Sull’uso sbagliato del termine “eugenetica”

da Angelo Abbondandolo, I figli illegittimi di Darwin, Nessun Dogma 2012

 

L’eugenetica è basata sull’uso sbagliato della genetica, ma c’è anche chi fa un uso sbagliato del termine eugenetica. Nel febbraio del 2008 ci fu un brutto episodio di cui s’interessarono molto i media: il blitz delle forze dell’ordine in un ospedale napoletano dove una donna attendeva un intervento di interruzione di gravidanza. Al feto era stata diagnosticata la sindrome di Klinefelter, una grave sindrome a base cromosomica. Un noto giornalista sostenne in quell’occasione che le forze dell’ordine stavano giustamente impedendo un intervento di eugenetica.

Come abbiamo visto, lo scopo dell’eugenetica è che l’intervento umano, sia esso la soppressione delle persone con difetti fisici o psichici o la sterilizzazione dei portatori, abbia come risultato la diminuzione dei geni responsabili di quei difetti nelle generazioni future, fino — si proponevano i sostenitori di questa sciagurata teoria — alla loro scomparsa dal patrimonio genetico della specie. L’interruzione di gravidanza non ha niente a che fare con tutto questo. Un eminente genetista, Luigi Luca Cavalli-Sforza, ha scritto che «la previsione di malattia genetica del nascituro e la successiva interruzione di gravidanza non sono operazioni eugeniche, ma semplicemente un trattamento profilattico» perché per questa via «non si diminuisce la frequenza della malattia nel futuro». Il motivo è che i nati con gravi difetti genetici hanno di solito una fitness molto bassa, cioè contribuiranno poco o niente con i propri geni alle generazioni successive (Luca e Francesco Cavalli-Sforza, Chi siamo, Oscar Mondadori, Milano 1993). Nel caso specifico della sindrome di Kleinefelter poi, la ragione per rifiutare il termine eugenetica è duplice: primo, queste persone, essendo sterili, hanno fitness zero, secondo, la sindrome è causata da un difetto, sì, genetico (uno o alcuni cromosomi X in più), ma non ereditario. È un difetto che non è presente nei genitori, ma è frutto di un errore che si verifica occasionalmente nel corso della formazione dei loro gameti: non c’è di mezzo un gene mutato che possa essere trasmesso ai figli. Se un tiranno ordinasse di uccidere tutti i Down, tutti i Klinefelter e tutti i Turner, la probabilità che ne nascano altri nelle generazioni successive non diminuirebbe di una virgola.

Allora perché parlare di eugenetica in casi come questo? Le risposte possibili sono due: per ignoranza o per avvalorare un pregiudizio. Il termine eugenetica ha una forte connotazione negativa, è emotivamente highly disturbing, evoca immediatamente le atrocità compiute dai nazisti, e dunque aiuta a rendere accettabile il punto di vista che si vuol difendere.

L’esempio che ho citato non rappresenta un caso isolato: il termine eugenetica è stato usato in tempi recenti in Italia da uomini politici ed esponenti cattolici per etichettare in modo negativo alcune procedure della procreazione assistita e, in particolare, la diagnosi preimpianto dell’embrione. Com’è noto, si tratta di una tecnica che permette d’identificare la presenza di malattie genetiche o di alterazioni cromosomiche in embrioni ottenuti in vitro da coppie ad alto rischio riproduttivo, in una fase molto precoce dello sviluppo, prima che l’embrione si impianti nella parete dell’utero1. La diagnosi preimpianto non è dunque diversa, nei suoi scopi, dalle tecniche tradizionali di diagnosi prenatale, l’amniocentesi e l’analisi dei villi coriali, ambedue legali e praticate da moltissimo tempo anche in Italia, eppure la legge italiana l’ha vietata per diversi anni. A differenza delle tecniche tradizionali, la diagnosi preimpianto permette di evitare il ricorso all’aborto terapeutico, spesso devastante dal punto di vista psicologico (l’amniocentesi si effettua dopo la sedicesima settimana di gravidanza e l’analisi dei villi coriali verso l’ottavadecima settimana).

La diagnosi preimpianto, ovviamente, è praticabile solo nei casi in cui si ricorra alla fecondazione in vitro, pratica clinica che è solo una delle possibilità offerte dalla procreazione assistita e che ha ormai oltre trenta anni di vita. Alle 23,45 del 25 luglio 1978 nasceva ad Oldham, in Inghilterra, Louise Brown, una bambina di cinque chili, la prima nata grazie alla fecondazione in vitro. Nove mesi prima, il chirurgo Patrick Steptoe aveva praticato un’incisione di 2 cm sull’addome di Lesley Brown, introdotto un laparoscopio per esaminare l’ovario e prelevato una cellula uovo. Il dottor Robert Edwards2 depose quest’uovo in una piastra di coltura insieme al seme del padre di Louise. Dopo due giorni e mezzo d’incubazione, l’uovo fecondato in vitro, e diventato ormai embrione di poche cellule, fu reintrodotto nell’utero di Lesley perché potesse impiantarsi. Per la prima volta, dopo circa 80 tentativi falliti, eseguiti nei nove anni precedenti, la procedura ebbe successo (Cummings, 2004). Attualmente negli Stati Uniti la procreazione assistita è praticata in circa 500 cliniche e, al 2008, più di 61.000 bambini hanno iniziato la propria vita in una piastra di coltura. Per vedere ora in cosa consista la diagnosi preimpianto, riandiamo ad una vicenda di venti anni fa.

All’inizio degli anni Novanta, i genitori di un bambino affetto da fibrosi cistica, una grave malattia genetica recessiva, desiderando un secondo figlio e avendo appreso che la malattia avrebbe potuto ripresentarsi nel secondo figlio con una probabilità di uno su quattro, decisero di ricorrere alla fecondazione in vitro. Sei oociti furono prelevati e fecondati in vitro; dopo tre giorni, quando gli embrioni erano allo stadio di 6-10 cellule, fu separata una cellula da ciascun embrione ed il suo DNA fu analizzato per la presenza della forma mutata del gene CFTR, responsabile della fibrosi cistica. Ricordiamo che noi portiamo nelle nostre cellule due copie di ciascun gene. Tre embrioni risultarono avere ambedue le copie del gene in forma mutata, due portavano due copie normali ed uno portava una copia mutata ed una normale (eterozigote). Un embrione con ambedue le copie normali e quello eterozigote furono trasferiti nell’utero della madre, dove s’impiantò solo l’embrione con le due copie normali. Nove mesi più tardi la madre partorì una bambina sana di 3 chili e mezzo. L’analisi genetica confermò che la bambina non portava alcun allele mutato del gene CFTR (Cummings, 2004).

Tornando al nostro Paese, la prima bambina “in provetta”, Alessandra, nacque nella clinica Villalba di Napoli l’11 gennaio 1983. E qualche anno più tardi, il 24 ottobre 1997 nasceva, in un ospedale pubblico della Lombardia, Giovanni, il primo bambino frutto di fecondazione in vitro ottenuta con la microiniezione, cioè iniettando sotto il microscopio, con un sottilissimo ago di vetro, uno spermatozoo in un oocita. La tecnica era stata messa a punto dal professor Carlo Flamigni dell’Università di Bologna. Da allora, il numero di bambini nati con tecniche di procreazione assistita è andato crescendo di anno in anno: sono stati 5.000 nel 2005, 7.500 nel 2006, 9.000 nel 2007, 10.000 nel 2008. Il Registro Nazionale della PMA (Procreazione Medicalmente Assistita), istituito nel 2005 in attuazione all’art. 11 della legge 40/2004, riporta un elenco, regione per regione, di 353 centri autorizzati, tra pubblici e privati. Anche se la sua principale applicazione è nei casi di sterilità di coppia, la fecondazione in vitro viene da anni usata in molti Paesi, in combinazione con la diagnosi preimpianto, per evitare la nascita di bambini con malattie genetiche. Ho riportato sopra l’opinione di un eminente genetista, ampiamente condivisa dalla comunità scientifica, sul fatto che la previsione di malattia genetica e le decisioni prese in base ad essa, non siano eugenetica, ma profilassi. Non tutti però, la pensano allo stesso modo. Sarebbe già tanto, a mio avviso, se le opinioni, che ciascuno di noi ha il diritto di professare, venissero espresse sulla base di una informazione corretta. Purtroppo, tuttavia, non è raro che si cerchi di avvalorare un’opinione con argomentazioni intese a creare falsi allarmi. Taluni, ad esempio, hanno sostenuto che l’indagine genetica sugli embrioni apra la via alla creazione di embrioni a scopo di ricerca. In realtà, uno sguardo alla legislazione internazionale ci dice che, con l’unica eccezione del Regno Unito3, tutti i Paesi che si sono dotati di leggi in materia hanno affermato il divieto di creare embrioni per esigenze di ricerca scientifica. La situazione è diversa per quanto riguarda la ricerca sugli embrioni soprannumerari (quelli cioè creati in eccesso durante le pratiche di fecondazione in vitro), dove le posizioni si dividono tra il sì (Svezia, Francia, Spagna, Regno Unito, Australia Meridionale) e il no (Norvegia, Austria, Germania, Victoria, Italia) (Comitato Nazionale per la Bioetica, 1992). Altri hanno agitato lo spettro di scenari alla Brave New World di Huxley, insinuando il timore di “supermercati dei bambini” dove i genitori possano ordinarsi un figlio, o una figlia, con gli occhi verdi e i capelli rossi. Il fatto che la comunità scientifica ritenga queste ipotesi ridicole (oltre che irrealizzabili, allo stato delle nostre conoscenze) non scoraggia coloro che le propongono.

Tutto ciò detto e ricordato, la buona notizia è che una sentenza della Corte Costituzionale, la nr. 151 dell’8 maggio 2009, nel dichiarare illegittime alcune delle restrizioni contenute nella Legge 40, ha introdotto, tra l’altro, una deroga al divieto di crioconservazione degli embrioni «al fine di tutelare lo stato di salute della donna». Questa sentenza ha avuto come effetto la riapertura alla diagnosi genetica preimpianto, dal momento che i pazienti hanno ora il diritto di essere «informati, su loro richiesta, sullo stato di salute degli embrioni prodotti e da trasferire nell’utero»4. È comunque vietata, dice la sentenza, «ogni diagnosi preimpianto a finalità eugenetica». Ecco fatto: era così difficile prendersi cura della salute delle persone senza per questo scivolare sul famoso “piano inclinato” dei (finti) catastrofisti, fautori del “se si comincia così, dove si andrà a finire?”.

La sentenza della Corte Costituzionale lasciava in realtà ancora qualche spazio ad interpretazioni diverse, ma, il mese successivo, il Tribunale di Bologna offriva un contributo decisivo alle nebbie interpretative del linguaggio giurisprudenziale. Con ordinanza del 29 giugno 2009, i giudici di Bologna, nell’accettare il ricorso presentato da una coppia nella quale la donna era portatrice sana di una grave patologia genetica, la distrofia muscolare di Duchenne, autorizzava la diagnosi preimpianto. Nella sentenza si legge anche che “la diagnosi preimpianto può essere fatta anche per coppie che non hanno problemi di sterilità”. È stata lunga, ma ci siamo arrivati anche da noi: la diagnosi preimpianto non è eugenetica. Se riusciamo a convincerne anche il famoso giornalista rammentato sopra, è fatta.

 

Note

  1. Nella Dichiarazione Universale sul Genoma Umano e i Diritti Umani dell’UNESCO si legge, al secondo comma dell’art. 17: «[Gli Stati] dovrebbero incoraggiare le ricerche destinate ad identificare, a prevenire e a curare le malattie di natura genetica o quelle influenzate dalla genetica, in particolare le malattie rare come pure le malattie endemiche che colpiscono una parte importante della popolazione mondiale». Dunque è oggetto di specifica raccomandazione da parte dell’Assemblea Generale dell’UNESCO l’attenzione non solo alla cura, ma alla identificazione e alla prevenzione delle malattie genetiche. Val la pena notare che la Segreteria di Stato della Santa Sede, in un documento del 24 maggio 1998, osservava: «L’art. 17 incoraggia gli Stati a sviluppare le ricerche tendenti, tra l’altro, a “prevenire” le malattie genetiche. Occorre tener presente che la “prevenzione” può essere intesa in vari modi. La Santa Sede è contraria a strategie di depistaggio di anomalie fetali orientate ad una selezione dei nascituri in base a criteri genetici».

  2. Quello stesso Edwards che ha ricevuto il Nobel per la medicina il 4 ottobre 2010 per i suoi contributi fondamentali agli studi che hanno permesso, ad oggi, la nascita di oltre quattro milioni di bambini nel mondo.

  3. La Legge 1990 del Regno Unito prevede, al di là dell’uso di embrioni soprannumerari, che possa essere autorizzata la formazione di embrioni in vitro per fini di ricerca, purché siano rispettate una serie di norme che la Legge specifica in dettaglio (Comitato Nazionale per la Bioetica, 1992).

  4. Già prima, il TAR Lazio, con sentenza 398/08 (nella quale venivano sollevate le questioni di legittimità poi accolte dalla Corte Costituzionale) dichiarava anche illegittimo il divieto di diagnosi preimpianto.

 


 

Angelo Abbondandolo è nato a Napoli nel 1939. Ha iniziato la sua carriera scientifica a Pisa, dove si è laureato con una tesi in Genetica. È stato professore ordinario di Genetica all’Università di Genova e ha svolto attività didattica e di ricerca in Italia e all’estero (L’Avana, Parigi, Edimburgo, L’Aia). Da quando è in pensione si dedica alla divulgazione di tematiche che riguardano la genetica e l’evoluzione, attraverso conferenze e articoli su riviste non specialistiche, come Sapere e L’Ateo.

Da L’ATEO 6/2012