Medicina e religione

di Francesco D’Alpa

 

Quello fra medicina e religione è un rapporto lungo e complesso. Nel mondo antico le due pratiche pressoché coincidevano. Nei templi greci dedicati ad Asclepio si chiedeva agli dèi la guarigione ed i malati spesso effettivamente guarivano, anche se forse solo di mali minori, o anche di quei disturbi che oggi chiamiamo psico-somatici. Probabilmente erano spesso gli stessi sacerdoti ad intervenire (oltre che suggerendo pratiche di pietà ed atti cerimoniali) con terapie empiriche, sulla base del loro acume e della loro esperienza, sostituendosi segretamente agli dèi; ma il sacro silenzio imposto ai visitatori circa i riti praticati in quei luoghi era sufficiente ad occultare qualunque artificio o impostura. Nessun dubbio comunque sul fatto che erano le pratiche salutistiche, il digiuno e lo stato di esaltazione ad avere un potente effetto curativo (diretto o adiuvante) sugli organismi malati. Di fatto, questa confusione fra empirismo, affidamento agli dèi e probabilmente anche ciarlataneria rese ineludibile l’associazione fra guarigione ed intervento divino, al punto da fare ritenere a Giamblico che l’arte stessa della medicina era stata appresa attraverso sogni profetici e di indurre Filostrato a scrivere (nella sua Vita di Apollonio) che il più grande servizio della divinazione è la medicina. Non a caso Ippocrate proveniva da una famiglia di sacerdoti-medici e si era votato al culto di Esculapio, di cui pretendeva essere un discendente. Ma anche in altre culture antiche, quali soprattutto l’egizia, dominavano le stese idee e gli stessi sentimenti. Nel mondo romano, l’imperatore Giuliano affermava di essere guarito più volte dopo sogni curativi. La medicina dei popoli mesopotamici era innanzitutto sacerdotale e magica, essendo le malattie ritenute opera dei demoni: individuato il responsabile, lo si affrontava con pozioni, talismani e sortilegi.

Lo stretto rapporto fra religione e malattia ha nella Bibbia ebraica una sua peculiare ragione d’essere: l’idea di malattia è strettamente legata a quella della caduta originaria provocata dal peccato di Adamo ed Eva. Alcune malattie, la lebbra in particolare, generano impurità religiosa e sono motivo di esclusione sociale. In mancanza (almeno fino ad un certo periodo) di prospettive ultraterrene, la salute corporale è per gli ebrei (ossessionati dal rapporto fra peccato, impurità e malattia) uno dei premi attesi da Dio, a merito della propria virtù e fedeltà. I sacerdoti sono praticamente i soli ad amministrare la pratica medica. L’idea di fondo non muta sostanzialmente nel cristianesimo che vede in Gesù un medico del corpo quanto dell’anima, i cui miracoli sono soprattutto medici. Sotto certi aspetti, rispetto a quello greco, nel mondo cristiano si colgono certo delle differenze importanti; i padri della chiesa non negano ad esempio l’esistenza dei sogni di guarigione, ma più facilmente li attribuiscono ai demoni. Ciò comunque non muta più di tanto il rapporto fra malattia e soprannaturale.

Per secoli né la medicina (che andava costruendosi un proprio autonomo apparato dottrinario) né la religione hanno potuto rispondere convincentemente alla domanda: cos’è la malattia? Ed in subordine, come la si cura? Ma i tentativi di svelare il mistero (ed eventualmente di modificare il corso delle malattie) sono sempre stati alquanto differenti: soprattutto empirismo da un lato, fede e preghiere dall’altro (eventualmente con reciproca assistenza, vista la prevalenza di medici-credenti e di preti-guaritori). Un dato fra tutti, però, differenzia sensibilmente i due approcci, ovvero il costituirsi dell’arte medica (al pari di tutte le altre scienze naturali) come “scienza cumulativa”, ovvero scienza le cui nuove acquisizioni nella maggior parte estendono ed integrano quelle precedenti, la cui validità resta sostanzialmente immutata; laddove invece le “scienze” religiose o restano ciecamente ancorate agli inattuali paradigmi originari, o hanno inopinati stravolgimenti e, sostanzialmente, difettano sempre di verifiche sperimentali. Cosa che comunque non impedisce ai religiosi di “interpretare” i fatti osservati, pur non potendone spiegare convincentemente le supposte “cause” soprannaturali. Ciò si verificava quasi sempre in passato anche nel dominio della malattia; ma queste interpretazioni in chiave teologica sono divenute nei secoli sempre più improponibili.

Esemplificativo di questo difficile rapporto, tanto per citare un clamoroso esempio, è quanto avvenne in occasione delle due celebri epidemie di peste (concepite ovviamente come flagelli divini) che interessarono Milano nel 1576-1577 e nel 1630. La prima colpì la città nel mentre vi si registrava un considerevole afflusso di fedeli a motivo dell’estensione a Milano del Giubileo romano del 1575. Per ottenere che il morbo si placasse, l’arcivescovo Carlo Borromeo, organizzò una processione a piedi nudi al seguito di una reliquia del Santo Chiodo e secondo i credenti il cielo rispose favorevolmente. Confidando in questo precedente, di fronte al terribile propagarsi di una nuova epidemia nel 1630, il cardinale Federico Borromeo non seppe proporre di meglio che affidarsi nuovamente al soprannaturale. Ma l’imponente processione da lui guidata per le vie di Milano, quel fatidico martedì 11 giugno del 1630, ebbe stavolta l’effetto devastante di diffondere ancora di più il contagio; l’irrazionalità religiosa si mutò in superstizione e da lì ebbe inizio, come ben sappiamo, la caccia agli untori.

L’incapacità, tanto della medicina quanto della religione, di dare (se non in parte e comunque per lo più negli ultimi due secoli) una risposta efficace al desiderio di essere curati dalle malattie ha un ovvio presupposto: la mancanza di conoscenze appropriate sulle loro cause e sul funzionamento del corpo: una lacuna che non nuoce alla religione, in quanto essa affida a Dio il compito di provvedere, ma che ha condizionato l’approccio medico. Può sembrare inverosimile, ma sono passati meno di due secoli da quando si è cominciato a capire come e perché realmente le malattie possono dipendere da un malfunzionamento degli organi interni e da quando, individuando i responsabili infettivi di molte malattie, si sono definitivamente rigettate le credenze su influenze astrali e similaria. Eppure, nonostante ciò, l’idea che esistano cause soprannaturali di malattia (interpretate per lo più come punizioni o flagelli divini) e che parimenti esistano meccanismi soprannaturali di guarigione era ancora ben viva poco più di qualche decennio orsono e persiste ancora in certi ambienti religiosi. La questione era del tutto aperta fino al XV-XVI secolo, epoca nella quale si immaginava ancora, anche in ambito scientifico-razionale, una assoluta permeabilità fra natura e sopranatura, di cui persistono certamente ancora tracce nella credenza all’azione patogena del demonio ed all’efficacia dell’esorcismo (cose di cui il cristianesimo di facciata non ama parlare troppo).

Paradossalmente, espulsa dalla biologia, la religione si riaffaccia oggi nella cultura medica colonizzando l’ambito della discipline più recenti, bioetica in testa, mescolando abilmente (ma anche illogicamente) vecchi e nuovi paradigmi. Confrontare testi medico-
religiosi di solo pochi decenni orsono con quelli attuali è un’esperienza illuminante: nei primi si parla soprattutto dei rapporti fra anima e corpo (in particolare in relazione alle problematiche del concepimento e della morte), dell’azione patogena del peccato, dell’effetto curativo della pratica religiosa, dei fenomeni corporei di origine soprannaturale: argomenti praticamente inesistenti nei trattati più moderni, dove dominano i temi della bioetica, solo in parte peraltro contestualizzati rispetto alla tradizione dogmatica; uno per tutti l’esempio dei temi “fine vita” ed “eutanasia” del tutto slegati dall’ipotesi di una sopravvivenza nell’aldilà (che pure dovrebbe essere la prima e forse unica preoccupazione del credente).

Poco più di cinquant’anni orsono era ancora possibile leggere affermazioni come questa: «Voler occuparsi di medicina senza interessarsi di metafisica è così impossibile, come fare della chimica senza preoccuparsi della fisica […] La medicina atea non può essere uguale alla medicina cattolica; l’accettare o negare l’esistenza dell’anima, l’esistenza di esseri soprannaturali che possono agire spiritualmente o materialmente su di noi, muta la morfologia, la fisiologia, la patologia, la terapeutica, la deontologia» (Bon H., Medicina e religione, ed. it. Marietti, Roma 1940). Non so quale autore cattolico sottoscriverebbe ciò oggi.

Sono certamente lontani i giorni in cui il celebre chirurgo Ambroise Paré (1510-1590) affermava in buona coscienza, dopo avere ideato una nuova importante procedura chirurgica, «io l’ho pensato, Dio l’ha guarito». Due secoli dopo Jacques-Joseph de Gardanne (1726-1786), poteva già sostenere, con altrettanta convinzione «si è ingiusti verso l’arte (medica) attribuendo tutte le guarigioni alla natura» (oppure, possiamo aggiungere, agli dèi). Era già avvenuto con l’astrologia, stava per avvenire con la chimica. Fuori dunque gli dèi dalle scienze e sguardo rivolto ai soli processi “naturali”, giacché la guarigione (come la malattia) non può essere dovuta che alla natura ed in ogni caso si relaziona sempre (e solo) con lo stato del malato stesso.

Da L’ATEO 4/2013