Del buon uso delle prove

Come la scienza moderna ha inventato la libertà e l’autonomia sottraendo spazio alla religione

di Gilberto Corbellini

 

Quasi due secoli fa, il 13 febbraio 1819, Benjamin-Henri Constant de Rebecque teneva all’Athenée Royal di Parigi il famoso Discorso sulla libertà degli Antichi paragonata a quella dei Moderni. Quel testo è giustamente considerato una delle più lucide e alte formulazioni del pensiero liberale. In esso si dice che la libertà dei moderni è la “libertà individuale”, mentre quella degli antichi era la libertà di esercitare collettivamente la sovranità. Constant scriveva che gli antichi erano “macchine di cui la legge regolava le molle e faceva scattare i congegni”. I moderni, dopo Locke e Spinoza, usano la legge per circoscrivere lo spazio di espressione di un’autonomia, a priori indefinita ma, e questa è la differenza cruciale, collocata non più nel foro pubblico bensì in quello cosiddetto “interiore” o individuale. La funzione della legge cambia e non si tratta più di prescrivere quello che un cittadino deve fare, ma quello che può fare. In questo senso, la legge diventa il presupposto, uso le parole di Constant, per “il pacifico godimento dell’indipendenza privata”.

Constant esponeva quella che sarà chiamata la teoria della libertà liberale, dove per libertà s’intende il diritto di essere sottoposto soltanto alla legge, quindi di non essere arrestato, né tenuto in carcere, né condannato a morte, né maltrattato per la volontà arbitraria di uno o più individui. Inoltre, la libertà liberale implica il diritto di esprimere la propria opinione, di scegliere il proprio lavoro e di esercitarlo, di disporre ed abusare della propria proprietà, di associarsi con chi si preferisce e di esercitare la propria influenza sull’amministrazione del governo. Quello che non sempre viene ricordato è che Constant aveva un forte interesse per la religione e riteneva che fosse un bisogno fondamentale dell’uomo. Di fatto, egli vedeva nella religione, intesa in una presunta forma più autentica, cioè come forma di credenza stupefacente tipica delle religioni arcaiche politeiste, ma anche come senso privato del sublime, un fattore di fertilizzazione del sentimento liberale. Per questo, la sfera religione, in quanto privata, andava tutelata da ogni interferenza del governo rappresentativo. Non era il solo a pensarla cosi, tra i fondatori del liberalismo applicato.

Non voglio però fare, qui, un’esegesi del pensiero di Constant. Sto prendendo spunto dal fatto che Constant, a cui i pensatori liberali degli ultimi due secoli hanno guardato con grande deferenza, non spiegava in che modo fosse stata conquistata la libertà dei moderni, cioè in che modo i processi di trasformazione culturale, economica e sociale avevano creato le condizioni per l’emergere di una nuova forma di libertà. E la sua idea, espressa in alcune letture sulla religione, circa il fatto che il sentimento liberale e le istanze normative che esso implicava emergessero dal recupero attraverso la cultura romantica di una religiosità autentica e primitiva, era abbastanza ingenua. I problemi lasciati aperti da Constant possono essere affrontati oggi attraverso gli strumenti della ricerca naturalistica. Nel senso che sono disponibili teorie e metodologie che ci permettono di domandarci quali novità prodottesi nel corso del ‘600 e del ‘700, misero in moto i processi che portarono alla nascita dei progetti delle liberaldemocrazie. Progetti che dovettero attendere l’‘800, ma soprattutto il ‘900 per realizzarsi e creare gli spazi geografici e politici all’interno dei quali una proporzione crescente dell’umanità ha potuto affrancarsi dal doloroso giogo dell’assolutismo politico e religioso.

Ci sono varie teorie, recenti e interessanti, sull’origine della libertà liberale. Alcune chiamano in causa gli sviluppi del diritto, soprattutto nelle primissime fasi dell’età moderna, che hanno progressivamente ridotto l’arbitrarietà dell’esercizio del potere caratteristico dei regimi assolutisti, secolari o religiosi che fossero. Queste teorie inquadrano importanti fatti, cioè descrivono come alcune pratiche sono cambiate e alcuni nuovi principi sono emersi, ma non spiegano perché i cambiamenti nelle regole di esercizio del potere sono avvenuti in un certo periodo della storia umana e in certi luoghi prima che in altri. Né spiegano perché si sono diffusi e sono andati incontro a un’evoluzione direzionale soltanto dopo la metà del ‘700. Voglio dire che, mentre si sa molto su come è stata implementata la libertà dei moderni, ovvero sul fatto che quel processo ha chiamato in causa il diritto e una filosofia politica del tutto nuova, queste analisi riguardano il come. Non dicono però quasi nulla sul perché certe idee normative sono emerse a un certo punto della storia umana, come mai funzionavano meglio e perché trovavano un terreno fertile su cui riprodursi, cioè mantenersi a ogni successiva generazione ed evolvere.

Negli ultimi anni diversi autori, basandosi sulla teoria dei giochi e sulle scoperte della neuroeconomia e dell’economia comportamentale, hanno teorizzato che la transizione a un’economia a somma non zero è stata la novità che ha messo in moto la macchina della modernità. È vero, e su questo sussistono pochi dubbi, che si deve al mercato capitalistico la produzione della ricchezza indispensabile per diffondere il modello politico-istituzionale e culturale delle liberaldemocrazie. Sappiamo che esiste un limite di PIL pro capite, nonché un indice di eguaglianza economica, al di sotto dei quali non si è mai avuta una democrazia costituzionale o liberale.

Ora, non si può dimenticare che le idee normative della liberaldemocrazia e il mercato capitalistico sono stati conquistati attraverso una progressiva sottrazione alle religioni, di una funzione di controllo politico e di guida morale pubblica. Nel senso che se è senz’altro da registrare la coincidenza tra lo sviluppo del capitalismo e la Riforma Protestante, e se anche è vero che la riforma protestante ha aiutato l’individuo a liberarsi dalla schiavitù assolutista nel momento in cui lo ha schiacciato sotto il peso della responsabilità individuale e della predestinazione, in realtà, con buona pace di Weber, la religione ha giocato in tutto quel processo probabilmente un ruolo indiretto. Mentre a mio giudizio ben più importante è stata la rivoluzione epistemologica che ha caratterizzato l’alba della modernità. Peraltro, le ricerche empiriche sui correlati neurali della religiosità oggi ci dicono che le credenze religiose fanno leva su strutture nervose che attivano le risposte placebo, per cui, di fatto, la possibilità per una parte cospicua dell’umanità di rinunciare a usare processi nervosi che aiutavano a ridurre il dolore e avevano una funzione di autocura, si è spalancata veramente soltanto quando sono diventati disponibili i mezzi culturali diversi e più efficaci per curare le malattie e alleviare le sofferenze.

Ed eccomi alla tesi che voglio proporre e difendere. Stante il fatto che, come ci dicono alcune tonnellate di pubblicazioni prodotte da psicologi, antropologi e neuroscienziati, noi non siamo spontaneamente preadattati per vivere in un’economia di mercato e in un sistema politico liberaldemocratico, qual è stata la novità che ha consentito finalmente di riorganizzare e sfruttare le nostre migliori predisposizioni, consentendoci di partecipare attivamente alla realizzazione di società complesse in grado di produrre benessere, eguaglianza e libertà. E di fare questo, contrastando altri impulsi, che non producono certamente questi sbocchi e che sono molto più efficacemente strumentalizzabili, cioè che in qualche modo se siamo lasciati a noi stessi maturiamo quasi automaticamente. Questi impulsi, che hanno una base biologica, nel senso che sono stati selezionati per il vantaggio adattativo che procuravano in alcuni ambienti paleolitici, vengono sfruttati dalle religioni. Il che spiega perché le religioni esistono e perché è assurdo aspettarsi che si possano mai estirpare dalla natura umana.

Penso che la cosiddetta libertà dei moderni sia stata inventata dalla scienza sperimentale, e che sempre la scienza sperimentale abbia indicato il metodo e creato le condizioni culturali per istruire e applicare una filosofia politica liberaldemocratica, e per rendere socialmente accettabile e funzionale l’economia di mercato. La scienza moderna è probabilmente stata e rimane il principale reagente di un sistema autocatalitico, che oltre alla scienza comprende la democrazia e il mercato capitalistico, da cui sono derivati il benessere, la libertà e l’eguaglianza, che rendono il mondo occidentale in assoluto il migliore tra quelli finora realizzati dalla nostra specie. Va da sé che questo contributo la scienza l’ha prodotto anche, se non principalmente, circoscrivendo progressivamente il ruolo della religione, e quindi smantellando attraverso la diffusione dell’educazione scientifica i bias cognitivi naturali che predispongono in modo variabile tutti gli uomini a sviluppare un certo grado di credenza irrazionale, più meno connotata superstiziosamente e religiosamente, nonché a coltivare valori di tipo conservatore.

La scienza è il prodotto di capacità cognitive che l’uomo ha acquisito nel corso dell’evoluzione e che dipendono in larga parte dall’addestramento di strutture nervose collocate nei lobi frontali e connesse con altre aree del cervello. Il potenziamento dell’attività di queste strutture consente fondamentalmente di andare oltre il senso comune e le intuizioni che si attivano automaticamente in risposta agli stimoli, e quindi di scoprire delle spiegazioni causali oggettive dei fenomeni naturali. La maggior parte delle spiegazioni scientifiche sono controintuitive, cioè derivano da un modo di pensare che va contro il modo in cui ci verrebbe naturale di farlo. Sono tali le più importanti teorie scientifiche che spiegano come funziona la natura: la teoria galileiana-newtoniana del moto, la teoria meccanico-statistica del calore ovvero la termodinamica, la teoria darwiniana dell’evoluzione, la genetica mendeliana, la teoria della relatività, la meccanica quantistica, le teorie neuroscientifiche dell’apprendimento, ecc. Le spiegazioni religiose, al contrario di quelle scientifiche, sono più intuitive, dal punto di vista del modo in cui il nostro cervello si è strutturato funzionalmente attraverso centinaia di migliaia di anni di evoluzione biologica.

La possibilità della scienza si basa sull’acquisizione attraverso un’attività di apprendimento che potenzia la connettività dei lobi frontali e dei gangli della base della capacità di tenere a bada le affezioni di cui carichiamo le nostre aspettative e ovviamente le risposte intuitive che queste affezioni fanno scattare. Quindi l’apprendimento della scienza, non delle nozioni scientifiche ma del metodo scientifico, implica imparare a valutare le nostre credenze o teorie a fronte di fatti osservati o direttamente provocati che possono essere in accordo o meno con quelle aspettative. La scienza ha insegnato a rispettare le prove e ad abbandonare le credenze confutate dai fatti. In questo modo, ha insegnato a risolvere le controversie umane senza spargimento di sangue…

La nascita della scienza, nell’età rinascimentale fu un processo certamente favorito da diversi fenomeni culturali, tra cui la Riforma Protestante, lo sviluppo di pratiche artigianali complesse e l’aprirsi di alcuni spazi di libertà concessi a individui particolarmente brillanti, ma la scienza si autorganizzò rapidamente dando vita a comunità che funzionavano sulla base di principi del tutto nuovi rispetto a qualunque altra organizzazione sociale coeva o preesistente. Le prime accademie scientifiche si diedero degli statuti che come hanno dimostrato diversi studiosi introducevano per la prima volta dei principi che quasi due secoli dopo saranno posti alla base delle prime costituzioni liberal-democratiche. Veniva infatti rifiutato il ricorso a qualunque principio di autorità (e ovviamente alla violenza) per dirimere una controversia, veniva affermata l’eguaglianza morale di tutte le persone che aderivano all’accademia e veniva stabilito il primato dei fatti rispetto alle teorie. Questo almeno come modello ideale. Naturalmente i modelli ideali non esistono in natura, ma è proprio grazie all’imperfezione che è possibile l’evoluzione e quindi il miglioramento anche rispetto ai modelli ideali. La realtà, fortunatamente, è molto più ricca dei nostri modelli.

Il germe della scienza, piantato nel Rinascimento ha definitivamente preso possesso della macchina politico-sociale occidentale a metà del ’700. Si può ipotizzare che i fondamenti liberal-democratici delle società moderne, quelle che indiscutibilmente hanno registrato la massima crescita della ricchezza, la massima espansione della libertà e i massimi livelli di eguaglianza, derivano dall’impatto culturale della scienza. Ora, l’impatto culturale di qualunque attività umana dipende dal modo di funzionare del cervello. Il modo di funzionare del cervello su cui si basa la scienza ovvero il tipo di funzionamento che viene mobilitato dall’apprendimento della scienza, quasi inevitabilmente, anche se non necessariamente, immunizza contro una serie di modalità innate di funzionamento. Che erano adattative nel paleolitico e probabilmente anche nelle società autoritarie o anche basate sull’assunzione di diseguaglianze morali tra gli individui. Ma che non lo sono più nelle società dove tutti sono considerati uguali davanti alla legge e dove chi governa è revocabile sulla base di un voto popolare.

Tra le modalità che vengono disconnesse con l’apprendimento della scienza, cioè del modo di ragionare implicato nell’acquisizione delle capacità cognitive secondarie necessarie per produrre la scienza, vi sono anche i modi di pensare e giudicare che sono alla base della religiosità. Ovvero che vengono intercettati e usati a fini di potere dalle organizzazioni che rispondono ai bisogni innati di trovare spiegazioni soprannaturali e di indirizzare verso obiettivi gli impulsi emotivi che non si riesce a tenere sotto controllo perché non sono stati addestrati adeguatamente i lobi frontali.

Due fenomeni, che si sono manifestati nel corso dell’ultimo secolo sono verosimilmente collegati con la diffusione, attraverso l’aggiornamento dei programmi di istruzione, di un modo di pensare influenzato dall’istruzione scientifica. Scientifica, non tecnico-professionale. Sto pensando all’aumento del quoziente di intelligenza nei paesi occidentali e all’aumento dell’ateismo nelle società dove c’è maggior benessere e che sono anche quelle dove più massicciamente si insegna la scienza. Li illustro brevemente, portandoli come argomenti a supporto della mia tesi.

L’incremento del quoziente di intelligenza (QI) è noto come “effetto Flynn”, dal nome dello psicologo James R. Flynn che per primo l’ha descritto, e che è stato riscontrato in trenta paesi sviluppati. Sulla realtà dell’effetto Flynn non c’è discussione, indipendentemente da quello che si può pensare del QI e delle sue misure. Dai calcoli risulta che il QI è aumentato di un terzo di punto all’anno in media, cioè di tre punti ogni decennio. I test dove si è registrato un maggior incremento sono il test delle matrici di Raven, utilizzato per misurare l’intelligenza non verbale e l’intelligenza definita fluida (svincolata dalla cultura), e i test di somiglianza. Anche nei test che misurano il miglioramento della conoscenza di base e le abilità linguistiche e computazionali vi sono stati miglioramenti, ma non così rilevanti. Ora, i test dove si è manifestato il maggior incremento del QI consistono di domande astratte, dove le risposte corrette dipendono da un’abitudine all’uso del pensiero astratto e ipotetico. L’aumento medio delle prestazioni si può spiegare, secondo lo stesso Flynn, con un incremento nell’uso di concetti astratti da parti dei bambini, nonché con il fatto che essendosi ridotte le dimensioni delle famiglie, i bambini interagiscono precocemente con gli adulti che hanno già maturato e usano il pensiero astratto. Peraltro, prima del XX secolo solo filosofi e scienziati acquisivano abilità nel ragionamento astratto e ipotetico. Alla maggioranza dei nostri antenati che vivevano prima del ‘900 non serviva un pensiero categorizzante astratto e ipotetico: bastava loro saper leggere, scrivere e far di conto. Nel corso del XX secolo, con la diffusione dell’istruzione formale nelle scuole, si è affermato un tipo d’intelligenza modellata sui procedimenti scientifici. Gli esperti ritengono che il miglioramento del QI abbia raggiunto i limiti massimi nel mondo sviluppato, anche se rimangono dei margini per riequilibrare diseguaglianze dovute a differenti condizioni socio-economiche. In tal senso, l’incremento è previsto che si manifesterà anche nei paesi in via di sviluppo, nella misura in cui anche lì si diffonderà un’efficace istruzione scientifica.

Il ragionamento astratto, categoriale e ipotetico, aiuta nella soluzione di problemi e si impara attraverso l’apprendimento della scienza. La scienza va peraltro oltre la mera formulazione di ipotesi, adottando come criterio di controllo i test empirici degli asserti, che possono risultare falsi. In questo modo ci si rende conto che ci si può sempre sbagliare. Anche se questo può soggettivamente dispiacere. Con il tempo e l’allenamento si può imparare a evitare scorciatoie del pensiero che inducono sistematicamente a ragionare in modo sbagliato e così si diventa criticamente scettici. Il pensiero astratto categoriale e ipotetico ha quindi allargato l’influenza al di là dell’area tradizionale delle scienze fisiche. Nel senso che ha diffuso un atteggiamento critico e nemico dell’accettazione dell’esistente. Tra cui le superstizioni religiose. Quindi l’effetto Flynn potrebbe essere collegato all’aumento del numero di atei e al fatto che il 90% degli studi che hanno evidenziato i rapporti tra QI e la religiosità hanno rilevato una correlazione negativa, che cresce con l’età.

Gli atei, peraltro, si sa che tendono a concentrarsi tra coloro che hanno maturato la capacità di ragionare in modo controintuitivo. Cioè tra gli scienziati. Agli inizi del XX secolo James Leuba produsse dati statistici da cui risultava che gli scienziati tendono a non essere religiosi e che la tendenza appariva in crescita nel tempo. Tra il primo sondaggio, che effettuò nel 1914 tra i più affermati scienziati statunitensi, e quello che effettuò nel 1933, la proporzione di chi credeva in un Dio personale fu rispettivamente del 32% e del 15%. Alla fine del ‘900 la proporzione di scienziati membri National Academy of Science che credono in un Dio personale era il 10% in generale, e il 5% tra i biologi. Anche le inchieste che cercando di distinguere tra teisti, cioè scienziati credenti in un Dio personale, e deisti, che credono in una divinità impersonale, non cambiano sostanzialmente il dato. Un’importante e recente novità è la scoperta che il teismo scompare nei gruppi d’individui particolarmente intelligenti.

Tutti gli studi “demografici”, mostrano che gli atei sono in aumento. E sono proporzionalmente più numerosi nei paesi economicamente più sviluppati e con i più alti livelli di scolarità e qualità della vita, nonché nei paesi che hanno avuto governi la cui azione politica includeva la propaganda contro la religione. I paesi Europei (soprattutto Nord Europa), Giappone, Corea del Sud e Israele hanno le più alte proporzioni di atei e persone non religiose. In Svezia parliamo di oltre l’80% della popolazione che non crede in un dio personale (gli atei sono il 23%), mentre in Israele quasi il 40% si dichiara ateo o agnostico e se si contano i non religiosi si arriva al 73%. Sono i paesi islamici quelli con la più bassa proporzione di atei e non religiosi. Nel mondo, i non credenti, cioè le persone che non credono in un dio personale né in entità ultraterrene, sono tra i 500 e i 750 milioni, e se a questi si aggiungono le persone che sono religiose ma non si sentono parte «di nessuna chiesa», o persone che semplicemente si dichiarano non religiose ma «credono in qualcosa», il numero praticamente raddoppia. Nel 1900 gli atei erano stimati allo 0,2% della popolazione mondiale. Fatto sta che oggi gli atei si collocano, per numerosità, dopo i cristiani, gli islamici e gli induisti. E sono in aumento: si calcola che 8,5 milioni di persone diventano atee o non religiose ogni anno. I maschi tendono a essere meno religiosi delle femmine, a rimanere giovani e ad avere un livello elevato di istruzione.

Gli studi dei sociologi mostrano che ateismo e secolarizzazione sono associati a livelli significativamente più bassi di pregiudizio, di etnocentrismo, di razzismo e di omofobia. E a un supporto maggiore all’eguaglianza femminile. Gli atei allevano i loro figli promuovendo in loro la maturazione di un pensiero indipendente e senza ricorrere a punizioni corporali. A livello sociale, salvo che per i suicidi, gli Stati e le nazioni con un’elevata proporzione di popolazione secolarizzata presentano indici di qualità della vita superiori rispetto a una proporzione più elevata di persone religiose. Non va ignorato che le persone religiose sono meno a rischio per certi disturbi del comportamento, o consumo di alcolici e droghe, nonché infrangono meno le leggi. Ma per quanto riguarda comportamenti violenti e gli omicidi, gli atei non sono più a rischio dei religiosi di incorrervi.

Tutti gli studi demografici e sociologici sfatano la tesi che gli atei non avrebbero valori. Ne hanno di molto forti. Solo sono carenti in quei “valori” che prevalgono tra le persone molto religiose, come il nazionalismo, i pregiudizi socio-sessuali, l’autoritarismo, l’antisemitismo, la chiusura mentale e il dogmatismo. Per lo psicologo israeliano Benjamin Beit-Hallahmi, «la tesi che gli atei siano in qualche modo più portati a essere immorali è stata seppellita da tonnellate di studi».

Il sociologo Phil Zuckerman, come quasi tutti coloro che hanno studiato le religioni con un approccio naturalistico, sostiene che chiedere alle religioni di aprirsi ai valori secolari è come pretendere che si autocontraddicano. Peraltro la storia delle religioni dimostra che quelle che hanno più successo, nei contesti in cui vi sono le condizioni per proliferare, sono le più integraliste. In questo senso, non stranamente, gli atei continuano a essere la vera ossessione degli integralisti. Diverse indagini condotte negli Stati Uniti convergono nel mostrare che in diversi Stati, soprattutto quelli della cosiddetta Bible Belt, essere atei rappresenta un marchio negativo ed è fonte di discriminazione più che essere musulmani. Quando, comunque, si dice che le religioni stanno tornando, in realtà si confonde la religiosità con il fenomeno socioculturale che le vede trasformarsi in strumento di lotta politica. Quello che purtroppo si augura anche l’attuale papa, Benedetto XVI. Un fenomeno che riguarda quelle aree dove c’è o torna la povertà economica, e dove c’è o torna l’ignoranza.

 

Bibliografia

Le tesi sinteticamente esposte in questo saggio sono discusse in modo esteso e articolato, con i relativi rimandi bibliografici essenziali, in: G. Corbellini, Scienza e senso civico, Einaudi, Torino 2011.

 


 

Gilberto Corbellini è professore ordinario di Storia della Medicina e docente di Bioetica all’Università “La Sapienza” di Roma, e codirettore del bimestrale di cultura scientifica Darwin. Collabora con il supplemento Domenica del Sole 24 Ore. Ha pubblicato articoli e libri, tra cui Perché gli scienziati non sono pericolosi (Longanesi, Milano 2009) e Scienza e senso civico (Einaudi, Torino 2011).

Da L’ATEO 5/2011