La religione, la violenza e il dubbio

di Giuseppe F. Merenda

 

 

Fra le tante interpretazioni che sono state avanzate sulla etimologia del termine religione la più accettabile, per chi appartiene alla schiera dei razionalisti, è quella che lo fa derivare dalla radice latina re-ligare, con il significato che gli volle dare Lucrezio e cioè di «legarsi a certe pratiche», ovvero di «legarsi al culto degli dèi» come successivamente specificarono Lattanzio e Servio. Religione per Lucrezio è il contrario di liberazione. L’uomo è trattenuto, è impedito dal pensare religioso. Ha le mani «legate dietro la schiena» dai «nodi stretti» della religione. Solo la razionalità può squarciare le tenebre della oscurità mentre la religione è «bovina ignoranza» [1].

Mettendo da parte l’impietoso giudizio di Lucrezio sulla religione, resta il significato di “religare” nel senso del legarsi insieme degli uomini in comuni credenze, regole, usanze e aspettative escatologiche. È quello che i nostri antenati fecero sin dagli albori del loro vivere consapevole sulla terra raggruppandosi nelle prime organizzazioni sociali di cacciatori e di raccoglitori chiamate da Freud «orde primitive» e mettendo in opera la necessità di unirsi, di consorziarsi. Questi primordiali vincoli di alleanza si consolidarono per tanti motivi, primariamente per fronteggiare i pericoli provenienti dalla natura, poi per condividere l’angoscia del futuro e il senso di colpa per il presente, seriormente per attendere insieme la punizione chiamata “morte”, conseguenza del peccato originale di avere ucciso il padre e infine per limitare gli atti di violenza e di concupiscenza ai danni delle madri, dei figli, dei fratelli e delle sorelle.

Essendo fondamentale vivere insieme, era opportuno che tutti seguissero delle regole codificate da esseri autorevoli. S’inventarono così uno o più esseri superiori, dotati di poteri sovrannaturali, i Grandi Dei [2], capaci di sovraintendere al rispetto delle norme sociali e morali. Occorreva che le regole fossero riportate su “tavole della legge” o fissate su testi sacri. Occorreva che la imago del padre assassinato [3] fosse trasformata nel “sacro totem” di un essere incombente. Occorreva che gli esseri che lo rappresentavano sulla terra (sciamani, stregoni, sacerdoti) fossero anche loro considerati sacri e intoccabili. Occorreva che fossero attuati dei rituali propiziatori di sacrificio, di invocazione e di partecipazione universale. Si formarono così le credenze religiose, le superstizioni, le fedi e le religioni.

Progressivamente le primitive orde si trasformarono in comunità e con il rafforzarsi dei processi di partecipazione e di solidarietà vennero poste le basi etico-religiose delle culture umane. Il costituirsi di queste basi etico-religiose-culturali è stato di assoluta importanza per l’affermarsi della prima delle leggi biologiche, ovvero la legge della conservazione delle specie. Le religioni, traducendo le tendenze morali in precetti e prescrivendo delle regole di comportamento, hanno contribuito alla preservazione genetica, alla diffusione dei processi evolutivi e alla protezione della prole. Il timore di un continuo controllo dall’alto da parte di un “Grande Occhio”, rende molto più difficile «desiderare la donna d’altri» e inseminare donne appartenenti ad altri. La proibizione di comportamenti sessuali non finalizzati alla riproduzione, serve a non sprecare il seme in rapporti preternaturali, così come, all’opposto, l’istituzione del tabù dell’incesto serve a favorire gli scambi genetici. La rigidità delle imposizioni religiose orientate al controllo dei comportamenti femminili è un forte deterrente per evitare la immissione di caratteri genetici estranei. Le prescrizioni alimentari, la proibizione di mangiare cibi che in certe zone del pianeta possono facilmente avariarsi, sono servite a ridurre le possibilità che i fedeli contraessero malattie gastroenteriche. L’obbligo di lavarsi mani, piedi e denti prima di entrare negli edifici sacri ha avuto valide ripercussioni igieniche.

Tuttavia, riguardo al controllo della violenza, le regole, i riti e i dogmi religiosi sono riusciti a limitare solo le violenze interne. Se gli appartenenti a una fede religiosa riescono a controllare l’aggressività verso i propri correligionari, non così fanno nei confronti degli appartenenti alle altre fedi. Confrontarsi con gli altri (per definizione gli “infedeli”) vuol dire mettere in atto palesemente o inconsapevolmente la volontà di attrarli, di sedurli, di lusingarli, di convertirli, di imporgli il proprio dio, di punirli se riottosi, di eliminarli se oppositivi. E non potrebbe essere diversamente perché la religione e la violenza ideologica sono due patologie del pensare e dell’agire umano. Andando oltre il pensiero di Freud che definiva le religioni «nevrosi collettive», in molti casi le religioni sono dei veri e propri «deliri sistematizzati». Questo assioma, come tutti gli assiomi, non necessita di dimostrazione. È purtroppo facile constatare come il miscelarsi di religione e di violenza abbia portato e porti a guerre, a massacri, a bagni di sangue.

Alcuni studiosi con radici fideistiche sostengono che opponendosi alla violenza le religioni hanno favorito la nascita della legge morale nell’uomo. Ipotesi da giudicare infondata. La legge morale dentro di noi è nata prima delle leggi religiose. Sottolinea Frans de Waal che «molto tempo prima dell’origine delle religioni attuali i neandertaliani e gli uomini primitivi già si prendevano cura degli handicappati» [4]. La morale è nata dopo la violenza ma certamente è anteriore alle religioni, la più antica delle quali non ha più di 2600 anni. I comportamenti morali dell’uomo, che i credenti vorrebbero stimolati esclusivamente dall’influenza di dettami divini, sono frutto della evoluzione naturale e derivano da modi di agire presenti in tutti i mammiferi superiori con i quali condividiamo la socializzazione, le tenerezze affettive, i corteggiamenti sessuali, i gesti di altruismo, l’istinto di protezione e gli stimoli epimeletici [5].

Gli uomini, i primati e i mammiferi “apprendono” la moralità relazionandosi singolarmente e collettivamente con gli altri e con il gruppo. Questo avviene, dice ancora de Waal, perché le emozioni sono alle radici della moralità [6]. Ma le emozioni sono pure alla base della violenza fisica, che è un comportamento comune all’uomo e a tutte le specie animali, con la differenza che gli uomini sono mentalmente attrezzati a trovare pretesti ideologici giustificativi delle loro azioni. Per esempio, se è Dio a indicare il nemico, l’infedele da eliminare, non si può disobbedire a Dio, e se qualcuno offende Dio e ciò che è sacro, è giusto che sia punito, che venga ucciso, massacrato. Dio e il sacro. Se è impossibile dire cosa è Dio, si può tentare di definire il sacro. Il termine “sacro”, derivato dal latino arcaico “sakros”, indica qualcosa a cui è stata conferita una validità, una alterità, una cosa diversa rispetto all’ordinario, al comune, al profano. Il problema è: chi decide che una cosa è sacra, chi conferisce “alterità” e/o “sacralità” alle cose?

Proviamo ora ad analizzare tre episodi significativi:

  • 9 luglio 2006. Mancano pochi minuti al termine della finale dei mondiali di calcio fra Italia e Francia. Improvvisamente il calciatore Zidane dà una testata al calciatore Materazzi. Viene espulso e l’Italia vince. Motivo della testata? La frase offensiva di Materazzi a Zidane: «Puttana di tua sorella».
  • 7 gennaio 2015. Due terroristi islamici entrano nella sede di Charlie Hedbo e ammazzano dodici persone ferendone undici. Motivo delle strage? I redattori avevano pubblicato frasi blasfeme e vignette offensive sul profeta Maometto.
  • 15 gennaio 2015. Jorge Bergoglio, vicario di Dio sulla terra con il nome d’arte di Francesco, rispondendo alla domanda di un giornalista, afferma: «Se uno dice una parolaccia a mia madre gli do un pugno».

Questi episodi mi hanno ricordato quando a otto-dieci anni giocavo con altri ragazzini a calcio per strada con una palla di pezza. Negli alterchi causati dal gioco, l’offesa che provocava la reazione fisica più feroce era l’allusione alla illibatezza della madre. Si scatenava la violenza. Erano comportamenti impulsivi e infantili, certamente, ma perfettamente uguali alle reazioni attuate da Zidane, dagli integralisti islamici e dal papa Bergoglio. Qual è l’offesa che fa scattare queste reazioni infantili, da alcuni definite animalesche? L’offesa consiste nel fatto che le mamme, le sorelle, gli dèi, i santi e i profeti fanno parte del sacro, sono concetti sacri, sono tabù che non possono essere derisi, insultati e i cui valori fisici, morali e sovrannaturali non possono essere messi in discussione, perché quando questo accade è obbligatorio reagire violentemente contro chi ha offeso le virtù e la sacralità degli idoli. Ma perché l’irrisione, l’offesa di ciò che è considerato sacro è così insopportabile che si deve agire con brutali ritorsioni? Perché chi offende il sacro mette in dubbio la validità del sacro, la certezza assoluta che rappresenta il sacro. Zidane non può avere dubbi sulla moralità di sua sorella, i terroristi non possono dubitare della identità di genere del loro profeta, Bergoglio deve essere certo della fedeltà di sua madre a suo padre. Pertanto ogni volta che un gesto, una frase, un’allusione insinuano il dubbio sulla veridicità di un dogma, ineluttabilmente deve scattare la violenza. È talmente intollerabile pensare che colui che mette in dubbio una certezza possa avere ragione, che bisogna farlo tacere, ucciderlo, eliminarlo. Il tormento del dubbio è troppo opprimente. Meglio uccidere che dubitare.

E infatti, gli appartenenti a tutte le caste religiose, per evitare che il dubbio sia esteso al loro sacro, esercitando forti pressioni politiche vogliono che esso sia tutelato, vogliono che sia lo Stato a proteggere il loro credo religioso. Non essendo in grado di chetare fideisticamente i loro dubbi, pretendono che sia la legge a garantire i loro deliri, ottenendo talora il non insignificante tornaconto di consolidare i propri privilegi. Concludo con un pensiero di J.W. Goethe: «Chi è nell’errore compensa con la violenza ciò che gli manca in verità e forza».

 

Note

[1] T. Lucrezio Caro, De rerum natura.

[2] Ara Norenzayan, Grandi Dei, Cortina Ed., Milano 2014.

[3] S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, Boringhieri Ed., Torino 1980, Vol. XI.

[4] Frans de Waal, Il bonobo e l’ateo, Cortina Ed., Milano 2013, pag. 117.

[5] A. e G.F. Merenda, Incontri terapeutici a quattro zampe. Gestalt therapy, Il Pozzo di Giacobbe Ed., Trapani 2014, pag. 19.

[6] Frans de Waal, Ibidem, Cortina Ed., Milano 2013, pag. 209.

 

————————

 

Giuseppe F. Merenda, psichiatra e psicoterapeuta, è l’autore di Francino, l’altra storia di Francesco d’Assisi; L’uomo che gustò la morte, l’altra storia di Gesù di Nazareth; Santuzze e Santuzzi; Storie di cani e di umani. È socio del Circolo UAAR di Venezia.