Sugli usi e abusi del concetto di “gender”

di Lorenzo Bernini

 

Uno spettro si aggira per l’Europa …

«Chi sono io per giudicare un gay?», ha chiesto il papa nel luglio 2013; un po’ come dire: «chi è senza peccato, scagli la prima pietra» (Giovanni 8: 7). In alcun modo questo atteggiamento di misericordia deve essere confuso con la promozione di nuovi modelli di famiglia o con un impegno attivo contro la discriminazione. Al contrario, la Chiesa di Bergoglio difende come un diritto dei genitori l’educazione tradizionalista in materia di etica sessuale e si oppone alle campagne volte a contrastare omofobia, transfobia e bifobia a partire dal bullismo scolastico.

Per cercare di comprendere meglio l’effettiva posizione della Chiesa, può essere utile ripercorrere le vicende della campagna di educazione contro la discriminazione delle minoranze sessuali che l’UNAR (l’Ufficio Nazionale Anti-discriminazioni Razziali italiano) ha sviluppato sotto il governo Monti, in ottemperanza a una raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa. Nel marzo 2014, Gabriele Toccafondi, il nuovo sottosegretario al Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca del governo Renzi, ha bloccato la diffusione degli opuscoli Educare alla diversità a scuola che secondo i programmi dell’UNAR avrebbero dovuto essere distribuiti capillarmente agli insegnanti italiani. Pochi giorni prima, il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana cardinale Angelo Bagnasco era intervenuto contro la trasformazione delle scuole pubbliche in «campi di rieducazione e indottrinamento». E pochi giorni dopo, nel corso dell’udienza all’associazione The International Catholic Child Bureau, sull’argomento è tornato lo stesso Bergoglio per affermare che «i bambini hanno il diritto di crescere con un padre e una madre» e «i genitori hanno il diritto di impartire ai propri figli un’educazione religiosa».

Le aperture del Papa verso le persone omosessuali vanno quindi comprese come un tentativo di aggiornare l’agenda di una Chiesa in calo di popolarità rispetto a mutamenti epocali che le restano estranei e con cui tuttavia deve fare i conti: non c’è alcuna reale proposta di riforma dottrinale in materia di omosessualità, ma piuttosto una “strategia di marketing”. Le pratiche omosessuali restano per Bergoglio, come per i suoi predecessori, un peccato da cui chi ha desideri omosessuali dovrebbe astenersi, ma dal momento che donne e uomini omosessuali stanno ottenendo sempre maggiore riconoscimento e visibilità sociale, a suo avviso la Chiesa deve dichiarare pubblicamente la sua disponibilità a perdonare anche loro, al pari di tutti gli altri peccatori pentiti, come Gesù lasciò che la prostituta penitente gli lavasse i piedi (Luca 7: 36-50).

Pochi giorni dopo la conclusione del recente Sinodo straordinario sulla famiglia (ottobre 2014), Bagnasco ha rilasciato un’intervista alla Radio Vaticana in cui ha puntualizzato che il proposito maturato nelle discussioni dell’assemblea dei Vescovi è stato quello di contrastare il «pensiero unico» dell’«antropologia occidentalista» che «ormai ruota attorno alla cosiddetta teoria del genere» e di difendere i genitori cattolici dalla «violenza autoritaria» delle istituzioni. Il sintagma “teoria del genere” era già stato utilizzato da Bagnasco in occasione della sospensione della distribuzione degli opuscoli antidiscriminatori dell’UNAR nelle scuole; nei documenti del Sinodo ne compare invece un altro, “ideologia del gender”. Le espressioni si equivalgono, e hanno una terza variante, “teoria del gender”. Questa è stata coniata negli anni 2000 dal Pontificio Consiglio per la Famiglia (2003) e in una decina d’anni ha ispirato un’ampia fioritura editoriale. A utilizzarla è stato anche Ratzinger, quando ancora era papa, nel discorso prenatalizio alla Curia romana del dicembre 2012 – mentre in Francia si discuteva del disegno di legge sul “mariage pour tous” che sarebbe stato poi approvato nell’aprile 2013. Da allora ha acquisito una crescente popolarità nell’opinione pubblica cattolica e nella cultura politica europea: negli ultimi due anni contro la teoria/ideologia del gender sono stati organizzati conferenze e convegni volti a informare capillarmente i fedeli; contro di essa in tutta Europa, ma soprattutto in Francia e in Italia, hanno manifestato movimenti avversi alla promozione dei diritti e alla riduzione della discriminazione delle persone LGBTQI [1]; contro di essa, alcuni Comuni italiani hanno votato delibere in difesa della famiglia naturale. Contro di essa, infine, negli ultimi mesi tanto Bagnasco quanto Bergoglio hanno tuonato in più occasioni, con una sempre maggiore frequenza.Come ha illustrato Sara Garbagnoli in un recente articolo, la crociata contro «la misteriosa “teoria”» è «un blob di slogan senza alcun senso teorico e di pregiudizi sessisti e omofobi» che forniscono una caricatura degli studi di genere e delle teorie queer, riducendo a una unità incoerente (la teoria del gender, al singolare) due ampi campi di sapere all’interno dei quali si confrontano posizioni differenti [2], gli studi di genere e le teorie queer. Emblematica è l’opinione del sacerdote e psicoanalista Tony Anatrella, secondo cui la teoria del gender è un’ideologia anticristiana che dopo il crollo del muro di Berlino ha preso il posto del marxismo, ma che a differenza di questo ha raggiunto una posizione egemonica nell’ONU e nell’Unione Europea. Egli scrive, ad esempio, che:

  1. La teoria del genere afferma che non esiste una natura umana poiché l’essere umano sarebbe unicamente un risultato della cultura. Essa cerca di dimostrare che la mascolinità e la femminilità non sono che costruzioni sociali, dipendenti dal contesto culturale di ogni periodo.
  2. Questa teoria afferma che […] il compito della legge civile dei paesi democratici è quello di favorire la presa di potere da parte delle donne per liberarsi dal potere maschile. […] La legge deve altresì colmare i difetti della natura che pongono la donna in posizioni impari rispetto all’uomo, particolarmente nel caso della maternità, portata avanti unicamente dalla donna, oppure dell’ingiustizia nei confronti degli uomini, privi del seno per allattare i bambini. […] L’uomo viene così escluso dalla procreazione che diventa proprietà della donna. In questo gioco di poteri, l’uomo viene spesso presentato dalle femministe come un aggressore e violentatore. […]
  3. La sfida radicale consiste nel negare la differenza sessuale, che non sarebbe quindi una realtà strutturale, assecondando in questo modo i vari orientamenti sessuali, tra cui l’omosessualità.

E poi conclude:

La teoria del genere sviluppa così una concezione che cerca di estraniarsi dal corpo, desessualizzando la coppia e la famiglia ed eliminando i legami di carne nella filiazione. Si tratta di una teoria che ignora il significato del simbolismo umano della mascolinità e della femminilità. […] È piuttosto strano constatare come si rivendichi sempre più un diritto alla differenza mentre, nello stesso tempo, si distruggono le basi della differenza sessuale, presentando peraltro l’omosessualità come una differenza o un’alternativa all’eterosessualità, cosa che collide con la realtà. Al contrario, la teoria del genere rappresenta la negazione di tutte le differenze. Si sostiene così che la differenza sessuale non ha alcuna importanza nella coppia e nella famiglia, e perfino per l’educazione dei bambini, mentre invece tale differenza è essenziale. Sempre in quest’ottica, si sostiene che la differenza sessuale debba essere presente nella vita professionale e politica, arrivando così a votare in favore di quote del 40% di presenza femminile nelle istituzioni in nome della parità. […] Si tratta di una visione slegata dalla realtà che prepara il terreno a questioni inquietanti per il futuro [3].

Di fronte a tanta “inquietudine” espressa da una Chiesa che, è bene ricordarlo, nel nome della differenza sessuale continua a negare alle donne l’accesso al sacerdozio, negli ultimi tempi il mondo accademico ha finalmente preso a rispondere. Prima dei documenti pubblicati dall’Associazione Italiana di Psicologia e dall’Associazione Italiana di Sociologia, già nell’aprile 2014, in occasione del blocco della distribuzione degli opuscoli UNAR nelle scuole, la Società Italiana delle Storiche ha indirizzato una lettera alla Ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Stefania Giannini, per denunciare quanto grave sia stata la capitolazione delle istituzioni di fronte alle pressioni delle gerarchie ecclesiastiche. La lettera affermava la necessità di avviare nelle scuole programmi di educazione al genere che possano contribuire allo «sviluppo di una società più giusta e tollerante» attraverso la «riflessione sugli stereotipi sessuali», «nel segno di un approccio critico alle idee e ai saperi, di una lotta più consapevole contro le discriminazioni sessuali e l’omofobia». E, tra l’altro, precisava:

Non esiste […] una “teoria del gender”. Con questa categoria, usata in modo fecondo in tutta una serie di discipline che ormai costituiscono l’ambito dei gender studies, non si introduce tanto una teoria, una visione dell’essere uomo e dell’essere donna, quanto piuttosto uno strumento concettuale per poter pensare e analizzare le realtà storico-sociali delle relazioni tra i sessi in tutta la loro complessità e articolazione: senza comportare una determinata, particolare definizione della differenza tra i sessi, la categoria consente di capire come non ci sia stato e non ci sia un solo modo di essere uomini e donne, ma una molteplicità di identità e di esperienze, varie nel tempo e nello spazio. Proprio per la sua notevole capacità analitica e il suo carattere non prescrittivo il gender ha aperto nuove e importanti direttrici di ricerca che nella comunità scientifica e nell’insegnamento superiore di molti paesi sono ormai riconosciuti e sostenuti, a differenza di quanto accade nel nostro Paese: del resto, la disinformazione di cui stiamo avendo prova in queste settimane conferma ampiamente il ritardo cumulato [4].

Il documento della Società Italiana delle Storiche insiste, quindi, sulla natura critica ed euristica, non dogmatica né normativa, del concetto di gender all’interno del settore disciplinare degli studi di genere. Non per dar loro torto, ma anzi per rafforzare ulteriormente ciò che esse sostengono, sarebbe però più opportuno considerare “gender” non come un concetto dotato di una natura stabile e di un significato univoco, ma come un significante fluttuante. Ancor meglio, come un dispositivo concettuale che in breve tempo ha prodotto configurazioni teoriche, soggettività politiche e posizionamenti strategici differenti e spesso discordanti. Senza pretese di esaustività, la seconda parte di questo articolo tenterà di restituire al lemma la sua ricchezza e complessità, fornendo una schematica ricostruzione della storia delle sue variazioni di significato e delle culture politiche che queste hanno generato.

Un campo di sapere vasto e variegato

Ne La volonté de savoir, primo volume della Storia della sessualità, Michel Foucault [5] sostiene che il concetto di omosessualità sia stato coniato nel 1870 dal sessuologo tedesco Karl Friedrich Westphal; ma Westphal introdusse il concetto di “sexual inversion”, che non faceva distinzione tra quelle condizioni che oggi chiamiamo “omosessualità” e “transessualità/transgenderismo”, e interpretava entrambe come “inversione” tra gli elementi maschili e femminili della personalità. In realtà, soltanto l’introduzione della categoria di gender ha permesso ai medici di distinguere omosessualità e transessualità. La prima formulazione del nuovo concetto si trova negli studi sull’intersessualità e la transessualità elaborati a metà degli anni ‘50 del XX secolo dal gruppo di ricerca del Johns Hopkins Hospital di Baltimora, guidato dallo psicologo John Money. La sua funzione è, inizialmente, distinguere la dimensione sociale e psicologica della differenza sessuale (identificarsi come uomo o donna a seconda dei modelli di mascolinità e femminilità della propria cultura) da altre componenti della sessualità: il sesso biologico (maschile o femminile) e l’orientamento sessuale (omosessuale o eterosessuale).

Dalla sessuologia, il concetto di gender si diffonde poi nelle scienze sociali e nel pensiero politico, dove produce un intenso dibattito. Negli anni ‘70 è utilizzato dal femminismo di “seconda ondata” per denunciare la naturalizzazione dei ruoli culturali che perpetuano la subordinazione delle donne agli uomini nelle società patriarcali [6]. Ma quasi subito, in polemica con l’insistenza del femminismo sulla sola differenza sessuale tra uomini e donne, alcune pensatrici lesbiche iniziano a proporre un uso del concetto al di fuori del suo significato originario.

Già nei tardi anni ‘70, Monique Wittig [7] sostiene che «la lesbica non è una donna», ma un genere a sé stante, argomentando che in una cultura eterosessista in cui l’identità femminile è definita dalla sua complementarietà con quella maschile, il sentimento di appartenenza della lesbica all’identità femminile non può che essere parziale. Nei primi anni ‘90, Judith Butler [8] rielabora le riflessioni sulla storia della sessualità di Foucault e le intuizioni del pensiero lesbofemminista a lei precedente e rivendica la priorità logica della discriminazione per orientamento sessuale sulla discriminazione delle donne. A suo avviso è la “eterosessualità obbligatoria” a imporre ruoli stereotipati alle donne e agli uomini nelle società patriarcali, e non può quindi esserci liberazione definitiva delle donne eterosessuali dal regime patriarcale senza liberazione delle donne e degli uomini omosessuali e trans.

Per queste tesi Butler è considerata, assieme a Eve Kosofsky Sedgwick e Teresa de Lauretis, l’iniziatrice delle teorie queer, e infatti i suoi libri propongono di “queerizzare” il gender sostenendo che le sperimentazioni identitarie delle comunità LGBTQI rendano pensabile una proliferazione dei generi oltre il binarismo donna/uomo. Altre pensatrici femministe e lesbofemministe hanno ipotizzato addirittura che nel mondo globalizzato del capitalismo avanzato il genere, se inteso esclusivamente come distinzione e complementarietà del maschile e del femminile, stia per diventare un concetto obsoleto perché la diffusione di chirurgia estetica, riproduzione assistita, protesi sessuali, realtà virtuale sta conducendo l’umanità in un’era “post-gender” e “post-umana” in cui le identificazioni sessuali tradizionali risulteranno per sempre decostruite e riconfigurate in modi imprevisti [9].

È comprensibile che questa diagnosi del presente, condotta con toni di entusiastica adesione e accompagnata dal plauso per il supposto definitivo sgretolarsi dell’ordine patriarcale, generi preoccupazioni presso una Chiesa il cui Papa continua a essere chiamato “Santo Padre”. Meno lo è che il conservatorismo cattolico trovi sponda, in Italia, in un certo femminismo. In ogni caso, ciò a cui qui occorre almeno far cenno, al fine di testimoniare la pluralità di voci che partecipano a quel dibattito che viene frettolosamente e approssimativamente unificato sotto l’etichetta di “teoria del gender”, è che se in Europa oggi sono per lo più movimenti reazionari a opporsi agli effetti sociali e giuridici della diffusione del concetto di gender, nell’America del Nord a contestarne alcune interpretazioni (ma non certo l’educazione al genere intesa come educazione al rispetto delle minoranze sessuali) nel nome di autorità teoriche del passato sono stati esponenti delle stesse teorie queer. Già nei primi anni ‘90 la pensatrice lesbofemminista Teresa de Lauretis [10] ha messo in luce che intersecando gli assi di sesso, genere e orientamento sessuale, i fattori “razza” e “classe” impediscono di pensare donne, lesbiche, gay, trans come soggetti politici unitari.

In anni più recenti sono stati invece soprattutto alcuni teorici gay e transgender a denunciare che l’inclusione sociale promossa dal concetto di identità di genere (se astratto dalle dimensioni materiali delle pratiche sessuali) comporta l’adeguamento delle minoranze sessuali a stili di vita che le società liberali statunitensi ed europee già prevedono per le persone eterosessuali e provoca l’esclusione di chi non può o non vuole uniformarsi agli standard di rispettabilità di tali società. José Esteban Muñoz (1999, 2009) ha ad esempio mostrato che il tempo in cui vivono docenti universitarie angloamericane o nordeuropee che hanno accesso alle tecniche di riproduzione assistita e frequentano ambienti progressisti coesiste con quello in cui vivono soggetti appartenenti a minoranze sessuali di livello culturale meno elevato e di ceti meno abbienti, costretti a confrontarsi con l’omotransbifobia ancora ben radicata nei loro ambienti di vita; e che la percezione di sé di questi soggetti, lungi dall’essere “post-gender”, è talvolta informata da schemi interpretativi che provengono da prima che la distinzione sesso-genere-orientamento sessuale divenisse senso comune.

Autori come Leo Bersani, Lee Edelman, Judith “Jack” Halbestam hanno invece contestato la visione disincarnata della sessualità prodotta dagli studi di genere e hanno proposto un ritorno delle teorie queer a un’analisi materialistica della sessualità effettuata con gli strumenti interpretativi della psicoanalisi. Infine, James Penney [11], seguendo la scia della “Marx renaissance” che ha fatto seguito alla crisi economica del 2008, ha proposto di abbandonare le teorie queer, gli studi di genere, Foucault e tutto il post-strutturalismo per recuperare le tesi della Scuola di Francoforte, e quindi di Freud e di Marx. Ma naturalmente, neppure quella di Penney è l’ultima parola: in molte e molti, tra cui l’autore di questo articolo, restano convinti che le minoranze sessuali non abbiano bisogno di giustificare le loro rivendicazioni facendo appello a quella idea di totalità che è sempre stata utilizzata per discriminarle ed escluderle. Lungi dall’essere stati definitivamente liquidati, gli studi di genere e le teorie queer continuano a essere praticati nelle università e nella società, e le fluttuazioni del significante “gender” continuano a turbare chi, in nome di quel Dio che nel pensiero occidentale dell’universale è diventato archetipo, vorrebbe imporre un ordine stabile alla sessualità.

Conclusione: Timeo Danaos …

In quei campi di sapere vasti e variegati che sono gli studi di genere e le teorie queer, il gender è quindi un operatore discorsivo che nel corso di poco più di mezzo secolo, lungi dall’essersi irrigidito in un’ideologia dogmatica, ha suscitato una vivace discussione critica, capace talvolta, ancora oggi, di acquistare i toni di un’accesa polemica. A farne un feticcio ideologico, negli ultimi anni, è stato piuttosto quel discorso cattolico – il cui scopo non è la ricerca teorica ma la persuasione retorica – che costituisce la cornice all’interno della quale attualmente vengono discusse anche le possibili “aperture” della Chiesa di Bergoglio alle donne e agli uomini omosessuali. «Timeo Danaos et dona ferentes» (Eneide II, 49), disse il povero Laocoonte di fronte al cavallo di Troia. Nessuno, sfortunatamente, lo ascoltò.

 

Note

[1] LGBTQI è la sigla ormai comunemente usata per indicare persone lesbiche, gay, bisessuali, transessuali/transgender, queer, intersex

Transessuale/transgender/trans

Il termine di origine medica “transessuale” indica quei soggetti che sviluppano una definita identità di genere (maschile o femminile) opposta al sesso di nascita e adeguano il proprio corpo alla propria identità con uso di ormoni e chirurgia estetica. Il termine “transgender”, entrato in uso dopo la pubblicazione del pamphlet Transgender Libertation (Feinberg 1992) indica invece quei soggetti che, pur avendo un’identità di genere non conforme al sesso di nascita, non aderiscono pienamente al genere opposto, ma trovano più adatta a sé una collocazione intermedia tra il maschile e il femminile: di conseguenza essi intervengono con terapie ormonali e operazioni chirurgiche per modificare soltanto alcuni caratteri sessuali del proprio corpo, e non altri. Il movimento transessuale/transgender utilizza spesso “trans” per indicare entrambe le condizioni.

Queer

«Queer» (traducibile in italiano con “strano”, “bizzarro”, ma anche con “checca”, “frocio”) è un termine polisemico, la cui ricchezza consiste nel dover essere definito a ogni suo uso, o al contrario nel poter essere utilizzato senza essere compiutamente definito. Da un punto di vista politico, caratterizza pratiche radicali volte a contrastare non solo maschilismo, eterosessismo, omotransfobia, ma anche bifobia, omotransnormatività, omonazionalismo e pinkwashing. Da un punto di vista teorico, indica l’atteggiamento critico di quegli autori e quelle autrici che fanno del sessuale un motivo di ricerca infinita, sfidando le convenzioni del senso comune e oltrepassando talvolta i limiti del politicamente corretto.

Intersex

Il termine “intersex” e l’acronimo “dsd” (disorder of sexual development) sono sinonimi e si riferiscono a una varietà di condizioni fisiche in cui una persona non rientra nelle caratteristiche “standard” del maschile o del femminile perché nata con un’anatomia sessuale o un corredo genetico atipici, o perché le sue ghiandole producono quantità atipiche di ormoni sessuali. Alcuni movimenti intersex rifiutano l’uso del termine medico “dsd”, rivendicando il carattere niente affatto “disordinato” della loro condizione.

[2] Sara Garbagnoli, “L’ideologia del genere”: l’irresistibile ascesa di un’invenzione retorica vaticana contro la denaturalizzazione dell’ordine sessuale, in AG AboutGender, International Journal of Gender Studies, n. 6, 2014, p. 395.

[3] Tony Anatrella, La teoria del “gender” e l’origine dell’omosessualità, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2012, pp. 36-38.

[4] Il testo è consultabile all’indirizzo http://www.societadellestoriche.it/images/sisnew2013/didattica/LetteraSI…

[5] Michel Foucault, La volonté de savoir. Histoire de la sexualité I, Gallimard, Paris 1976.

[6] Si vedano in particolare N. Chodorow, The Reproduction of Mothering: Psychoanalysis and the Sociology of Gender, The Regents of the University of California, Berkeley and Los Angeles 1978; e C. Gilligan, In a Different Voice: Psychological Theory and Women’s Development, Harvard University Press, Cambridge 1982.

[7] Monique Wittig, The Straight Mind, in Feminist Issue, n. 1, 1980.

[8] Judit Butler, Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, London-New York 1990; id., Undoing Gender, Routledge, London-New York 2004.

[9] Rosi Braidotti, The Posthuman, Polity Press, Cambridge 2013.

[10] Teresa de Lauretis, Queer Theory: Lesbian and Gay Sexualities: an Introduction, in Differences, n. 3, 1991.

[11] James Penney, After Queer Theory: The Limits of Sexual Politics, Pluto Press, London 2014.

 

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Lorenzo Bernini è ricercatore di Filosofia politica presso l’Università di Verona, dove coordina il Centro di ricerca PoliTeSse – Politiche e Teorie della Sessualità. Il suo ultimo libro, pubblicato nel 2013, si intitola Apocalissi queer: Elementi di teoria antisociale. Da circa vent’anni milita nel movimento LGBTQI italiano ed è simpatizzante dell’UAAR. Da circa dieci si è sbattezzato.

(Una prima e più ampia versione di questo articolo è uscita sulla rivista Cambio, anno IV, n. 8, dicembre 2014)