Religione e televisione pubblica in Italia

di Francesco D’Alpa

 

Nei primi anni della TV pubblica in Italia, la presenza della religione era pressoché limitata alla trasmissione delle messe; una sorta di servizio sociale verso quanti non avevano la possibilità di raggiungere una chiesa. Un preciso accordo fra Vaticano e RAI prevedeva comunque pieno potere decisionale per la Chiesa per quanto riguardava la trasmissione, mentre la RAI avrebbe curato i soli aspetti tecnici. Oggi, in una società ampiamente secolarizzata, la religione cattolica è invece uno dei temi privilegiati dei palinsesti RAI, assieme a sport, telefilm, fiction, talk-show e reality. Lo sfondo religioso appare privilegiato perfino nei programmi di tipo storico, focalizzati soprattutto su fascismo, nazismo, papato e santi.

Non si tratta di una scelta dettata dall’audience, giacché il pubblico sembra amare poco la teologia o il catechismo. Tutto avviene in modo quasi automatico, perché la maggior parte dei responsabili della programmazione e degli autori dei programmi sentono evidentemente di dovere fare così, adeguandosi ad un ipotetico senso comune religioso (tutto da verificare). In effetti, la religione cattolica viene presentata dalla TV pubblica sostanzialmente ancora come religione di Stato, con tutti i relativi privilegi: trasmissioni dedicate alle manifestazioni religiose cogestite con i rappresentanti della gerarchia ed i ministri del culto, priorità nei servizi informativi, rubriche strettamente religiose, diritto di parola sempre e comunque nelle questioni etiche.

L’atteggiamento di rispetto verso i religiosi e le posizioni clericali è ancora quello di una società amministrata dalla politica, ma saldamente guidata dal clero. In tal modo, l’apparato RAI fornisce un chiaro supporto logistico alla Chiesa cattolica, che si va a sommare alle innumerevoli forme di sostegno economico dello Stato (otto per mille, oneri di urbanizzazione, esenzioni fiscali, ecc.).

Quanto spazio ha la religione in RAI?

Sembra certo corretto che nei palinsesti RAI trovino spazio le tematiche religiose, espressione di una importante realtà sociale e culturale del nostro paese; ma è ovvio che dovrebbero trovarvi spazio anche importanti (ma non gradite) realtà sociali e culturali in conflitto con la Chiesa cattolica. Il supporto offerto dalla RAI al (solo) Vaticano non è meramente tecnico, come hanno dimostrato occasioni abbastanza recenti (morte di Giovanni Paolo II, elezione di Benedetto XVI, Giubileo del 2000, Giornate m ondiali della gioventù). Esiste una consolidata struttura “RAI Vaticano” sostanzialmente ligia alle esigenze pastorali. Della sola religione cattolica la RAI (ma soprattutto RAI Uno) si occupa con un preciso progetto e con regolari rubriche d’informazione ed approfondimento (come la domenicale A sua immagine); ed è fortemente impegnata più o meno in tutti i grandi eventi della cattolicità romana (solennità liturgiche, viaggi papali, ecc.). E gli orari delle trasmissioni rivolte ai cattolici sono sempre quelli migliori per l’indottrinamento (tarda mattinata ed ora di pranzo), mentre le “concorrenti” Protestantesimo e Sorgente di vita sono relegate ad orari notturni ed incerti). L’informazione religiosa cattolica in RAI è puntuale, ma quasi esclusivamente verticistica. Direttamente o indirettamente, la RAI fornisce infatti sempre l’opinione del papa e dei suoi più stretti collaboratori circa i grandi temi (in particolare su morale e bioetica), lasciando poco o nessuno spazio a chi la pensi diversamente (dentro o fuori la Chiesa).

Nonostante la fine del regno temporale della Chiesa di Roma, la RAI sembra identificare ancora nella persona e nel pensiero del papa regnante e delle gerarchie vaticane il comune sentire della “cattolica” Italia. Diretta delle cerimonie in Vaticano, messe, aggiornamenti della dottrina (ad esempio le encicliche ed i pronunciamenti delle varie Congregazioni) sono sempre commentati badando al gradimento della Santa Sede. La RAI è stata comunque accusata, da alcuni analisti, di “selezione distorsiva” della religione cattolica: troppa attenzione per le celebrazioni e carente comunicazione dei contenuti e dei vissuti di fede. Più che rendere visibile la religiosità dei credenti, i programmi televisivi RAI avrebbero contribuito a “clericalizzare” il cattolicesimo; in piena inversione di rotta rispetto a quanto voleva il Vaticano II. Infatti, se la televisione rende certamente più visibile la “religione” (lo storicamente ampio, ma non esclusivo, fondo religioso della nostra società), non per questo (e nonostante l’intenzione) fa di ogni trasmissione un evento strettamente religioso, in quanto il grosso pubblico, anche fra credenti, vive nel privato un modello secolarizzato ed abbastanza superficiale di religiosità, abbastanza distorto rispetto al modello di re ligiosità proposto dalla chiesa romana.

D’altra parte, la ricerca dell’audience condiziona indubbiamente anche in RAI molte scelte di programmazione; ed appare sempre più frequente la proposizione di pseudo-dibattiti (spesso autoreferenziali, giacché le parti non sono realmente contrapposte; o, all’inverso, giocati su sterili reciproche provocazioni). E, paradossalmente, ciò sembra in qualche modo giovare alla Chiesa, in quanto attesta quanto sia “comunque” importante il parlare di religione e religiosità.

Il punto di vista della Chiesa

L’atteggiamento della Chiesa nei confronti dei media (un tempo i giornali, poi la radio e la televisione, oggi Internet) è sempre stato inizialmente di pregiudizio negativo e di allarme; in seguito, di vigile ma sempre più interessata convivenza; quindi di entusiastica adesione, fino a ritenerli una efficace versione del pulpito. La prima ampia esposizione della posizione della Chiesa rispetto al mezzo televisivo è contenuta nel Decreto sugli strumenti di comunicazione sociale “Inter mirifica” (IM) del Concilio Vaticano II (4 dicembre 1963) che già nel suo esordio tenta quasi di appropriarsene, definendolo una fra le “meravigliose invenzioni tecniche che, soprattutto nel nostro tempo, l’ingegno umano è riuscito, con l’aiuto di Dio, a trarre dal creato” (IM, 1). All’inizio di questo documento si evoca quasi una televisione “naturaliter christiana” e si adombra una moderna riedizione del manicheismo, posto che “questi strumenti se bene adoperati, offrono al genere umano grandi vantaggi, perché contribuiscono efficacemente a sollevare e ad arricchire lo spirito, nonché a diffondere e a consolidare il regno di Dio. Ma essa [la Chiesa] sa pure che l’uomo può adoperarli contro i disegni del Creatore e volgerli a propria rovina” (IM, 2). Per la Chiesa esisterebbe quasi un obbligo a servirsi del nuovo conveniente mezzo; infatti, “la Chiesa cattolica, essendo stata fondata da Cristo Signore per portare la salvezza a tutti gli uomini, ed essendo perciò spinta dall’obbligo di diffondere il messaggio evangelico, ritiene suo dovere servirsi anche degli strumenti di comunicazione sociale per predicare l’annuncio di questa salvezza ed insegnare agli uomini il retto uso di questi strumenti. Compete pertanto alla Chiesa il diritto innato di usare e di possedere siffatti strumenti, nella misura in cui essi siano necessari o utili alla formazione cristiana e a ogni altra azione pastorale” (IM, 3).

Da qui una serie di direttive (precise condizioni e norme di utilizzo) affinché la televisione venga orientata alla esposizione della dottrina ed alle esigenze pastorali. Innanzitutto, quale prerequisito, occorre una “retta coscienza circa l’uso di questi strumenti” (IM, 5). Laddove con “coscienza”, non s’intende certo una generica responsabilità, quanto piuttosto l’adesione alle leggi obbliganti di coscienza della teologia morale. La televisione deve rispettare il “diritto all’informazione” (IM, 5), con in primo piano ovviamente quella conveniente alla Chiesa stessa, giacché, com’è chiaro nel prosieguo, ogni informazione contraria lede almeno una delle presenti linee guida.

La successiva prescrizione richiede che “la comunicazione sia sempre verace quanto al contenuto e, salve la giustizia e la carità, completa; inoltre, per quanto riguarda il modo, sia onesta e conveniente, cioè rispetti rigorosamente le leggi morali, i diritti e la dignità dell’uomo, sia nella ricerca delle notizie, sia nella loro diffusione. Non ogni conoscenza infatti giova, «mentre la carità è costruttiva» (1 Cor 8,1)” (IM, 5). Eccoci dunque nel campo minato della istruzione propriamente religiosa!

Entrando nel pratico, la “Inter Mirifica” chiede che le televisioni di Stato (le uniche a quel tempo esistenti e pensabili) concedano ai religiosi di dirigere i programmi che la riguardano: “i giornalisti, gli scrittori, gli attori, i registi, gli editori e i produttori, i programmisti, i distributori, gli esercenti e i venditori, i critici e quanti altri in qualsiasi modo partecipano alla preparazione e trasmissione delle comunicazioni [procurino che] le comunicazioni che riguardano la religione vengano affidate a persone degne e preparate e che siano attuate con il dovuto rispetto”. (IM, 11). Ovviamente non si tratta solo di un auspicio, ma di una ben precisa pretesa; come infatti viene subito dopo chiarito: “Particolari doveri in questo settore incombono all’autorità civile in vista del bene comune […] favorire i valori religiosi, culturali e artistici; assicurare agli utenti il libero uso dei loro legittimi diritti” (IM, 12). Pretesa che cede infine il posto ad un vero e proprio appello per una catechesi televisiva di Stato: “si sostengano in modo efficace i programmi radiofonici e televisivi moralmente sani, soprattutto quelli adatti all’ambiente familiare. Si promuovano poi con impegno le trasmissioni cattoliche, mediante le quali gli uditori e gli spettatori vengono orientati a partecipare alla vita della Chiesa e ad assimilare le verità religiose” (IM, 14).

In anni successivi, soprattutto Giovanni Paolo II (il papa mediatico per eccellenza) è intervenuto spesso su questi temi. Basterà ricordare il suo “Messaggio per la 28° Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali” (24 gennaio 1994), che parte da quanto è ovvio, ovvero che “oggi, la televisione è una fonte primaria di notizie, di informazioni e di svago per innumerevoli famiglie fino a modellare i loro atteggiamenti e le loro opinioni, i loro valori e i prototipi di comportamento”. Per tale motivo, secondo lui, “la televisione può arricchire la vita familiare”, ma “può anche danneggiare la vita familiare: diffondendo valori e modelli di comportamento falsati e degradanti, mandando in onda pornografia e immagini di brutale violenza; inculcando il relativismo morale e lo scetticismo religioso; diffondendo resoconti distorti o informazioni manipolate sui fatti ed i problemi di attualità; trasmettendo pubblicità profittatrice, affidata ai più bassi istinti; esaltando false visioni della vita che ostacolano l’attuazione del reciproco rispetto, della giustizia e della pace”. Dunque “in quanto «cellula» fondamentale della società, la famiglia merita quindi di essere assistita e difesa con appropriate misure da parte dello Stato e delle altre istituzioni. Ciò sottolinea la responsabilità che incombe sulle autorità pubbliche nei confronti della televisione.” Proteggere la famiglia vuole ovviamente dire, secondo il papa, suggerirle o imporle esattamente i “valori cristiani”. Non a caso, mentre da una parte egli ricorda prima che “riconoscendo l’importanza di un libero scambio di idee e di informazioni, la Chiesa sostiene la libertà di parola e di stampa (cfr. Gaudium et Spes, n. 59)”, poi che “deve essere rispettato il diritto di ciascuno, delle famiglie e della società, alla «privacy», alla pubblica decenza e alla protezione dei valori fondamentali della vita” (Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, Pornografia e violenza nei mezzi di comunicazione: una risposta pastorale, n. 21)”; e alla fine proclama che “le autorità pubbliche sono invitate a fissare e a far rispettare ragionevoli modelli etici per la programmazione, che promuovano i valori umani e religiosi su cui si basa la vita familiare e che scoraggino tutto ciò che le è dannoso”. Dunque, come in altri ambiti, l’unico messaggio televisivo ammesso dovrebbe essere quello aderente ai dettami della Chiesa.

Il limite fra informazione e catechesi

Nei programmi informativi televisivi la religione cattolica viene generalmente presentata secondo il cosiddetto “modello postale”, ovvero seguendo una comunicazione unidirezionale del messaggio garantito come “ortodosso” dalla autorità ecclesiastica o dai suoi portavoce ufficiali. Gli stessi analisti cattolici hanno però lamentato l’esistenza di un pericoloso meta-messaggio, ovvero la presunzione che i conduttori televisivi siano (come del resto i celebranti ed i predicatori) quasi in contatto con Dio; cosa che li porta a parlare di concetti metafisici, di storia sacra, di miracoli e quant’altro con estrema disinvoltura, come se si trattasse di fatti storici assodati o di oggetti fisici concreti. D’altra parte, in un certo senso, proprio questa è l’int enzione della Chiesa; come espressa ad esempio nella “Istruzione circa alcuni aspetti dell’uso degli strumenti di comunicazione sociale nella promozione della dottrina della fede”, un documento della Congregazione per la Dottrina della fede del 30 marzo 1992 che, secondo J.P. Foley, presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali “vuole garantire il principio della ‘verità nel confezionamento’, il principio, cioè, secondo il quale tutto ciò che viene pubblicato in nome della morale e della fede cattolica deve essere certificato come tale da coloro che sono i principali responsabili dell’insegnamento del Vangelo e della guida dei fedeli, vale a dire i vescovi delle diocesi” [F.J. Eilers; R. Giannatelli (ed.): Chiesa e comunicazione sociale. I documenti fondamentali, Elle Di Ci, Leumann (Torino) 1996, pp. 203]. Di conseguenza, ogni messaggio televisivo che riguardi la religione cattolica o la chiesa non è mai solo “informativo”, ma diviene inevitabilmente “formativo”; dunque senza una chiara separazione fra cronaca, informazione, lettura critica e catechesi.

Che tipo di religione viene presentata?

Agli esordi della TV in Italia, oltre alle messe di precetto, le trasmissioni televisive in tema di religione erano per lo più costituite da brevi interventi affidati a noti predicatori, che presentavano una catechesi per famiglie. Dopo questa fase pionie ristica, negli anni Settanta, fu istituito in RAI un vero e proprio Ufficio Rubriche Religiose, con pieno controllo sull’informazione religiosa; della quale, nel frattempo, erano mutati lo scopo ed i metodi. Se infatti la “Inter Mirifica” proponeva in un certo senso di cristianizzare l’etere (in un periodo storico in cui almeno in Italia la televisione poteva assolvere la funzione di specchio di una società presunta cristiana, cui dare piena visibilità), nel tempo le cose sono cambiate. Ed oggi la (inedita, inattesa) visibilità della religione in televisione ha quasi più valenze propagandistiche; giacché il popolo che guarda la religione in TV non è un popolo che vive cristianamente, dunque ispirandosi a valori autenticamente (tradizionalmente) cristiani. Dal punto di vista dell’emittenza, sono stati descritti almeno tre tipi di religione “televisiva”: (a) una “religione-istituzione” (resoconti giornalistici, dirette dal Vaticano e dai luoghi di culto) che dà pieno risalto al messaggio dall’alto e non tiene conto delle istanze dal basso; (b) una “religione-spettacolo” (grandi eventi); (c) una “religione-incanto” (serie televisive, fiction, “speciali” inevitabilmente elogiativi dei vari personaggi chiave della cattolicità). In ogni caso si tratta di una religione sostanzialmente “da vedere”, generalmente “non partecipata”; priva di sentimento quando ritratta nei momenti istituzionali; assolutamente di parte negli aspetti agiografici.

Qualcuno ha definito questa rappresentazione televisiva della religione “catodicesimo”, ovvero “cattolicesimo-televisivo-non-praticante”. Nel caso della RAI, si può ben parlare di “religione televisiva di Stato”, in quanto non solo essa non dà (o non dà sufficiente) voce a posizioni diverse o contrarie, ma neanche rispecchia ciò che invece percepisce il senso comune e ciò che mostrano tutti i sondaggi demoscopici e le indagini sociologiche: ovvero una generale religiosità (o meglio una pratica religiosa personale) abbastanza svincolata dalle linee guida vaticane. La risposta del pubblico non sembra comunque dipendere dai contenuti strettamente “religiosi” dei programmi. Nel caso delle fiction (ad esempio quelle sui papi e sui santi), molto seguite, lo spettatore viene facilmente coinvolto a causa della spettacolarizzazione del racconto e delle forti tinte sentimentali; al contrario, l’informazione strettamente confessionale e gli eventi liturgici hanno una bassa audience. In ogni caso, le ricerche sociologiche hanno dimostrato che chi segue le fiction religiose non aderisce (o non si riavvicina) alla religione cattolica tradizionale.

Il pluralismo religioso in TV

Praticamente non capita mai di assistere ad un programma televisivo RAI, che si occupi di religione, al quale partecipino solo dei non credenti. La presenza di almeno un prelato o opinionista di parte è la regola. Invariabilmente, le voci confessionali sovrastano per numero e per tempo a disposizione quelle contrarie. La personalità, la telegenicità e l’impatto sull’audience sembrano i più importanti criteri di scelta dei partecipanti, con effetti molte volte deleteri verso l’immagine pubblica del non credente. Al teologo-filosofo, ad esempio, si contrappone spesso un opinionista rissoso. Riguardo ai contenuti discussi, solitamente si evita di affrontare il cuore della fede (e non perché sia così scontato da non doverne parlare), preferendo i temi della morale, sui quali la chiesa vuole maggiormente imporre i suoi principi.

Ma quanto e quale spazio viene concesso alle altre religioni ed alle concezioni non religiose? A partire dal 1973 la RAI trasmette due rubriche religiose non cattoliche, ovvero Protestantesimo, a cura della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, e Sorgente di vita, a cura dell’Unione delle Comunità Ebraiche in Italia; ma concede loro uno spazio minimale: due puntate mensili di circa mezz’ora per ciascuna, ed addirittura in terza serata; chiaro indizio di un pluralismo religioso più apparente che reale, essendo eccezionale che i rappresentanti di queste confessioni abbiamo parola in RAI al di fuori di questa “isola” all’interno dei palinsesti. Nessuno spazio per un proprio programma viene concesso ad altri culti (solitamente si parla di Islam negativamente, per i risvolti fondamentalisti-terroristici e di ordine pubblico; raramente si tratta la fede islamica – o si trattano altre fedi – in sé), né tanto meno alle concezioni non religiose della vita. Una inusuale deroga al monopolio dei cattolici può ritenersi il programma Il cielo e la terra, del 2008, che metteva a confronto i rappresentanti di sei diverse confessioni religiose, chiamati a discutere su quelli che la RAI ha definito “temi chiave legati al significato della vita sulla Terra” (felicità, aldilà, male e anima), senza ovviamente la malvista compresenza di non credenti.

Il supporto del WEB

L’ampio spazio WEB concesso dalla RAI alla religione cattolica è caratterizzato dalla presenza di ampie sezioni, non solo informative, ma di vera e propria catechesi confessionale (www.asuaimmagine.rai.it; www. giovannipaolosecondo.rai.it; www.religionecattolica.rai.it) . Agli inizi del 2009 era stato anche aperto un blog (raivaticano.blog. rai.it) , dal titolo Dite la vostra sull’informazione religiosa in TV e in radio, condotto dal vaticanista per eccellenza della RAI, lo scomparso Giuseppe De Carli, che non nascondeva certo il suo desiderio di una RAI maggiormente schierata dalla parte del Vaticano e che non confinasse la religione cattolica in quello che egli aveva definito “un territorio buio, nel sottoscala della cronaca, prodotti di serie B, costretti nella sfera privata, irrilevanti sul piano pubblico”. La presenza della religione in TV, a suo parere, andava addirittura accresciuta, quale “finestra aperta sul mistero, uno spazio di comunicazione spirituale”: dunque rubriche ad hoc, inserite nei grandi contenitori del mattino e del pomeriggio, e piena visibilità nei talk-show, nonostante il rischio di compromettere l’audience.

(Dall’intervento al Convegno “Liberi di non credere”, Roma 19 settembre 2009)

Da L’ATEO 6/2010