Dio senza arte. Arte senza Dio

di Francesco D’Alpa

 

Nel concludere, nel 2009, i lavori del convegno internazionale “Dio oggi. Con Lui o senza di Lui cambia tutto”, Rino Fisichella, Presidente della Pontificia Accademia per la vita e Rettore della Pontificia Università Lateranense, si è espresso categoricamente: «L’arte, la letteratura, la musica […] scomparirebbero per i quattro quinti se Dio non esistesse […] l’arte sarebbe solo frutto di fantasia senza rapporto con il reale, applicazione di linee senza un perché di senso; la letteratura e la musica sarebbero ridotti a versi e note dettate dal sentimento passeggero senza un aggancio con la solidità della persona a cui poterli indirizzare» [1]. Concetti ampiamente condivisi da Benedetto XVI: «la Chiesa era madre delle arti per secoli e secoli, il grande tesoro dell’arte, musica architettura pittura, è nato dalla fede nella Chiesa. Oggi c’è un certo dissenso, ma questo fa male sia all’arte sia alla fede: l’arte che perdesse la radice della trascendenza, non andrebbe più verso Dio, sarebbe un’arte dimezzata, perderebbe la radice viva; e una fede che avesse l’arte solo nel passato, non sarebbe più fede nel presente, ed è oggi che si deve esprimere di nuovo come verità che è sempre presente» [2].

A seguire, mons. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, ha parlato di “connubio infranto” tra arte e fede, in un’epoca in cui “l’esperienza della fede cristiana non è più l’orizzonte condiviso della società” e la Chiesa ha perso quel ruolo di straordinario committente d’arte assunto per secoli [3].

Al centro della querela ci sono alcuni tradizionali concetti “forti” della cattolicità: Reale, Verità, Bellezza; ma anche (pro domo sua) l’ideale artistico idealizzato come incontro il volto, quello di dio (o di Cristo): forse il soggetto più comune nella storia dell’arte. Perché, sempre secondo Fisichella, «il mistero dell’incarnazione apre la strada per comprendere un Dio che non permane relegato nella sua trascendenza, ma rinuncia all’onore che gli è dovuto per farsi uomo con gli uomini ed insegnare loro la strada per entrare in comunione di vita con lui». Dunque un dio rappresentabile (antropomorficamente) anche in termini di bellezza per eccellenza. Partiamo dunque da qui, per inquadrare brevemente alcuni temi su cui svolgere il discorso sull’arte, relativamente alla presenza o meno in essa del dio cristiano e del sacro in genere.

 

Primo quadro: la rappresentabilità di dio. «Non ti farai scultura alcuna né immagine alcuna delle cose che sono lassù nei cieli o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra» [Esodo, 20:4]. Nell’ebraismo poche cose sono chiare come il divieto mosaico, al quale il cristianesimo ha risposto con ben poca coerenza, moltiplicando piuttosto all’infinito le rappresentazioni idolatriche di Cristi, madonne e santi; non senza sanguinosi contrasti interni al tempo delle questioni iconoclastiche; mentre, al contrario, l’islamismo si è attenuto, sostanzialmente esasperandole, alle prescrizioni della comune radice ebraica.

Alla idolatria delle immagini sacre si sono ovviamente aggiunte altre ragioni di rappresentazione religiosa: fra queste, l’esigenza di raccontare visivamente al popolo illetterato le storie delle Sacre Scritture, con conseguente sterminata produzione monocorde, nella quale l’essenzialità delle storie narrate è stata variamente arricchita di sfumature e significati a seconda della cultura, del gusto, delle capacità interpretative e rappresentative dell’artista di turno. In tal modo l’arte si è resa quanto mai funzionale alla religione ed alla chiesa, perché ha parlato all’uomo comune in termini assolutamente comprensibili, ben al di qua di ogni astrattismo teologico.

Nel tempo, questo parlare per immagini ha ovviamente perso significato; tanto più oggi, in un tempo caratterizzato da un proliferare senza precedenti dell’immagine, nel quale è proprio l’immagine reale di dio a mancare, non essendo coglibile nel reale quotidiano.

Secondo quadro: ispirazione e committenza. Se è vero che la simbologia cristiana è stata a lungo la principale fonte ispiratrice dei più grandi capolavori della storia dell’arte, è altrettanto vero che la ragione di ciò va ricercata essenzialmente nel rapporto fra artisti e committenti: ordini monastici e sacerdotali; mecenati e collezionisti laici, più o meno devoti. D’altra parte, soggetto religioso non vuol dire necessariamente opera di artista religioso, ed altrettanto acquisire dipinti a contenuto religioso non vuol dire compiere una scelta devozionale; ed in effetti gli artisti hanno sempre lavorato per chi li ha pagati (altrettanto è successo nel mondo musicale: basti pensare alle limitazioni e divieti imposti per secoli alle rappresentazioni profane, ed al ruolo succube dei musicisti, più o meno fino alla rivoluzione ottocentesca). Inversamente, il diradarsi nei secoli della produzione di opere a tema religioso è più un fenomeno di mercato che effetto di un abbandono della fede.

Terzo quadro: l’uomo. Si sostiene, da parte credente, che l’arte senza dio, impedendo un’apertura al trascendente e riducendo l’uomo a materia pura, non può risolvere le sue aspirazioni e contraddizioni. Affermazione tutta da verificare, visto che la religione si dimostra sempre più incapace, nel mondo attuale, di entrare nel quotidiano. L’arte a contenuto religioso è oggi per lo più solo residua iconografia funzionale al culto, laddove l’arte per eccellenza è invece efficace strumento di ricerca orientata sull’uomo e sulla sua interiorità, ed in quanto tale passibile semmai solo di avvicinarsi (o riavvicinarsi) ad una generica spiritualità, più che ad una religione istituzionale. Alle stereotipate rappresentazioni di santi, crocifissi, sacre famiglie e adorazioni dei Magi ben si contrappongono così ad esempio i campi di Van Gogh; in antitesi all’entusiasmo fideistico, in uno dei più acclamati dipinti del Novecento, Munch ritrae la lacerante sofferenza di un uomo senza dio, il suo grido di sconfitta al cospetto del nulla che lo avvolge.

Quarto quadro: l’abbandono di dio. Torniamo al cardinale Fisichella, che sostiene: «Nel mondo di oggi Dio non è negato, è sconosciuto. […] ma i credenti non possono permettere che Dio rimanga un termine privo di senso. […] La crisi odierna è determinata dal potere e sapere parlare di Dio; la cosa non può lasciare neutrali soprattutto a oltre quarant’anni dal Vaticano Secondo che aveva tra i suoi scopi quello di parlare di Dio all’uomo di oggi in modo comprensibile» [1]. Il tema è quanto mai importante. Una delle forme di arretramento della religione rispetto all’avanzare della modernità è stato proprio l’eclissarsi del sacro nell’arte, non solo nella pittura e scultura, ma più clamorosamente nell’architettura. Fatte salve poche faraoniche eccezioni (vedi il recente santuario di San Giovanni Rotondo) le chiese moderne sono essenziali e disadorne nel migliore dei casi, spesso decisamente brutte, fredde: «chiese che assomigliano ad enormi garage, blocchi cupi di piombo, architetture avveniristiche capaci di far pensare a tutto tranne che a una chiesa» [2]. Se il dio cristiano è bellezza, costruirle tali è per molti cattolici un insulto alla bellezza. Inoltre i moderni progettisti privilegiano il dato architettonico ad assoluto discapito delle consuetudini ed esigenze della liturgia. L’ultimo valido esaltato modello resterebbe la Sagrada Familia di Barcellona, peraltro progettata da Gaudì guardando al Medioevo, ben prima che si concretizzasse definitivamente la frattura fra arte e visione cristiana, e che dunque in senso stretto ben poco può definirsi arte moderna. Da qui l’esigenza, per i cattolici, di tornare all’antico, quando l’incontro fra arte e fede si supponeva iscritto nella essenza stessa della fede, forse anche per riappropriarsi dell’immaginario popolare tramite lo stupore.

Quinto quadro: la crisi del sacro. Nel Medioevo e poi nell’umanesimo, la cattedrale era metafora dell’ordine cosmico e politico, l’arte religiosa era allegoria della presenza di dio in mezzo agli uomini, mezzo visivo di comunicazione e catechesi, espressione del contesto
liturgico-simbolico. Oggi, invece, la religione come tale non è più un tema dell’arte: i moderni templi dello spirito sono i musei (con i loro visitatori pellegrini e penitenti, in adorazione dei capolavori), che hanno quasi del tutto sostituito le cattedrali, senza che si possa per questo parlare di ritorno alla spiritualità in senso religioso classico, giacché quella moderna è una spiritualità (o una parvenza di spiritualità) tutta secolare [3]. I moderni devoti compiono i loro riti affettivo-consolatori sgranando compulsivamente messaggini sui touch-screen, così come le loro nonne o bisnonne si mantenevano in contatto con le parti invisibili del mondo (da cui avevano bisogno di essere pensate e amate) tramite il rosario. Devozione, gratificazione e fidelizzazione sono d’altra parte le caratteristiche distintive del mondo del commercio, che ha ampiamente sostituito i suoi riti a quelli della religione; e l’appeal di un centro commerciale riesce ben più efficace di quello di una chiesa. I riti che si svolgono nelle chiese moderne (i funerali, ma ancor più i battesimi) patiscono un clima di estemporaneità, una atmosfera disadorna, una ben visibile indifferenza al culto, assai simili a ciò che generalmente contraddistingue le cerimonie civili.

L’arte religiosa ha perso la bussola, e residua quasi come sottospecie di quella profana. Non si tratta, genericamente parlando, di crisi dello spirito, ma proprio di crisi del modello religioso, che l’uomo moderno è sempre meno in grado di leggere, e che riscopre semmai solo laddove viene adoperato a scopo provocatorio e con ampio clamore dei media (vedi il Piss Christ di Serrano, la rana crocifissa di Kippenberger, il Wojtyla schiantato da un meteorite di Cattelan). A ciò si aggiunge la crisi estetica determinata dalla concettualizzazione del prodotto artistico, che a partire dal romanticismo ha progressivamente allentato ed infine rotto definitivamente (e paradossalmente proprio nel mondo cristiano e non in quello delle altre principali religioni) il rapporto fra forma e contenuto tramandatoci dall’arte classica.

Sesto quadro: il reale, la bellezza, la verità. La tanto esaltata bellezza dei quadri rinascimentali è solo superficialmente una bellezza religiosa. Caravaggio, tanto per fare un esempio, era uomo tutt’altro che spirituale, più volte giudicato e condannato nonostante i suoi meriti artistici: i suoi personaggi riflettevano con profonda umanità fattezze ed emozioni della vita quotidiana: assassinii, risse, popolani, briganti, prostitute. Al bello ideale della rappresentazione (all’armonia di derivazione classica) egli contrapponeva palesemente il tumulto delle ordinarie passioni; la sua ricerca di senso era senza dio più che con dio. Ma in barba a ciò, le sue opere producono quell’incanto estetico che avvicinerebbe a dio, a motivo del soggetto commissionato e rappresentato.

Nel mondo attuale, lamentano i cattolici, venendo meno la spinta al sacro si è invece spenta la vocazione alla bellezza. Secondo il filosofo Roger Scruton, non solo l’arte ma tutta la cultura post-moderna sembrano concentrarsi sulla bruttezza, sulla dissacrazione (delle cose, della forma umana, dello spirito dell’uomo), sulla pornografia sessuale, sulla violenza, proprio come difesa dal potere del sacro, perché la bellezza ricondurrebbe inevitabilmente al sacro; si tratterebbe di una voluta negazione dell’amore, di un tentativo di rifare il mondo come se l’amore non ne facesse più parte [4].

Settimo quadro: relativismo e degenerazione. Limitiamoci ad un esempio recente. Inaugurando nel 2007 il museo di arte religiosa “Kolumba” di Colonia, il cardinale Joachin Mesner ha pesantemente criticato tutto ciò che nell’arte (e nella cultura in genere) si distacca dalla cristianità: «Quando la cultura si distacca dal culto e dalla venerazione di Dio, il culto si irrigidisce nel ritualismo e la cultura degenera» [5]. Ahinoi! Gli stessi toni di un Joseph Goebbels (che mise al bando ogni sorta di espressione artistica considerata degenerata rispetto al canone nazista) o parimenti di un Andrej Aleksandrovic Zdanov (che fece altrettanto nel secondo dopoguerra sovietico, contro decadentismo, idealismo, pessimismo e tutto ciò che appariva occidentalismo).

Ottavo quadro: la morte dell’arte. L’arte rinascimentale, ovvero quella ritenuta dai più “Arte” per eccellenza, era soprattutto arte omologata da una committenza onnipotente, rappresentativa di un paradiso o di un inferno statici, promessi dalla religione ad un pubblico di timorati di dio (per scelta o per forza). Secondo i denigratori della modernità la nascita del realismo, proponendo visioni della vita e del sociale sempre meno uniformi, ed invece originali e spesso controcorrente, avrebbe progressivamente ucciso l’arte (o almeno questo modello artistico), fino agli estremi dell’astrattismo, del cubismo, dell’espressionismo e di quant’altro è apparso successivamente. Ma è così realmente, o non piuttosto si sono semplicemente create nuove forme d’arte, con un ampio e quanto mai variegato numero di nuovi soggetti (e quasi assoluta esclusione del trascendente e metafisico).

 

Ciò spiega perché la fotografia (o più recentemente la videoripresa) sia divenuta più che la pittura o la scultura il vero specchio della nostra società: in quanto parla di storie e di paesaggi reali; in quanto adogmatica, in quanto laica e spesso blasfema. L’artista contemporaneo, non dovendo produrre per il clero o per il potere in genere, può finalmente scegliere liberamente soggetti, modi e tempi del suo lavoro; approvare ma anche criticare, tramite il suo lavoro; sostituire al vero ideale ed alla astratta bellezza il banale quotidiano e gli oggetti di uso comune.

In definitiva, l’arte moderna è quanto mai lontana da regole e canoni prestabiliti (meno che mai quelli religiosi); è contro l’abitudine e la normalizzazione, relativista, senza valori, senza certezze, dissacratoria; coltiva il pensiero laterale e la coscienza critica; guarda al mondo come è realmente, con tutta la sua gamma di possibilità, negative o positive; difende la libertà intellettuale e il portato sociale, prima del gusto: un’arte irreversibilmente senza sarcedoti, senza inqusitori, senza dio.

 

Note

[1] Le principali relazioni di questo Convegno sono contenute nel volume “Dio oggi. Con lui o senza di lui cambia tutto” (Edizioni Cantagalli, dicembre 2010).

[2] Andrea Tornielli, Sagrada Familia, un’arte che avvicina a Dio, 9 novembre 2010.

[3] Cfr. Andrea Dall’Asta, Ma la vera arte del ‘900 non ha divorziato dal sacro, Avvenire, 13 giugno 2013.

[4] Cfr. Roger Scruton, Ritorniamo a percorrere la via positiva della bellezza.

[5] Esse Emme, Bowling a Kolumba.