Note per una semiotica del termine “ateo”

di Dario Martinelli

 

La brutta notizia è che non esiste un termine più efficace di “ateo”.

“Ateo”, non è un mistero, è una parola che non piace a molti atei. Sono in tanti, negli spazi di questa rivista o in altri, a lamentarsene e a proporre un’alternativa. Ciò che non piace, anche questo è noto, è il fatto che si trovi a rappresentare un’ideologia (o almeno un complesso organizzato di idee) con caratteristiche generalmente propositive, attraverso un’accezione “in negativo”, riferita cioè all’assenza, o rifiuto, di qualcosa, piuttosto che alla presenza, o proposizione, di qualcos’altro. Un a-teo, ovvero, è prima di tutto un individuo privo di dio. E, certo, può dare fastidio risolvere un’intera gamma di idee, proposte e attività con la semplice negazione del proprio, diciamo così, avversario.

Peggio. Negandolo in quel modo se ne ammette quasi l’esistenza. Almeno logicamente parlando. Se sono apartitico, ad esempio, metto in dubbio l’efficacia politica dei partiti, non la loro esistenza tout court. Peggio ancora. A ben guardare, quel termine ce lo hanno affibbiato proprio i credenti, con atteggiamento dispregiativo e con il classico tono da «non sai che ti perdi».

Insomma, tre buoni motivi per mettersi alla ricerca di un termine che finalmente renda conto del carattere attivo e positivo della nostra ideologia (e scusate se ripeto il termine: non aderisco alla moda postmoderna di dichiarare le ideologie morte. A me il termine “ideologia”, e i significati ad essa associati, piacciono. In più, almeno seguendo la definizione di Umberto Eco delle ideologie come «gerarchie di valori», l’ateismo rientra a pieno titolo nella categoria). Ideologia che, per i fini retorici di questo articolo, smetteremo per il momento di chiamare “ateismo” e, ribattezzeremo (brrr, che brutto verbo) provvisoriamente “Scimmia” e i suoi seguaci “scimmiette” (con chiaro omaggio al nostro amato direttore Maria Turchetto. E, visto che ci sono, i miei complimenti più vivi per il numero 2/2009 (62) «Dalla parte degli animali»: sottoscrivo dalla prima all’ultima pagina, editoriale compreso).

Negli ultimi anni si è avuto modo di assistere a una serie di proposte terminologiche di varie natura e origine. Posso testimoniare in prima persona almeno le seguenti: “evoluzionista”, “darwiniano” (o “darwinista”, che naturalmente ha un significato molto diverso da “darwiniano”), “naturalista”, “scientista”, “materialista”, “umanista”, “laico”, “illuminista”, “anti-clericale” (non si era detto niente termini in negativo?) e — apoteosi — “libero”. Termini diversi, a volte diversissimi, tra loro, e che però possiedono due interessanti caratteristiche in comune. Uno: sono tutti termini già coniati in precedenza, per finalità che parzialmente possono sovrapporsi al concetto di Scimmia ma che mai vi coincidono. Due: ci dicono, tutti e sempre, qualcosa di vero sull’essere scimmiette, ma mai tutto.

Un evoluzionista è probabilmente anche scimmietta, ma “evoluzionista” non significa “scimmietta”. Ovvero, il complesso di significati del primo termine non coincide esattamente con il secondo, pur avendo alcune peculiarità in comune. Per non parlare del fatto che è persino possibile essere evoluzionisti senza essere scimmiette (non capita di frequente, ma probabilmente più spesso di quanto non ci piaccia pensare). Come scimmiette, non siamo tenuti a conoscere (o essere interessati a) l’intera teoria delle nicchie ecologiche (che, tirate le somme, non è intrinsecamente scimmietta). Come evoluzionisti, possiamo tranquillamente considerare immorale il sesso pre-matrimoniale. Lo stesso dicasi per tutti gli altri termini citati. Persino “libero” ci crea problemi, anche se forse di una natura leggermente diversa: è innegabile che, per quanto la Scimmia costituisca un passo importante in quella direzione, essere “liberi” rimane una condizione morale ancora più a tutto tondo. Non so voi, ma l’essere scimmietta non mi ha ancora reso immune da tutti i miei complessi e tabù. Però riconosco che me la sarei passata molto peggio se fossi stato credente.

Il problema principale sembra dunque essere il seguente: la Scimmia è un campo semantico che include una quantità e qualità di senso non rappresentabile da altri campi. Evoluzionisti? Sì, ma non è tutto. Laici? Anche, ma non solo. Materialisti? Sicuramente, ma la storia non finisce qui (e sempre ricordando che, tra tante scimmiette, c’è anche qualcuno che avverte un senso di spiritualità, pur senza connetterlo a un’idea divina, e non possiamo farlo fuori per questo).

È evidente, quindi, che ci serve un neologismo. E possiamo senz’altro arrovellarci per trovarlo. Prima, però, soffermiamoci sulle ragioni che ci porterebbero a effettuare una ricerca di questo tipo. Dicevamo: la connotazione negativa del termine. Non si può accettare che un’ideologia così traboccante di proposte (più che risposte) e azioni (più che reazioni) come la Scimmia venga terminologicamente risolta con una “a” davanti e con un implicito omaggio al nemico. Non si è mai visto!

Un momento: mai? Mi viene subito in mente un altro termine, nel quale ideologicamente non ho mai creduto (se non in momenti romanticamente ingenui della mia esistenza), ma che so che a più di una persona non dispiacerebbe usare nuovamente come sinonimo di “libero”. Questa parola è “anarchico”. Parola il cui successo storico non è mai stato rallentato da un Bakunin della situazione che in assemblea imponeva ordini del giorno del genere «Questione terminologica» o «Nome da cambiare?». La comunità degli anarchici si è sempre trovata a proprio agio sotto l’ombrello di una negazione teorica e operativa di principio, e il motivo risiede esattamente nel fatto che era quella negazione, proprio quella, a rendere ogni membro simile all’altro. L’anarchismo si pone in essere come movimento di opposizione al concetto e alle pratiche di “potere”: ne auspica il superamento, la fine anche violenta. Questo non impedisce all’anarchismo di avere un proprio paradigma, anche ben articolato, con una sua statura filosofica, e una serie eterogenea di strategie e proposte politiche (e, dato che siamo in argomento, sarebbe bene che certi ignorantoni con tendenze terroristiche si ricordassero di questo patrimonio, senza distruggerlo a colpi di generalizzazione e banalizzazione), con tutta una serie di sfumature e correnti interne che, letteralmente, cambiano di anarchico in anarchico. Il punto è che, arrivati al dunque e al netto di tutte queste differenze, ciò che permette a due persone diversissime di definirsi entrambe anarchiche è questa avversione (negazione) di fondo verso il potere, ed un chiaro desiderio di abolirlo perentoriamente (a differenza, magari, di un comunista marxista che intende raggiungere un simile fine attraverso la lunga e graduale procedura del socialismo reale).

Dunque, si può, e non c’è niente di male a, essere accomunati da un “No”. Alla fine di tutti i conti, è solo l’ateismo che accomuna tutti, ma proprio tutti, gli atei (possiamo finalmente abbandonare i termini “Scimmia” e “scimmietta”, anche se spero che il nostro direttore non lo faccia nei suoi editoriali). E ci sia di conforto, perché questo vuol dire che siamo una comunità estremamente varia, e dai contenuti filosofici vastissimi. Una vera e valida antagonista alle religioni, anch’esse interessate a ogni questione dello scibile umano, desiderose di dire una parola su tutto. La differenza è che per dire questa parola, le religioni si fondano su un pregiudizio formulato in quattr’e quattr’otto, senza verifica, e tramandato, pressoché identico, per secoli. L’ateo, invece, è un individuo impegnatissimo, perché a pregiudizi come «i gay sono contro natura» (basta la frase, e magari una citazione dalla bibbia, e migliaia di persone ne sono automaticamente convinte), deve ribattere con una serie di argomenti presi dalla filosofia, dalla giurisprudenza, dalla biologia, dall’etologia, dalla storia e dalle scienze sociali. Un lavoraccio.

Non è tutto. C’è anche una consolazione prettamente semiotica. Negare qualcosa non significa automaticamente ammetterne l’esistenza. O meglio, non significa necessariamente ammetterne l’esistenza in quanto entità empirica. Vale anche solo un’ammissione di tipo retorico e/o dialettico. Dio, ahinoi, esiste nel momento stesso in cui un singolo essere vivente ne parla. Esattamente come esistono gli unicorni, il Grande Cocomero, Quèlo e — da questo esatto momento — un essere soprannaturale chiamato Mnbvcxz. Si tratta di quelli che negli studi letterari si chiamano «mondi possibili» e sono una delle prerogative più interessanti del linguaggio. Il linguaggio è un sistema di modellamento cognitivo, non solo uno strumento di comunicazione. Ci serve a esplorare la realtà, a descriverla e quindi anche a forzarla, manipolarla e adattarla alle nostre esigenze e ai nostri limiti. Si può percepire una porzione di realtà e, successivamente, descriverla linguisticamente; oppure si può prima nominare un’entità e poi percepirla. Il mito e le superstizioni, e dunque anche gli dèi e le religioni, nascono in questo modo: nella difficoltà di percepire un pezzo (in questo caso molto grande) di realtà, si comincia a maneggiarlo discorsivamente. Si narra una storia e questa storia, a poco a poco, compie l’irrazionale miracolo di dare una risposta a tutte le domande legate a questa difficoltà percettiva. Chi siamo, da dove veniamo, chi è responsabile di questo, cosa è buono, cosa non lo è. E via dicendo.

Dio, dunque, esiste come fenomeno dialettico, retorico e mitico. Esiste perché se ne parla. Così come, da qualche riga di testo a questa parte, esiste Mnbvcxz. Il motivo per cui Mnbvcxz non costituirà mai un problema per nessuno, è che a parlarne sono solo io e non intendo fare proseliti al Mnbvcxzismo. Posso credere all’esistenza di Mnbvcxz, ma sarà solo una mia superstizione personale (a meno che non mi dia molto da fare: del resto, nuove sètte emergono di continuo. Ti distrai un attimo e Scientology è già un fenomeno planetario), mentre “Dio” è una superstizione condivisa e organizzata. Ora, andare contro tutto questo non significa affatto ammettere implicitamente l’esistenza fisica di questo “Dio”. Significa, al contrario, allertarsi sul fatto che questo “mondo possibile” (che esiste solo in quanto tale) è ritenuto da molte, troppe persone, un “mondo reale”. Dunque, si lotta contro (cioè si nega) questa superstizione e contro tutto ciò che implica moralmente, filosoficamente e storicamente.

Un a-teo è quindi un pensatore (libero e razionale) che si oppone al concetto di “Dio”, non al signore in barba bianca e tunica celeste con il triangolino e l’occhio sopra la chioma. Che, gli atei lo sanno benissimo, non esiste.

Ancora. Una constatazione storica. Ci piaccia o no, il concetto di “Dio” è arrivato prima. Non prima della sua assenza dialettica (anche se il discorso mitico è antico quasi quanto l’essere umano), ma prima della sua opposizione, com’è logico che sia. Insomma, se c’è bisogno di un ateismo è perché esisteva già un “teismo”. In questo senso, la nostra comunità si qualifica come oppositiva, già a partire da una precisa identità storica.

Infine, una questione logistica. Non è solo il termine “anarchia” a farci sentire in dignitosissima compagnia. Ci sono termini, anche non strettamente di natura ideologica (se non in senso epistemologico), che ci danno suggerimenti importanti sulla nostra identità. Uno di questi è “atonale”, termine musicologico che, com’è noto, designa tutte le musiche che non siano tonali, ovvero che non rientrino in un sistema di classificazione e ordinamento dei suoni — chiamato tonalità — che si è consolidato nella musica colta occidentale a partire dal XVII secolo. Il senso comune, sempre poco incline all’ascolto delle musiche “altre” e/o di ricerca, spesso percepisce l’insieme delle musiche atonali come un insieme molto piccolo, riservato a compositori del XX secolo un po’ eccentrici che scrivono musica che generalmente non piace.

La verità è che atonali sono tutte le musiche che non sono tonali. Tutte le altre. E sono un’infinità, in senso sia cronologico (esistevano prima del XVII secolo, e sono vive e vegete tuttora), sia geografico (avete presente quanto è piccola la musica cosiddetta occidentale?), sia, evidentemente, estetico (non sono solo certe musiche “strane” e “marginali” a essere atonali).

Insomma, fuor di metafora, l’ateismo è un movimento di vastissime proporzioni teoriche, che come dicevamo prima ha il compito di opporsi metodicamente e razionalmente a forme organizzate e patologiche di superstizione. Per riconoscerci tra di noi, abbiamo bisogno di incontrarci dentro una grande negazione. La negazione di una serie di falsità. C’è di peggio. C’è chi quelle falsità le afferma.

La brutta notizia è che non esiste un termine più efficace di “ateo”. La buona notizia è che non ne abbiamo bisogno.

 

Dario Martinelli è docente di Semiotica e Musicologia all’Università di Helsinki (Finlandia) e direttore scientifico della collana Umweb di studi semiotici.

Da L’ATEO 4/2009