordinamento interno degli istituti di istruzione media, e dall’art. 119del r.d. 26 aprile 1928 n. 1297 [4] (e, in particolare, nella Tabella C allo stesso allegata), riferito agli istituti di istruzione elementare, norme che si riconnettono storicamente all’art. 140 r.d. n. 4336 del 1860, contenente il regolamento di attuazione della celebre legge Casati (l. n. 3725 del 1859), che includeva, per l’appunto, il crocifisso tra gli arredi delle aule scolastiche, poi confermato dal regolamento di cui al r.d. 6 febbraio 1908 n. 150 (allegato D relativo all’art. 112).

I due citati regi decreti del 1924 e del 1928, sebbene risalenti, sarebbero tuttora in vigore, come confermato dal parere 27 aprile 1988 n. 63/1988, reso dalla II Sezione del Consiglio di Stato e, sebbene non espressamente richiamati nell’atto impugnato, ne fondano la legittimità.

5.2. Invero, prosegue l’ordinanza n. 56 del 2004, va anzitutto riconosciuto che le disposizioni richiamate dall’Amministrazione resistente costituiscono, per tali, pertinente ed adeguato fondamento giuridico positivo del provvedimento gravato, seppure limitatamente ad un particolare simbolo religioso, il crocifisso, che è, peraltro, l’unico cui il ricorso si riferisce esplicitamente e, con ragionevole certezza, quello cui si vuole riferire il provvedimento impugnato.

Il citato art. 118 del r.d. 965/24 - incluso nel capo XII intitolato «dei locali e dell’arredamento scolastico» - dispone che ogni istituto d’istruzione media «ha la bandiera nazionale; ogni aula, l’immagine del Crocifisso e il ritratto del Re»; l’art. 119 del r.d. 1297/28, a sua volta, stabilisce che gli arredi delle varie classi scolastiche sono elencati nella tabella C, allegata allo stesso regolamento: e tale elencazione include il crocifisso per ciascuna classe elementare.

Tali previsioni, anteriori al Trattato ed al Concordato tra la Santa Sede e l’Italia - cui fu data esecuzione con la legge 27 maggio 1929, n. 810 - non appaiono contrastare con le disposizioni contenute in quegli atti pattizi, in cui nulla viene stabilito relativamente all’esposizione del crocifisso nelle scuole, come in qualsiasi ufficio pubblico; inoltre, come rileva il Consiglio di Stato nel parere n. 63/1988, le modificazioni apportate al Concordato con l’Accordo, ratificato e reso esecutivo con la legge 25 marzo 1985, n. 121, «non contemplando esse stesse in alcun modo la materia de qua, così come nel Concordato originario, non possono influenzare, né condizionare la vigenza delle norme regolamentari di cui trattasi», mancando i presupposti di cui all’art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale.

In particolare, prosegue lo stesso parere, «non appare ravvisabile un rapporto di incompatibilità con norme sopravvenute né può configurarsi una nuova disciplina dell’intera materia, già regolata dalle norme anteriori»: sicché, in conclusione, poiché le disposizioni in parola «non attengono all’insegnamento della religione cattolica, né costituiscono attuazione degli impegni assunti dallo Stato in sede concordataria, deve ritenersi che esse siano tuttora legittimamente operanti».

5.3. La natura regolamentare dei due atti citati si desume, anzitutto, da specifiche previsioni che li autoqualificano per tali (ad es. l’art. 144 del r.d. 965/24, e la stessa intestazione per il r.d. 1297/28); si aggiunga che, nei rispettivi preamboli, vengono richiamati atti di grado sicuramente legislativo – il testo unico delle leggi sull’istruzione elementare, approvato con il r.d. 5 febbraio 1928, n. 577, da una parte, ed il r.d. 6 maggio 1923, n. 1054, recante l’ordinamento della istruzione media, dall’altra – rispetto ai quali sono destinati ad introdurre norme attuative di dettaglio.

5.4. Per completezza va rilevato che a loro volta le citate leggi risultano attualmente vigenti nella formulazione di cui al d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297, mediante il quale è stato approvato il testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado.

Invero, rammentato nuovamente che il crocifisso costituisce, secondo l’art. 118 del r.d. 30 aprile 1924, n. 965 e l’art. 119 del r.d. 26 aprile 1928 n. 1297 (e, in particolare, nella Tabella C allo stesso allegata), un arredo scolastico, va ricordato come l’art. 159, I comma, del d. lgs. 297/94, corrispondente all’art. 55 del r.d. 5 febbraio 1928, n. 577, disponga che spetta ai comuni provvedere, tra l’altro, «alle spese necessarie per l’acquisto, la manutenzione, il rinnovamento del materiale didattico, degli arredi scolastici, ivi compresi gli armadi o scaffali per le biblioteche scolastiche, degli attrezzi ginnici e per le forniture dei registri e degli stampati occorrenti per tutte le scuole elementari»; per la scuola media, poi, l’art. 190 del citato d. lgs. 297/94, corrispondente all’art. 103 del r.d. 6 maggio 1923, n. 1054, egualmente dispone che i comuni sono tenuti a fornire, oltre ai locali idonei, l’arredamento, l’acqua, il telefono, l’illuminazione, il riscaldamento, e così via.

V’è poi un’altra disposizione, contenuta nello stesso d. lgs. 297/94, che va considerata, ed è l’art. 676, intitolato «norma di abrogazione», il quale dispone che «le disposizioni inserite nel presente testo unico vigono nella formulazione da esso risultante; quelle non inserite restano ferme ad eccezione delle disposizioni contrarie od incompatibili con il testo unico stesso, che sono abrogate».

Invero, le norme recate dall’art. 118 del r.d. 965/24 e dall’art. 119 del r.d. 1297/28 non confliggono affatto con il testo unico e restano dunque in vigore in forza dello stesso art. 676.

5.5. Occorre appena aggiungere come il riferimento alla natura del regime che governava il Paese all’epoca dell’emanazione delle citate norme regolamentari e al loro utilizzo talvolta strumentale, non può affatto comportare la loro abrogazione, sia perché si tratta di considerazioni giuridicamente irrilevanti, sia perché come noto le norme assumono una valenza propria indipendentemente dalle intenzioni di chi le ha emanate.

Inoltre, come sopra accennato, le norme sull’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche risalgono addirittura al 1859, tra l’altro in un contesto storico di vivace contrapposizione tra Papato e Stato unitario e comunque ben prima dell’instaurarsi della dittatura. Evidentemente l’esposizione del simbolo cristiano era considerata all’epoca, accanto alla collocazione del ritratto del re e della bandiera, come richiamo ai valori unificanti della nazione.

Infine, l’esposizione del crocifisso nelle scuole è perdurata tanto a lungo, anche dopo la caduta del fascismo, che qualcuno ne ha parlato come di una consuetudine nel senso giuridico del termine.

5.6. Quanto sopra esposto consente altresì di confutare la tesi, sostenuta da parte ricorrente nella memoria integrativa e talvolta richiamata in giurisprudenza e dottrina, secondo cui le due disposizioni regolamentari citate, il r.d. 965/24 ed il r.d. 1297/28, in quanto strettamente collegate allo Statuto albertino e alla sua previsione del cattolicesimo come religione di Stato (articolo 1) sarebbero state abrogate dalla Costituzione repubblicana o almeno dalle modificazioni apportate al Concordato con l’Accordo, ratificato e reso esecutivo con la legge 25 marzo 1985, n. 121, che espressamente hanno espunto dall’ordinamento lo stesso concetto di religione di Stato.

Innanzi tutto va rilevato che, non trattandosi di abrogazione espressa, essa potrebbe essere solo quella tacita, ex articolo 15 delle preleggi, la quale va dedotta dalla diretta incompatibilità logica, ossia dalla impossibilità di coesistenza della norma nuova con l’antica sullo stesso oggetto, per l’assoluta contraddittorietà delle due disposizioni (Consiglio Stato, sez. IV, 5 luglio 1995, n. 538). Sennonché, tale assunto implica la derivazione diretta della norma regolamentare sull’esposizione del crocifisso dall’articolo 1 dello Statuto albertino, e quindi la sua evidente incompatibilità sia con la Costituzione sia con la modifica del Concordato del 1985; esso considera pertanto dimostrato a priori quello che costituisce invece l’oggetto della presente controversia, cioè l’eventuale incompatibilità dell’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche con l’attuale assetto costituzionale.

Invero, come già sopra esplicitato, le ripetute norme regolamentari hanno quale fondamento le leggi sulla pubblica istruzione e non implicano affatto un’applicazione diretta dello Statuto albertino, il quale può costituire al più la ragione dell’ostensione del crocifisso, ma non la impone certo né la implica come logica consequenzialità.

In sostanza, la tesi abrogratrice, ancorché suggestiva, ignora il quadro storico e normativo e per di più dà per dimostrato un significato univoco del simbolo della croce nel contesto scolastico, che risulta invece dubbio e controverso.

Del resto, sarebbe contraddittorio a un tempo negare la derivazione diretta delle norme regolamentari citate dalle leggi che disciplinano la dotazione delle scuole, che riguardano la stessa materia, come ha statuito la Corte costituzionale nella citata ordinanza di inammissibilità n. 389 del 2004, e allo stesso tempo porle in diretta correlazione con l’articolo 1 dello Statuto albertino, norma con forza di legge ordinaria avente tutt’altro oggetto e finalità.

5.7. Per completezza, va osservato che è stato altresì sostenuto che i due regolamenti del 1924 e del 1928 non prevederebbero l’obbligo di esporre il crocifisso, ma solo il dovere per l’amministrazione scolastica di acquistarlo come materiale in dotazione; l’esposizione diverrebbe così facoltativa e la scelta in proposito verrebbe demandata a ogni singola scuola, secondo la volontà della maggioranza dell’organo collegiale competente.

Tale tesi non appare condivisibile, innanzi tutto per un dato testuale, in quanto l’art. 118 del r.d. 965/24 - incluso nel capo XII intitolato «dei locali e dell’arredamento scolastico» - dispone che ogni istituto d’istruzione media «ha la bandiera nazionale; ogni aula, l’immagine del Crocifisso e il ritratto del Re»; l’art. 119 del r.d. 1297/28, a sua volta, stabilisce che gli arredi delle varie classi scolastiche sono elencati nella tabella C, allegata allo stesso regolamento: e tale elencazione include il crocifisso per ciascuna classe elementare.

Le due norme citate, interpretate secondo logica, rendono obbligatoria l’esposizione del crocifisso, anche perché non avrebbe alcun senso dotarsi di un oggetto privo di utilità pratica e di uso unicamente simbolico senza una sua ostensione, ove cioè esso venisse riposto in un cassetto.

Quanto infine a lasciare la scelta a ogni scuola, a parte che il dato normativo non lo consente, appare dubbio che in siffatta materia, che coinvolge le libertà individuali, possa essere la maggioranza a decidere.

5.8. Un’altra suggestiva tesi fa derivare la legittimità dell’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche direttamente dall’articolo 7 della Costituzione, che differenzia la chiesa cattolica (unica menzionata nella Carta) dalle altre religioni riconoscendo il regime concordatario e considerandola come un alleato dello Stato di diritto internazionale. Risulta agevole a tale proposito osservare da un lato che né il crocifisso né a maggior ragione la croce possono oggi identificarsi con la sola religione cattolica e d’altro lato che i Patti lateranensi e la posizione peculiare della chiesa cattolica nel nostro ordinamento non scalfiscono affatto – come si vedrà in prosieguo sub 7.2. - il principio supremo della laicità dello Stato e l’eguaglianza delle varie confessioni religiose.

5.9. In conclusione sul punto, il Collegio a sua volta deve riconoscere che le due disposizioni in questione non sono state abrogate, né espressamente, né implicitamente, da successive norme di grado costituzionale, legislativo ovvero regolamentare.

Il r.d. 965/24 ed il r.d. 1297/28, costituiscono quindi fonti regolamentari vigenti, come asserito altresì dalla citata ordinanza della Corte costituzionale n. 389 del 2004.

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6.1. Il crocifisso peraltro, come appare evidente, non può essere considerato semplicemente come un arredo, ma è un simbolo, un oggetto cioè che richiama significati diversi rispetto alla sua materialità, alla stregua di una bandiera, di uno scettro o di un anello nuziale.

La questione si sposta quindi su quale sia il significato o i significati che tale particolare simbolo evoca, per verificare, alla luce delle norme vigenti, principalmente di rango costituzionale, se essi siano o meno compatibili con la sua esposizione in una scuola pubblica.

6.2. Come noto, il linguaggio dei simboli costituisce un sistema comunicativo caratterizzato dall’elevato grado di vaghezza e, al tempo stesso, dalla forte «carica emotiva» dei segni impiegati, per cui assumono un ruolo rilevante sia la precomprensione dell’interprete sia la contestualizzazione del simbolo esaminato.

Ne consegue che un simbolo, in specie la croce, assume per sua stessa natura un contenuto polisemico, anche nello stesso momento storico, oltre che subire modifiche sia nel corso del tempo sia in relazione al contesto in cui si colloca. Ad esempio, la croce che campeggiava sugli scudi dei templari, presentava un’accezione semantica alquanto diversa rispetto a quella inserita nel contrassegno del partito gollista francese o a quella posta sul copricapo delle crocerossine.

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7.1. Questo Collegio non crede si possa dubitare che il valore costituzionale cui fare riferimento sia la laicità dello Stato, chiaramente sancita dalla Costituzione repubblicana. Laicità o aconfessionalità non significa affatto l’opposto di religione o religiosità, ma più semplicemente che lo Stato democratico riconosce una valenza autonoma alla sfera religiosa come estranea alla sua volontà di determinazione, in sostanza si proclama neutro rispetto alle diverse religioni a cui il cittadino può liberamente aderire ovvero anche non aderire, per convinzioni atee o semplice indifferenza rispetto al fatto religioso.

Stato laico vuol dire quindi il riconoscimento di una sfera autonoma lasciata in campo religioso alla libera determinazione del singolo; significa inoltre nel nostro ordinamento la regolamentazione a certe condizioni dei rapporti con alcune specifiche religioni, riconosciute purché non si pongano in contrasto con i valori fondanti della Repubblica, e, tramite lo speciale regime concordatario, con la chiesa cattolica.

Stato laico significa altresì, come logico corollario, che nella scuola pubblica in cui si devono formare i giovani anche ai valori di libertà, democrazia e laicità dello Stato, non è lecito imporre alcun tipo di credo religioso e anzi risulta doverosa un’educazione improntata alla massima libertà e al rispetto reciproco in tale campo.

7.2. Invero, come ben esplicitato nella citata ordinanza n. 56/04 di questo TAR, la laicità dello Stato italiano costituisce, secondo il Giudice delle leggi, un principio supremo, emergente dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, e, dunque, «uno dei profili della forma di Stato delineata dalla Carta costituzionale della Repubblica», (così Corte cost., 12 aprile 1989, n. 203) e nel quale «hanno da convivere, in uguaglianza di libertà, fedi, culture e tradizioni diverse» (Corte cost., 18 ottobre 1995, n. 440).

Quale riflesso del principio di laicità (successivamente ribadito dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 259/90, 195/93 e 329/97), e, più specificatamente, dell’uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione (art. 3 Cost.) e dell’eguale libertà davanti alla legge di tutte le confessioni religiose (art. 8 Cost.), «l’atteggiamento dello Stato non può che essere di equidistanza e imparzialità» nei confronti di ogni fede, «senza che assumano rilevanza alcuna il dato quantitativo dell’adesione più o meno diffusa a questa o a quella confessione religiosa (sentenze nn. 925 del 1988, 440 del 1995 e 329 del 1997)» (così Corte cost., 20 novembre 2000, n. 508).

In tale contesto, credenti e non credenti si trovano «esattamente sullo stesso piano rispetto all’intervento prescrittivo, da parte dello Stato, di pratiche aventi significato religioso: esso è escluso comunque, in conseguenza dell’appartenenza della religione a una dimensione che non è quella dello Stato e del suo ordinamento giuridico, al quale spetta soltanto il compito di garantire le condizioni che favoriscano l’espansione della libertà di tutti e, in questo ambito, della libertà di religione» (Corte cost., 8 ottobre 1996, n. 334); mentre «valutazioni ed apprezzamenti legislativi differenziati e differenziatori» tra le diverse fedi, con diverse intensità di tutela, verrebbero ad incidere sulla pari dignità della persona e si porrebbero «in contrasto col principio costituzionale della laicità o non-confessionalità dello Stato» (Corte cost., 14 novembre 1997, n. 329).

Va infine rilevato che le numerose pronunce della Corte costituzionale in materia, se da un lato hanno riguardato questioni in cui si discuteva di una specifica prescrizione o imposizione normativa, d’altro lato hanno affermato un principio cardine, quello della laicità dello Stato, che trascende le singole vicende giuridiche.

7.3. Per completezza, va richiamato altresì l’articolo 9 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata il 4 novembre 1950 e ratificata con legge 4 agosto 1955 n. 848 che sancisce il diritto inviolabile «alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione».

Ad avviso di questo Collegio, tale norma internazionale – come altre di analogo tenore, quali la Convenzione dei diritti del fanciullo siglata a New York il 20 novembre 1989 e ratificata con legge 27 maggio 1991 n. 176 - nulla aggiunge o toglie a quanto già chiaramente stabilito dalla nostra Costituzione in ordine alla aconfessionalità dello Stato, ma ne costituisce una mera conferma.

7.4. La laicità dello Stato, derivante direttamente dai principi di eguaglianza e di libertà, costituisce un principio non solo nell’ordinamento italiano ma altresì in tutti i sistemi democratici occidentali; è interessante rilevare come le numerose pronunce giurisdizionali che in vari Paesi si sono occupate della legittimità della collocazione di simboli religiosi negli spazi pubblici e nelle scuole, pur nella diversità dei contesti normativi e sociali, hanno sempre affermato con forza la priorità del principio di laicità dello Stato, ovvero di neutralità rispetto a tutte le fedi religiose e alle convinzioni atee, e questo anche se l’esito di dette sentenze è stato il più vario.

Il principio supremo della aconfessionalità dello Stato è stato invero considerato come parametro di riferimento nella sentenza del Bundesverfassungsgericht del 16 maggio 1995, in quella della Corte costituzionale del Land Bavarese del 1 agosto 1997, nella sentenza del Tribunale federale svizzero del 26 settembre 1990, del Tribunale supremo di Spagna del 12 giugno 1990, ma anche in numerose pronunce di tribunali statunitensi, sia pure attinenti a simboli diversi dalla croce.

7.5. Il riferimento a decisioni giurisdizionali assunte in diversi ordinamenti fa desumere che il principio di laicità dello Stato faccia parte ormai del patrimonio giuridico europeo e delle democrazie occidentali, ma implica altresì che dalla sua applicazione nei casi specifici si possono trarre diverse conseguenze in relazione alla liceità dell’esposizione di simboli religiosi in luoghi pubblici.

7.6. Va aggiunto che altri concetti, pur richiamati dalle pronunce straniere e ripresi da una copiosa dottrina, non appaiono invece utilizzabili nella presente controversia: ad esempio, appare dubbia la possibilità di richiamare il concetto di laicità attiva quale contrapposta a quella cosiddetta passiva, anche perché tale distinzione appare di difficile configurazione nel nostro ordinamento costituzionale, che accanto alla libertà religiosa ammette anche il regime concordatario.

Allo stesso modo, non appare utilizzabile il concetto di simbolo attivo distinto da quello di simbolo passivo, richiamato in alcune sentenze degli Stati Uniti d’America, anche perché la differenziazione appare basata più sull’atteggiamento del ricettore, difficilmente determinabile a priori, che riferita alla natura del simbolo medesimo.

Infine, risulta impossibile trasporre nel nostro sistema il concetto di laicità francese, legato strettamente alla specifica storia di quel Paese e basato non già sulla neutralità dello Stato, ma su di una sua precisa scelta di valori.

7.7. Occorre appena aggiungere, per completezza, che trattandosi di applicare un principio di libertà, non può trovare ingresso il criterio dell’opinione della maggioranza ovvero di una minoranza oppure di un singolo (l’unica eccezione in Europa riguarda la legge austriaca del 1949, confermata dal Concordato del 1962, che collega l’esposizione della croce nelle scuole alla volontà della maggioranza degli alunni).

In tale questione quello che rileva è il vulnus eventualmente riscontrabile alla sfera giuridica anche di un solo soggetto; invero, la stessa Corte costituzionale, mutando un suo precedente orientamento che si richiamava al comune sentire della maggioranza, ha statuito che in tale materia non assume rilevanza alcuna il dato quantitativo dell’adesione più o meno diffusa a questa o a quella confessione religiosa (sentenze già citate nn. 925 del 1988, 440 del 1995, 329 del 1997 e 508 del 2000).

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8.1. Ciò premesso, va osservato innanzi tutto come il crocifisso costituisca anche un simbolo storico – culturale, e di conseguenza dotato di una valenza identitaria riferita al nostro popolo; pur senza voler scomodare la nota e autorevole asserzione secondo cui «non possiamo non dirci cristiani», esso indubbiamente rappresenta in qualche modo il percorso storico e culturale caratteristico del nostro Paese e in genere dell’Europa intera e ne costituisce un’efficace sintesi.

Difficilmente si può negare che la nostra tormentata storia sia impregnata - nel bene e nel male - di cristianesimo, né il mutare delle analisi storiche, né la stessa indiscutibile laicità dello Stato possono modificare il passato; anche se siamo chiamati a convivere con la nostra tradizione in maniera non certo passiva, ma dialettica, considerandola come sempre aperta ed in evoluzione, essa certo non risulta eliminabile con un atto di volontà sovrana o tramite una sentenza.

8.2. Va per completezza aggiunto che la citata legge n. 121 del 1985, fonte di diritto notoriamente rafforzata rispetto ad una legge ordinaria, recante la «Ratifica ed esecuzione dell’accordo, con protocollo addizionale firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede», all’articolo 9 dell’accordo medesimo riconosce espressamente che i principi cristiani «fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano», con un’affermazione di contenuto generale e non riferibile unicamente al contesto dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole.

8.3. Invero, se volessimo e potessimo considerare il crocifisso unicamente come simbolo storico – culturale, sarebbe agevole risolvere la questione giuridica che ne occupa, pervenendo ad un rigetto del ricorso, in quanto a tutta evidenza un segno che in qualche modo riassume alcuni rilevanti aspetti della nostra civiltà, della nostra cultura umanistica nonché della nostra coscienza popolare non lederebbe in alcun modo la laicità dello Stato e le finalità dell’insegnamento nella scuola pubblica e di conseguenza la sfera di libertà di ogni cittadino.

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9.1. Non ci si può tuttavia nascondere – sia per la valenza plurima che tale simbolo contiene, sia per un elementare rispetto della verità - che il crocifisso non può, oggi, essere considerato come un mero simbolo storico e culturale, nemmeno nel contesto scolastico, ma deve essere valutato anche come un simbolo religioso.

Peraltro, come sarebbe riduttivo e semplicistico considerare – sia pure a determinati fini – la croce quale mero segno storico e culturale, altrettanto riduttivo sarebbe correlare automaticamente e acriticamente la qualificazione di tale simbolo quale religioso con il divieto di collocarlo in un’aula di una scuola pubblica, almeno senza prima approfondire la sua particolare incidenza sul concetto di laicità, giuridicamente e costituzionalmente garantito, che si intende preservare e difendere.

9.2. A tale proposito va evidenziato come la croce vada intesa quale simbolo del cristianesimo, non già semplicemente del cattolicesimo, e quindi riassuma in sé oltre al cattolicesimo stesso anche i valori delle altre confessioni cristiane presenti nel nostro Paese, da quella valdese a quelle scaturite dalla riforma, da quelle ortodosse a quelle di più recente diffusione. Il richiamo alle confessioni religiose diverse da quella cattolica, un tempo maggioritaria nel Paese, non è casuale, in quanto nell’ambito di alcune di queste, segnatamente di quella valdese, l’affermazione del concetto di laicità dello Stato ha anticipato di decenni la stessa Costituzione repubblicana.

9.3. In sostanza, la croce è un simbolo in cui si possono identificare numerose (anche se probabilmente non tutte) confessioni religiose che si rifanno alla figura del Cristo e che, in certo qual modo, costituisce quindi anche il segno del loro comune denominatore; di conseguenza si può e deve escludere che essa vada riferita alle peculiarità di una soltanto delle varie denominazioni cristiane, nemmeno di quella cattolica.

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10.1. La croce quindi rappresenta il signum distintivo delle confessioni cristiane: orbene, posto che sarebbe ingenuo e inesatto considerare tutte le religioni uguali o simili nel loro nucleo essenziale, o anche semplicemente indifferenti rispetto allo Stato laico (basti considerare i problematici rapporti tra alcuni Stati e religione islamica, i cui esponenti spesso contestano la stessa laicità dello Stato), è necessario indagare come il cristianesimo si ponga rispetto ad alcuni valori giuridicamente sanciti dalla costituzione repubblicana, per valutare la compatibilità della collocazione di un simbolo cristiano in una scuola pubblica.

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11.1. A questo punto, pur consapevoli di incamminarsi su di un sentiero impervio e talvolta scivoloso, non si può fare a meno di rilevare come il cristianesimo e anche il suo fratello maggiore, l’ebraismo - almeno da Mosé in poi e sicuramente nell’interpretazione talmudica - abbiano posto la tolleranza dell’altro e la difesa della dignità dell’uomo, al centro della loro fede.

In particolare poi il cristianesimo – anche per il riferimento al noto e spesso incompreso «Date a Cesare quello che è di Cesare, e a…» - con la sua forte accentuazione del precetto dell’amore per il prossimo e ancor più con l’esplicita prevalenza data alla carità sulla stessa fede, contiene in nuce quelle idee di tolleranza, eguaglianza e libertà che sono alla base dello Stato laico moderno e di quello italiano in particolare.

11.2. Spingendo lo sguardo oltre la superficie, si individua un filo che collega tra di loro la rivoluzione cristiana di duemila anni fa, l’affermarsi in Europa del «habeas corpus», gli stessi elementi cardine dell’illuminismo (che pure storicamente si pose in vivace contrasto con la religione), cioè la libertà e la dignità di ogni uomo, la dichiarazione dei diritti dell’uomo e infine la stessa laicità dello Stato moderno; tutti i fenomeni storici indicati si fondano in modo significativo – anche se certamente non in via esclusiva - sulla concezione cristiana del mondo. E’ stato acutamente osservato che il noto «liberté, egalité, fraternité» costituisce un motto agevolmente condivisibile da un cristiano, sia pure con l’ovvia accentuazione del terzo termine.

In sostanza, non appare azzardato affermare che, attraverso i tortuosi e accidentati percorsi della storia europea, la laicità dello Stato moderno sia stata faticosamente conquistata anche (certamente non solo) in riferimento più o meno consapevole ai valori fondanti del cristianesimo; ciò spiega come molti giuristi di fede cristiana siano stati in Europa e in Italia tra i più strenui assertori della laicità dello Stato.

11.3 Invero, nella redazione della Costituzione repubblicana e nella fissazione dei principi di laicità dello Stato, ha avuto parte decisiva l’elemento culturale di ispirazione cristiana, come dimostrano senza ombra di dubbio gli stessi lavori della Costituente. In questa prospettiva storica, un doveroso richiamo va effettuato a un colto frate servita operante secoli fa nella Repubblica di Venezia, il quale, anticipando i tempi, delineò in un’epoca difficile i principi di libertà reciproca delle due sfere statale e religiosa e quindi proclamò contestualmente la laicità dello Stato e l’autonomia della religione.

11.4. Si può quindi convenire che la secolare contrapposizione tra Stato e Chiesa, oggi finalmente superata, abbia condotto a un principio comune e benefico per entrambe, la laicità dello Stato, espressione in un settore particolare del precetto di tolleranza contenuto nel kerygma della fede cristiana.

Libera Chiesa in libero Stato è divenuto oggi un valore condiviso e sancito giuridicamente, anche se il faticoso cammino compiuto per incardinarlo nei vari ordinamenti risulta diverso nelle varie nazioni d’Europa. Specificatamente, per quanto riguarda l’Italia, l’affermazione dell’indipendenza e sovranità reciproca dello Stato e delle chiese, ciascuno nel proprio ordine, risulta sancita per la chiesa cattolica dall’articolo 7 della Costituzione (ripreso, in una dizione significativamente simile, dalla costituzione conciliare Gaudium et spes, al n. 76) e per le altre confessioni dal successivo articolo 8.

11.5. Il legame tra cristianesimo e libertà implica una consequenzialità storica non immediatamente percepibile, un fiume carsico esplorato solo di recente proprio in quanto sotterraneo per gran parte del suo percorso, anche perché nella tormentata vicenda dei rapporti tra Stati e chiese d’Europa si riconoscono ben più agevolmente i numerosi tentativi di queste ultime di intromettersi nelle questioni statali e viceversa, così come alquanto frequenti sono stati l’abbandono dei pur conclamati ideali cristiani per ragioni di potere e infine le contrapposizioni talvolta violente tra governi e autorità religiose.

11.6. Peraltro, in una visione prospettica, nel nucleo centrale e costante della fede cristiana, nonostante l’inquisizione, l’antisemitismo e le crociate, si può agevolmente individuare il principio di dignità dell’uomo, di tolleranza, di libertà anche religiosa e quindi in ultima analisi il fondamento della stessa laicità dello Stato.

11.7. A saper mirare la storia, ponendosi cioè su di un poggio e non rimanendo confinati a fondovalle, si individua una percepibile affinità (non identità) tra il «nocciolo duro» del cristianesimo, che, privilegiando la carità su ogni altro aspetto, fede inclusa, pone l’accento sull’accettazione del diverso, e il «nocciolo duro» della Costituzione repubblicana, che consiste nella valorizzazione solidale della libertà di ciascuno e quindi nella garanzia giuridica del rispetto dell’altro. La sintonia permane anche se attorno ai due nuclei, entrambi focalizzati sulla dignità dell’uomo, si sono nel tempo sedimentate molte incrostazioni, alcune talmente spesse da occultarli alla vista, e ciò vale soprattutto per il cristianesimo.

11.8. Invero, se ci è consentita l’espressione, la consonanza tra le due sfere armoniche non riguarda affatto aspetti secondari, ma il fulcro rispettivamente della religione cristiana e dello Stato. Per il cristianesimo infatti il metodo, cioè la carità, prevale sui presupposti, cioè sulla fede, e sulle finalità, cioè sulla speranza, il che costituisce un unicum tra le religioni. Parallelamente, nelle democrazie mature, il metodo democratico prevale sui fini, per definizione mutevoli, e sui presupposti, ormai acquisiti al patrimonio dei consociati.

11.9. Si può quindi sostenere che, nell’attuale realtà sociale, il crocifisso debba essere considerato non solo come simbolo di un’evoluzione storica e culturale, e quindi dell’identità del nostro popolo, ma quale simbolo altresì di un sistema di valori di libertà, eguaglianza, dignità umana e tolleranza religiosa e quindi anche della laicità dello Stato, principi questi che innervano la nostra Carta costituzionale.

In altri termini, i principi costituzionali di libertà hanno molte radici, e una di queste indubbiamente è il cristianesimo, nella sua stessa essenza. Sarebbe quindi sottilmente paradossale escludere un segno cristiano da una struttura pubblica in nome di una laicità, che ha sicuramente una delle sue fonti lontane proprio nella religione cristiana.

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12.1. Questo Tribunale non ignora certo come nel passato si siano attribuiti al simbolo del crocifisso altri valori, quale, al tempo dello Statuto albertino, di segno del cattolicesimo inteso come religione di Stato, utilizzato quindi per cristianizzare un potere e consolidare un’autorità.

Si rende inoltre conto che ancor oggi del simbolo della croce si possono fornire diverse interpretazioni: innanzi tutto quella strettamente religiosa, sia riferita al cristianesimo in generale sia in particolare al cattolicesimo. E’ altresì consapevole che alcuni alunni frequentanti la scuola pubblica potrebbero liberamente e legittimamente attribuire alla croce valenze ancora diverse, come di inaccettabile preferenza data ad una religione rispetto ad altre, ovvero di un vulnus alla libertà individuale e quindi alla stessa laicità dello Stato, al limite di un richiamo al cesaropapismo ovvero all’inquisizione, addirittura di uno scampolo gratuito di catechismo erogato tacitamente anche ai non credenti in una sede non idonea o infine di propaganda subliminale in favore delle confessioni cristiane: si tratta di opinioni tutte rispettabili, ma in fondo non rilevanti nella causa in esame.

12.2. Infatti, nel valutare la questione senza cadere nel soggettivismo, giuridicamente e costituzionalmente non garantito al contrario della libertà individuale, (e quindi per non consentire che un solipsismo interpretativo venga, per utilizzare un’espressione consueta nel diritto amministrativo, oltremodo protetto), occorre necessariamente tener conto anche della realtà in cui operiamo, alla luce dell’attuale ordinamento costituzionale e del diritto vivente.

In altri termini, bisogna riferirsi ai fatti notori sottesi alla causa, i quali, nel peculiare caso in esame, riguardano anche alcuni aspetti sociali indiscutibili, tra cui rileva in primis la posizione di minorità assunta nella nostra società secolarizzata dai cittadini aderenti in maniera non superficiale ed epidermica alle varie fedi religiose (e a maggior ragione dai cristiani), il che rende plausibile e agevole la lettura di un simbolo quale la croce, ove collocato in un contesto scolastico, come segno culturale e anche religioso, ma interpretato nel limitato e non limitativo senso sopra indicato.

Invero, le recenti analisi sociologiche a livello europeo e italiano evidenziano un’evidente dissociazione tra pratica di fede, ormai minoritaria, e l’adesione ai valori secolarizzati del cristianesimo, che appare invece patrimonio largamente diffuso. Uno studioso dotato d’ironia, senso del paradosso e spirito di osservazione ha definito l’Europa di oggi come un continente pagano percorso da alcune superstizioni religiose.

12.3. Correlativamente, in virtù della stessa laicità dello Stato, va ribadita la necessità che nell’istruzione pubblica, che include la cosiddetta educazione civica, ci si richiami non solo alla storia ma anche ai valori democratici e laici della costituzione vigente e vivente. Il d.P.R. n. 104 del 1985, contenente i programmi scolastici, espressamente riproduce l’intero articolo 3 della Costituzione e di seguito, per quanto concerne la religione, aggiunge che: «La scuola statale non ha un proprio credo da proporre né un agnosticismo da privilegiare. Essa riconosce il valore della realtà religiosa come un dato storicamente, culturalmente e moralmente incarnato nella realtà sociale di cui il fanciullo ha esperienza ed, in quanto tale, la scuola ne fa oggetto di attenzione nel complesso della sua attività educativa, avendo riguardo per l’esperienza religiosa che il fanciullo vive nel proprio ambito familiare ed in modo da maturare sentimenti e comportamenti di rispetto delle diverse posizioni in materia di religione e di rifiuto di ogni forma di discriminazione».

12.4. In sostanza, nel momento attuale, il crocifisso in classe presenta una valenza formativa e può e deve essere inteso, sia come il simbolo della nostra storia e cultura e conseguentemente della nostra stessa identità, sia quale simbolo dei principi di libertà, eguaglianza e tolleranza e infine della stessa laicità dello Stato, fondanti la nostra convivenza e ormai acquisiti al patrimonio giuridico, sociale e culturale d’Italia.

12.5. Il segno della croce quindi va considerato - nella sua collocazione scolastica - anche come simbolo religioso del cristianesimo, non certo inteso nella sua totalità e quindi con tutte le sue implicazioni e sovrastrutture, ma nella misura in cui i suoi valori fondanti di accettazione e rispetto del prossimo - che ne costituiscono come visto le fondamenta e l’architrave - sono stati trasfusi nei principi costituzionali di libertà dello Stato, sancendo quindi visivamente e in un’ottica educativa la condivisione di alcuni principi fondamentali della Repubblica con il patrimonio cristiano.

12.6. Doverosamente va rilevato che il simbolo del crocifisso, così inteso, assume oggi, con il richiamo ai valori di tolleranza, una valenza particolare nella considerazione che la scuola pubblica italiana risulta attualmente frequentata da numerosi allievi extracomunitari, ai quali risulta piuttosto importante trasmettere quei principi di apertura alla diversità e di rifiuto di ogni integralismo – religioso o laico che sia - che impregnano di sé il nostro ordinamento. Viviamo in un momento di tumultuoso incontro con altre culture, e, per evitare che esso si trasformi in scontro, è indispensabile riaffermare anche simbolicamente la nostra identità, tanto più che essa si caratterizza proprio per i valori di rispetto per la dignità di ogni essere umano e di universalismo solidale.

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13.1. Per mero scrupolo di completezza, va aggiunto che l’esame del simbolo della croce effettuato sulla base della nota e accettata teoria della scienza semeiotica, secondo cui per individuare il significato di un simbolo, per sua natura polivalente, è indispensabile esaminare gli elementi che esso esclude piuttosto che quelli che include, porta ai medesimi risultati sopra delineati.

13.2. Invero, i simboli religiosi in genere implicano un meccanismo logico di esclusione; infatti, il punto di partenza di ogni fede religiosa è appunto la credenza in un’entità superiore, per cui gli aderenti, ovvero i fedeli, si trovano per definizione e convinzione nel giusto. Di conseguenza e inevitabilmente, l’atteggiamento di chi crede rispetto a chi non crede, che quindi si oppone implicitamente all’essere supremo, è di esclusione.

La distinzione verso l’in-fedele non viene espressa in nome proprio o del gruppo, ma addirittura in nome dell’onnipotente, il che costituisce un’eccezionale forza spirituale di aggregazione per i credenti, ma anche un formidabile pericolo, perché esprime la radice profonda di ogni integralismo religioso. In determinate circostanze storiche diventa quindi possibile la strumentalizzazione della religione, fino alla violenza e alle guerre condotte in nome del creatore, come ci insegnano il paradossale motto degli sgherri nazisti «Gott mit uns» e la stessa tragica cronaca di questi anni d’inizio secolo.

13.3. Il meccanismo logico dell’esclusione dell’infedele è insito in ogni credo religioso, anche se gli interessati non ne sono consapevoli; peraltro, con la sola eccezione del cristianesimo, ove ben compreso (il che ovviamente non è sempre avvenuto nel passato né avviene oggi, nemmeno ad opera di chi si proclama cristiano), il quale considera secondaria la stessa fede nell’onnisciente di fronte alla carità, cioè al rispetto per il prossimo. Ne consegue che il rifiuto del non credente da parte di un cristiano implica la radicale negazione dello stesso cristianesimo, una sostanziale abiura, il che non vale per le altre fedi religiose, per le quali può costituire al massimo la violazione di un importante precetto.

13.4. Il simbolo del cristianesimo - la croce - non può quindi escludere nessuno senza negare sé stessa; anzi, essa costituisce, in un certo senso, il segno universale dell’accettazione e del rispetto per ogni essere umano in quanto tale, indipendentemente da ogni sua credenza, religiosa o meno.

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14.1. Occorre appena aggiungere che la croce in classe rettamente intesa prescinde dalle libere convinzioni di ciascuno, non esclude alcuno e ovviamente non impone e non prescrive nulla a nessuno, ma implica soltanto, nell’alveo delle finalità educative e formative della scuola pubblica, una riflessione – necessariamente guidata dai docenti - sulla storia italiana e sui valori condivisi della nostra società come giuridicamente recepiti nella Costituzione, tra cui in primis la laicità dello Stato.

14.2. Per azzardare un paragone, nessuno potrebbe contestare il senso simbolico, inclusivo e assertivo – mutatis mutandis – dei versetti del Corano inneggianti alla misericordia divina esposti in bella evidenza nella sede dell’università statale di Tunisi – frequentata anche da cristiani, ebrei, indifferenti e atei - ovvero della mezzaluna che spicca nella bandiera della pur laica Turchia.

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15.1. Per rimanere nell’ambito dell’analogia testé cennata, il segno della croce che campeggia sulle bandiere di alcuni Paesi europei, come la Finlandia, la Svezia, la Danimarca, la Norvegia e l’Islanda, trova le sue origini storiche anche nel cristianesimo (principalmente nella sua confessione luterana e, per la sola Finlandia, pure ortodossa), ma ha perso da tempo ogni connotazione riferita allo stretto legame che un tempo esisteva tra quelli Stati e fede religiosa, per assumere quella di simbolo di nazioni che sono divenute profondamente laiche, senz’affatto rinnegare la loro storia cristiana, ma anzi sussumendone alcuni valori universali.

15.2. In altri termini, un cittadino finnico di fede baha’i o ateo o semplicemente indifferente, non si può certo sentire leso nella sua sfera di libertà dalla presenza nelle scuole pubbliche del suo Paese del simbolo nazionale, ancorché contenente una croce. Allo stesso modo, nell’attuale contesto culturale europeo, un cittadino greco, maltese, svizzero, inglese o slovacco può agevolmente e ragionevolmente individuare nella croce che spicca sulla sua bandiera, oltre che un riferimento alla propria storia e identità, anche un richiamo ai valori della democrazia laica.

Tornando in Italia, non si contano gli stemmi e gonfaloni degli enti locali che si richiamano esplicitamente alla simbologia cristiana, tra cui la bandiera ufficiale della regione del Veneto, esposta in innumerevoli uffici pubblici del suo territorio senza apparente turbamento di alcuno.

Il crocifisso costituisce sicuramente un simbolo diverso da una bandiera e inoltre in Italia l’evoluzione culturale non risulta altrettanto compiuta rispetto ai Paesi nordici, ovvero - più correttamente e per evidenti ragioni storiche - ne manca la piena consapevolezza, ma tuttavia la laicità dello Stato e i principi costituzionali di libertà appaiono universalmente accettati in modo tale da consentire una nuova e aggiornata considerazione del simbolo della croce.

***

16.1. Riassumendo e concludendo, il crocifisso inteso come simbolo di una particolare storia, cultura e identità nazionale - elemento questo immediatamente percepibile - oltre che espressione di alcuni principi laici della comunità – il che richiede invece un ragionevole sforzo interpretativo - può essere legittimamente collocato nelle aule della scuola pubblica, in quanto non solo non contrastante ma addirittura affermativo e confermativo del principio della laicità dello Stato repubblicano.

16.2. Per tutte le su indicate ragioni il ricorso va rigettato, anche se la parziale novità delle questioni e i condivisibili valori di libertà invocati da parte ricorrente inducono il Collegio a compensare le spese di giudizio tra le parti.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, terza sezione, respinta ogni contraria istanza ed eccezione, definitivamente pronunciando sul ricorso in premessa, estromesse dal giudizio l’associazione «Forum» nonché la A.Ge. (Associazione italiana genitori) di Padova,

lo rigetta.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Venezia, nella Camera di consiglio, addì 17 marzo 2005.

Il Presidente estensore

Il Segretario

Depositata in Segreteria il 22 marzo 2005