Eutanasia legale, una battaglia laica

di Raffaele Carcano

 

La morte è un elemento inevitabile di ogni esistenza. In esseri coscienti e senzienti quali siamo, è altrettanto inevitabile che sia sempre stata al centro di molte riflessioni: quelle dei miliardi di homines sapientesche hanno popolato questo pianeta e quella delle innumerevoli comunità in cui si sono riuniti nel corso della storia. Nonostante sia sempre stato evidente che la morte è un confine fisiologico oltre il quale non è possibile andare, l’essere umano ha ininterrottamente ragionato non solo su un eventuale Oltre, ma anche — e forse assai più spesso — sul qui, su quello che precede la morte e sul momento con cui si concretizza il decesso.

In particolare, è sempre stato vivo il confronto sulla possibilità di disporre della propria vita. Con buona pace della Chiesa cattolica, solo assai raramente le società umane hanno concepito l’idea che la vita appartiene a Dio. Con buona approssimazione, si può anzi sostenere che tale concezione sia sostanzialmente limitata alle religioni monoteiste. Le culture antiche, ma ancora oggi quelle orientali, giudicano generalmente sia il rifiuto delle cure, sia il suicidio con accenti che, se proprio non vogliamo chiamarli “positivi”, possiamo quantomeno definire “rispettosi”.

Proprio qui risiede però un’importantissima differenza con la modernità disincantata. Spesso, sia nell’antichità classica sia, per esempio, in Giappone, la rinuncia alla vita non era un atto libero, quanto la — anche qui — “inevitabile” decisione da prendere nelle circostanze in cui si trovava l’individuo. Codici non scritti, e pur tuttavia pienamente vigenti, lo spingevano — e talvolta lo spingono ancora — al gesto estremo. Lo stesso accadeva per la rinuncia alla vita: gli anziani nomadi si lasciavano morire, quando non riuscivano più a reggere il ritmo del gruppo di cui facevano parte. E non diversamente accade ancora oggi a Varanasi.

Una questione di accettabilità sociale. I gesti di cui parliamo qui riguardano invece esclusivamente libere scelte da parte di individui in condizioni non più sopportabili, o in previsione di eventuali future condizioni non più tollerabili. È una sorta di rivoluzione copernicana esclusiva di quella che, poche righe fa, ho chiamato la modernità disincantata. Che non a caso è sorta in seguito a una rivoluzione, quella francese, che ha trasformato i sudditi in cittadini e ha riconosciuto diritti all’uomo e non più alla casta sociale di cui faceva parte.

La modernità disincantata si caratterizza per porre l’accento sulla qualità della vita, non sulla sua quantità. Per la disponibilità della vita, non per un concetto che la fa ritenere proprietà di Dio (un concetto ben strano, quello di dono che non si può rifiutare). E per l’assenza di divieti, non per dogmi da rispettare. Vi è un autentico spartiacque tra chi rispetta l’autodeterminazione dell’individuo e chi la rifiuta. E attenzione, la divisione non corre tra credenti e non credenti, ma tra laici e clericali. Perché anche tanti credenti sono stufi di leader religiosi che si intrufolano nei loro letti e nelle stanze degli ospedali. E perché non può essere definito in altro modo che “clericale” chi ancora rifiuta i valori affermatisi da oltre due secoli, pretendendo di attribuire a qualcuno la facoltà di decidere sulle vite altrui.

Ricordiamolo ancora una volta: per la Chiesa cattolica l’alimentazione e l’idratazione artificiale rappresentano un obbligo. E ribadiamolo ancora una volta: è una posizione assolutamente legittima, se espressa nei confronti dei soli fedeli. Ma quando si pretende di applicarla anche a chi fedele non è, si traduce in un auspicio totalitario. E chi si fa portavoce politico di tali dottrine e le applica, dimostra di non aver ben compreso (o di averli compresi, rifiutandoli coscientemente) cosa significano parole come democrazia, laicità, libertà, civiltà. E nella legislatura appena conclusa sono stati tanti: Lega, Pdl, Udc, parte del Pd.

E ricordiamo ancora una volta anche il corollario di queste dottrine. Ricordiamo chi fa meschinamente leva sulla paura dei malati. Ricordiamo chi fa credere loro che la malattia è una sorta di punizione e il dolore un’opportunità escogitata da Cristo perché sia imitato. Non dimentichiamo che, quando ci si trova coinvolti in prima persona, c’è chi fa scelte diverse rispetto a quelle professate (i casi di Giovanni Paolo II e del cardinal Martini dovrebbero insegnare qualcosa). Non dimentichiamo nemmeno che, pur di introdurre nella legge le proprie credenze di parte, si è arrivati a cambiare significato al testamento biologico, stravolgendolo completamente e rendendolo privo di qualunque efficacia.

C’è chi lotta contro “sacrosanti” diritti basando le proprie sedicenti argomentazioni su testi sacri scritti prima dell’introduzione delle moderne tecnologie che permettono di prolungare artificialmente la vita. E c’è ancora in giro persino qualcuno che pretende che la legge non solo si adegui alle proprie convinzioni, ma che sanzioni chi la pensa diversamente.

È curioso che siano gli atei e gli agnostici, persuasi della finitezza dell’esistenza, a rivendicare il “diritto di morire” e che siano i cattolici, credenti in una vita ultraterrena, a voler imporre il “dovere di vivere”. Ma è una bizzarria solo apparente, dovuta al fatto che i primi conferiscono un maggior valore alla libertà individuale, i secondi all’appartenenza confessionale. La stragrande maggioranza dei non credenti ritiene che per “vita” occorre considerare quella biografica e non quella biologica (se priva di coscienza). Così come la libertà di religione include il diritto di non averne alcuna (ma bisogna lottare per farselo riconoscere), anche la libertà di essere curato include il diritto di non esserlo (e bisogna lottare per farselo riconoscere).

“Questa non è vita” è ormai una constatazione ascoltata tante volte, di fronte a un malato in stato terminale. L’uomo del nostro tempo vuole, con ragione, dire la sua sulla propria esistenza. Peter Singer ha giustamente sottolineato come “per molte persone gravemente malate, il modo migliore di soddisfare il proprio desiderio di controllare la morte prevede l’assistenza di un medico. È per questo che l’etica tradizionale non riuscirà mai a soddisfare l’attuale domanda di controllo sulle modalità della propria morte”. Ma c’è una plateale differenza di condizione tra chi può anticipare la propria morte suicidandosi o rifiutando le cure e chi non può farlo. Ricordate il Nobel per la fisica Percy Bridgman? Nello stadio terminale di un cancro, si suicidò sparandosi un colpo di pistola e lasciando un messaggio con queste parole: “Non è decente che una società costringa un uomo a fare questa cosa da sé. Probabilmente questo è l’ultimo giorno in cui sono in grado di farlo da me”.

Trovarsi in situazioni del genere è terribile. E non deve più accadere. E che non debba più accadere lo pensano in tanti, non soltanto i non credenti. Se, come attesta l’Eurispes, due italiani su tre sono favorevoli alla legalizzazione dell’eutanasia, vuol dire che tanti credenti (forse la maggioranza stessa dei credenti) la pensano come noi. Circostanza peraltro attestata anche, in via indiretta, dall’estensione della pratica nelle corsie degli ospedali. Un fenomeno diffuso, ma di cui non si deve parlare.

La richiesta del riconoscimento del testamento biologico e dell’eutanasia legale non sono dunque un bizzarro impulso nichilistico, ma si inseriscono in un più ampio ventaglio di richieste legate all’autodeterminazione, come i diritti riproduttivi o quelli sessuali. Sono tutte richieste legate alla libertà di scelta e sono tutte questioni su cui ci si divide più o meno allo stesso modo. Ma sono anche tutti diritti — ribadiamolo ancora una volta, diritti umani: dei cittadini che desiderano costruirsi la propria vita, delle persone consapevoli che sanno di sapere qual è la scelta giusta per loro, degli uomini e delle donne che non intendono cedere sovranità né sul loro corpo né sulla loro mente. È al loro fianco che ci stiamo impegnando. Sappiamo di lottare insieme a decine di milioni di persone a cui il legislatore deve saper dare le risposte che attendono.

Non sarà facile vedere riconosciuto il diritto di morire: in Italia siamo ormai specializzati nell’approvare leggi soltanto quando, altrove, i loro contenuti sono ritenuti obsoleti. L’eutanasia è un tema tabù per tanti; tanti altri la considerano una battaglia non prioritaria. Proprio per questo riteniamo importante cominciare a porre la questione all’ordine del giorno. È il primo passo, il successo della raccolta di firme è il primo passo per cercare di fare in modo che il parlamento ne discuta. Con l’impegno di tutti ce la potremo fare.

 

Intervento letto l’11 aprile 2013 a Torino, durante la presentazione della raccolta di firme www.eutanasialegale.it per il progetto di legge che chiede la legalizzazione dell’eutanasia e del testamento biologico.

Da L’ATEO 4/2013