Mendel e Darwin: la nascita della biologia moderna

di Angelo Abbondandolo

 

Nell’Ottocento vedono la luce, a sette anni di distanza, due tra le grandi teorie della storia della scienza, certamente quelle che hanno maggiormente influenzato la nostra comprensione della vita sulla Terra. Sto parlando della teoria dell’evoluzione per mutazione casuale e selezione naturale che Charles Darwin presentò alla Linnean Society nel 1858 e dei princìpi che regolano la trasmissione dei caratteri ereditari, presentati da Gregor Mendel nel 1865 alla Società di Scienze Naturali di Brünn (oggi Brno).

Darwin e Mendel [1] vissero negli stessi anni, ma non s’incontrarono mai. È stato detto spesso che questo fu un vero peccato, perché Darwin ignorava, come del resto tutti all’epoca, il meccanismo di trasmissione dei caratteri ereditari e ciò costituiva un punto debole della sua teoria. Ma è proprio così che andarono le cose? Cioè Mendel che scopre come si trasmettono i geni e Darwin che, se solo avesse letto Mendel, avrebbe finalmente trovato quel tanto desiderato fondamento della sua teoria? Grosso modo sì, ma ci sono alcune domande che meritano una risposta e tanti aspetti da chiarire.

I due vissero in ambienti molto diversi: l’Inghilterra di Darwin era a quei tempi un paese leader in campo industriale e attivo non solo negli scambi commerciali, ma anche in quelli culturali. Charles era bene inserito nella comunità scientifica britannica ed aveva continue e numerose opportunità di interagire con i grandi naturalisti del suo tempo.

Mendel viveva in Moravia, una ricca regione agricola di quella che è oggi la Repubblica Ceca e a quei tempi Impero austriaco retto dalla monarchia asburgica, e passò in provincia quasi tutta la sua vita. Sì, certo, in provincia, ma il monastero agostiniano di Brünn, in cui visse e lavorò, era un posto tutt’altro che provinciale sotto il profilo culturale: possedeva una biblioteca di oltre 20.000 volumi e, grazie alla grande curiosità scientifica dell’abate Napp, era impegnato nel miglioramento di piante d’interesse agrario, una specie di stazione sperimentale ante litteram. I monasteri a quei tempi erano mèta ambita di figli cadetti di famiglie nobili o giovani con tanta voglia di studiare ma con pochi mezzi. A volte la molla non era la vocazione: farsi frate era per alcuni quello che oggi è procurarsi una borsa di studio.

A Brünn, capitale della Moravia, insieme a tante altre nacque nel 1861 la Società di Scienze Naturali, della quale Mendel fu membro. Più esattamente, fu uno dei 17 fondatori esperti nelle diverse discipline che comprendevano mineralogia, botanica, zoologia, entomologia, chimica, fisica, meccanica, astronomia, medicina, fisiologia, storia naturale e meteorologia. Si trattava di un’associazione, diremmo oggi, laica, nel senso che lo studio della natura prevedeva l’abbandono di ogni ricorso alla metafisica. Il secondo segretario, Cal Allé, espresse in versi gli scopi della Società di Scienze Naturali, dicendo in una prolusione: «… Non abbiamo interesse per la metafisica, il nostro obiettivo più autentico è svelare i princìpi della materia e le fasi del suo sviluppo …» [2].

Che la Moravia non fosse poi così isolata culturalmente è anche dimostrato dal fatto che Mendel riuscì ad acquistare molto presto una copia in tedesco dell’opera di Darwin sull’origine delle specie [3]. E lesse non solo questa ma almeno altre tre delle sue principali opere [4].

Dunque Mendel non conosceva Darwin, ma doveva conoscere bene le sue idee. Fu invece Darwin che, a quanto pare, non conobbe mai gli scritti di Mendel. Una copia dei Versuche über Pflanzen-Hybriden (Esperimenti sulle piante ibride, 1866), l’opera fondamentale del monaco di Brünn, fu, sì, ritrovata nello studio di Darwin (quasi un secolo dopo la sua morte), ma era intonsa: dunque Darwin aveva ricevuto il lavoro, ma non lo aveva mai letto. Casualità o, a voler essere maligni, segno di britannico senso di superiorità intellettuale?

Su Darwin è stato scritto moltissimo, su Mendel pochissimo. Il catalogo della Biblioteca Widener di Harvard elenca 184 titoli sulla vita e le opere di Darwin e 172 volumi di lettere. Su Mendel, ne elenca diciassette [5]. Di Darwin abbiamo una lunga autobiografia, di Mendel solo uno scarno curriculum vitae. È sorprendente questa enorme sproporzione nell’attenzione prestata a due studiosi così vicini ed ambedue così importanti per la storia della scienza. La spiegazione di Richard Lewontin [5] è che la gente è fortemente interessata al posto che noi esseri umani occupiamo nell’universo, e quindi l’argomento sollevato da Darwin affascinava allora e continua ad affascinare oggi. Invece la scoperta di Mendel, dal punto di vista filosofico, era meno interessante: per quanto importante, sembrava solo una questione di meccanismi (ma non era tutto qui, come vedremo più avanti). Eppure Mendel, come abbiamo già accennato, con le sue scoperte portava in dono a Darwin un tassello essenziale per la sua teoria dell’evoluzione. Nei suoi ultimi anni, Darwin fu tormentato da critici che trovavano insufficienti le sue spiegazioni sull’origine della variabilità biologica, fondamento della teoria evolutiva. Darwin, inoltre, non era in grado di descrivere il meccanismo attraverso il quale i caratteri premiati dalla selezione naturale erano trasmessi alla generazione successiva. La chiave, della ereditarietà, ma anche (con una forzatura interpretativa) dell’origine della variabilità, andava cercata nel lavoro di Mendel. Oggi appare addirittura ovvio che qualunque discorso sull’evoluzione non possa prescindere dalla conoscenza del meccanismo di trasmissione dei caratteri ereditari. Le mutazioni, che sono la base su cui Darwin costruì la sua teoria, si trasmettono seguendo le leggi di Mendel, affermazione che merita una digressione.

Punto centrale della teoria di Mendel è che l’informazione genetica si eredita sotto forma di elementi discreti, quelli che più tardi Wilhelm Johannsen chiamerà geni. Questa visione era diversa da quella, correntemente accettata all’epoca, che i caratteri dei genitori si fondessero, si mescolassero, nei figli. La teoria della mescolanza creava un grande imbarazzo al sostenitore della selezione naturale perché, come vedremo tra un momento, essa comporta la diminuzione della variabilità genetica con il passare delle generazioni. E se la variabilità diminuisce, viene a mancare il materiale su cui agisce la selezione. Al contrario, la teoria particellare di Mendel offriva un’ottima spiegazione per il mantenimento della variabilità genetica.

L’idea di Mendel, se ci si riflette, era sotto gli occhi di tutti: quando un maschio e una femmina mettono al mondo un figlio, questo è o maschio o femmina, non una mescolanza dei due sessi. Il sesso si eredita come elemento discreto, non è il risultato della fusione dei caratteri presenti nei genitori. Come oggi sappiamo, la stessa cosa accade per qualunque carattere ereditario.

Mi direte: non è vero, quando i genitori hanno diverso colore della pelle, ad esempio nero e bianco, la pelle dei loro figli, i mulatti, ha un colore intermedio. Certamente. Se è per questo, anche Mendel, se solo avesse scelto altre specie di piselli, avrebbe osservato la comparsa di caratteri intermedi nella progenie dei suoi incroci. Ma non facciamo confusione: ora non stiamo parlando più di geni, ma di caratteri fenotipici, cioè visibili, che sono il risultato dell’azione dei geni, non sono i geni. Gli elementi che portano l’informazione genetica, i geni, continuano ad essere elementi discreti anche in questi casi: non si fondono, non si mescolano, o ci sono o non ci sono.

Il fatto che i geni si fondano o conservino la propria individualità fa tutta la differenza quando si pensa all’evoluzione per selezione naturale. Vediamo perché. La teoria di Darwin prevede che in qualunque popolazione, di qualsiasi organismo vivente, esista una certa variabilità e che la selezione agisca promuovendo la riproduzione di una variante a preferenza di un’altra. Senza le mutazioni, eventi capaci di modificare i geni, non ci sarebbe variabilità e senza variabilità non ci sarebbe niente da selezionare. Se i caratteri ereditari si mescolassero al passaggio da una generazione all’altra, come si riteneva al tempo di Darwin, la variabilità inesorabilmente e progressivamente si ridurrebbe. Facciamo un esempio molto semplice: su uno scaffale ci sono due barattoli, uno di vernice nera e uno di vernice bianca. Possiamo dire che c’è variabilità, seppur minima, in quanto ridotta a soli due colori differenti. Ora mescoliamo il contenuto dei due barattoli; otterremo naturalmente una vernice grigia, dunque di tonalità intermedia. Mettiamo questi barattoli su di un secondo scaffale, prendiamone due e mescoliamoli: otterremo ancora la stessa vernice grigia. Possiamo andare avanti con l’esperimento quanto vogliamo e il risultato non cambierà più, di certo non vedremo mai ricomparire i due colori di partenza, il bianco e il nero: la variabilità iniziale è andata perduta per sempre.

Ora usciamo di metafora e mettiamo uomini al posto dei barattoli e generazioni al posto degli scaffali. Da un padre di pelle nera e una madre di pelle bianca (o viceversa, non ha importanza) nasceranno dei figli mulatti, con tonalità di colore della pelle che non sarà necessariamente la stessa in tutti, che è come dire che la variabilità non si è perduta, anzi magari è aumentata; ogni tanto, raramente, potrà addirittura nascere un figlio decisamente nero o decisamente bianco. E troveremo variabilità anche nelle generazioni successive. Cosa sta succedendo? Perché il colore della pelle non si comporta come il colore della vernice? Proprio per la differenza che c’è tra ereditare caratteri mescolati insieme e caratteri discreti. I figli di quella coppia ereditano non dei geni “intermedi”, tutti uguali tra loro, ma geni per la pelle nera e geni per la pelle bianca. Per capire davvero manca un elemento importante: il colore della pelle è determinato da più di un gene, se diciamo sette non sbaglieremo di molto. Ogni figlio erediterà un certo numero di geni paterni e un certo numero di geni materni, fino ad un totale di sette. Chi ne eredita quattro paterni e tre materni avrà una sfumatura di colore leggermente diversa (appena più scura) da chi ne eredita tre paterni e quattro materni; chi ne eredita sei dalla madre e uno dal padre avrà una pelle quasi bianca, e così via. Un risultato come questo, che è quello che si osserva nella realtà, non è spiegabile se non si ammette che aveva ragione Mendel e torto i sostenitori della teoria della mescolanza.

I contemporanei di Mendel non capirono – si dice – la portata dei suoi risultati negli incroci di Pisum sativum. E Darwin, se avesse letto il lavoro di Mendel, l’avrebbe capito? Su questo ci sono pareri contrastanti: Åke Gustafsson, ad esempio, ne dubita [4], Edward M. East, al contrario, scommetterebbe che se c’era qualcuno in grado di capire quel lavoro, questo era Darwin (oltre che Galton) [6]. La risposta giusta non la sapremo mai. Chiediamoci piuttosto se davvero i contemporanei di Mendel non avevano capito l’importanza dei suoi risultati.

Il lavoro di Mendel rimase ignorato a lungo e fu riscoperto solo nel 1900, quando i botanici Hugo de Vries, Carl Correns e Erich von Tschermak, indipendentemente l’uno dall’altro, riprodussero i suoi risultati e, come si dice, riscoprirono le leggi di Mendel. Su questo torneremo più avanti. Qualcuno ritiene che il lavoro di Mendel fu non tanto dimenticato quanto ignorato [7]. È possibile, ma non certo per mancanza di diffusione. Il volume annuale della società di Scienze Naturali di Brünn, che conteneva i risultati di Mendel, fu distribuito a più di 130 associazioni scientifiche in 20 Paesi europei e negli USA. Jirí Sekerák, del Museo Mendeliano di Brno, ne fa l’elenco completo [2], e scopriamo che in Gran Bretagna il volume fu spedito alla Royal Society ed alla Linnean Society a Londra e al Royal Observatory a Greenwich. Il lavoro fu anche inviato a numerose personalità scientifiche e lo stesso Mendel ne distribuì personalmente alcuni estratti. Davvero difficile sostenere che Mendel fu ignorato per mancanza di diffusione del suo lavoro. Rimane allora l’altra possibilità: fu ignorato perché i suoi contemporanei lessero, sì, i Versuche ma non li capirono. Possibile? E perché mai? Di spiegazioni ne sono state proposte tante:

  • Il suo lavoro fu messo in ombra dall’opera di Darwin. Nella seduta precedente a quella in cui Mendel presentò i suoi risultati, Alexander Makowsky, un influente esponente della Società dei Naturalisti, aveva illustrato entusiasticamente la teoria di Darwin. Scrive il biografo di Mendel, Hugo Iltis: «Poiché le coscienze all’epoca erano completamente pervase dalle idee di Darwin, la gente non era disposta a far posto nella loro mente alle profonde e peculiari idee di Mendel» [8].
  • La trattazione matematica dei risultati rendeva il lavoro ostico. Secondo me, ciò potrebbe essere vero, ma solo in piccola parte e solo per alcuni naturalisti.
  • I tempi non erano maturi. Certo, le idee hanno i loro tempi. «Se scopri qualcosa prima che la gente sia pronta a capirne il significato, farai bene a metterla in un cassetto fino a quando il clima divenga recettivo» scriveva Brian Goodwin [9]. Tuttavia, nel caso di Mendel, ci sono diverse buone ragioni per ritenere poco verosimile che i suoi contemporanei non fossero pronti [6].
  • Mendel non annunciava grandi scoperte, né parlava di leggi generali. A molti il lavoro dovette apparire come uno dei tanti sugli ibridi nelle piante.

Ho provato a leggere il lavoro di Mendel mettendomi nei panni di qualcuno che non conoscesse già le sue famose leggi, e dopo questo esercizio tendo a simpatizzare con l’ultima delle ipotesi appena riportate. Provo a spiegare perché. Scrive Mendel nella sua introduzione, che non si è riusciti ancora ad enunciare «una legge di portata generale sulla formazione e lo sviluppo degli ibridi». Non dice «una legge di portata generale sulla trasmissione dei caratteri ereditari», cosa che avrebbe immediatamente fatto drizzare le orecchie ad ogni evoluzionista, parla di ibridi. Poco più sopra, nell’incipit del lavoro, aveva scritto che lo spunto per i suoi esperimenti era stato offerto «dalle esperienze di fecondazione artificiale condotte su piante ornamentali per ottenere nuove varianti cromatiche». Chiunque non fosse un ibridizzatore impegnato nella pratica della produzione di nuove varietà difficilmente sarebbe andato avanti nella lettura.

Rileggendo attentamente i Versuche, mi sembra che alcuni concetti siano espressi molto chiaramente, ad esempio quelli di dominanza e recessività. Mi sembrano anche espresse chiaramente le idee, importantissime, che i determinanti genetici (quelli che oggi chiamiamo geni) siano elementi discreti ed indipendenti, che i gameti portino ciascuno un solo determinante per ogni coppia di caratteri alternativi (come seme giallo o verde, liscio o rugoso), e che al momento della fecondazione gameti maschili e femminili si combinino secondo le leggi del caso.

Dove l’esposizione si fa difficile da seguire è nella descrizione degli incroci, che è poi la parte centrale. Per motivare questa mia affermazione, dovrei entrare in questioni strettamente e irrimediabilmente tecniche e aumenterei solo la confusione in chi legge. Mi limiterò a dire che certe espressioni usate reiteratamente da Mendel, come serie di sviluppo e serie combinatorie, di certo assolutamente rigorose, potevano riuscire respingenti per molti lettori; e che la simbologia per indicare il genotipo delle piante [10] era fuorviante se la confrontiamo con quella moderna. Insomma ci sarebbe voluta la penna di un Richard Dawkins per far capire a tutti che in quel lavoro si stava parlando di cose grosse, rivoluzionarie, di portata generale, che chiarivano finalmente le leggi dell’ereditarietà fino a quel momento sconosciute.

Mendel doveva rendersi conto di quanto i suoi risultati venissero trascurati dall’ambiente scientifico: «Meine zeit wird schon kommen» si dice che abbia esclamato una volta, il mio tempo verrà. E infatti venne, esattamente nel 1900, con la famosa “riscoperta” delle sue leggi. Dei tre riscopritori, Carl Correns fu quello che espresse i principi mendeliani nel modo più chiaro. Nel suo lavoro troviamo chiaramente espressi tutti i principi della genetica mendeliana. Spiega in forma chiara che i caratteri sono determinati da coppie di unità ereditarie (gli “alleli” di Bateson), chiarisce i rapporti numerici negli incroci, introduce persino il concetto di “genoma”, pur senza chiamarlo così. A differenza di Tschermak e di de Vries, Correns comprese i risultati di Mendel fino in fondo e le sue spiegazioni sono più complete e convincenti di quelle dello stesso Mendel [11]. Correns ricevette una copia del lavoro di de Vries il 21 aprile del 1900 e il 22 aprile inviò il lavoro della sua riscoperta ad una prestigiosa rivista tedesca di botanica. Probabilmente, quando vide il lavoro di de Vries, Correns comprese che i suoi diritti di primogenitura erano in pericolo e preferì attribuire tutto il merito a Mendel piuttosto che dividerlo con il suo rivale: questa la maliziosa, ma in realtà documentata, interpretazione di Randy Moore [11]. Più tardi, de Vries rifiutò di firmare una petizione per un memoriale a Mendel e declinò l’invito a partecipare alle celebrazioni di Mendel del 1922, con la motivazione, espressa in privato, che tali celebrazioni erano nazionalistiche e antidarwiniane. In conclusione, il lavoro di Mendel, che come abbiamo visto era rimasto ignorato per 35 anni, potrebbe essere divenuto famoso grazie ad una disputa sulle priorità della scoperta.

La vulgata di un Darwin scienziato famoso, conosciuto dalla comunità scientifica tutta, e di un Mendel oscuro sperimentatore che se ne sta nel suo orticello e non ha contatti con il mondo esterno merita qualche commento e qualche correzione. Per cominciare dalla fine (dalla sua fine), ai funerali di Mendel c’era una folla di centinaia di persone, gente comune, ma anche personalità dell’amministrazione cittadina, professori e insegnanti, esponenti della chiesa cattolica (ma c’erano anche il pastore protestante e il rabbino) e delegati delle numerose società scientifiche. Ce lo racconta Hugo Iltis [8], il biografo di Mendel anagraficamente a lui più vicino (era nato a Brünn nel 1882, due anni prima della morte di Mendel). È sempre Iltis che ci fa questo interessante resoconto delle due sedute della Società di Scienze Naturali in cui Mendel presentò i suoi famosi risultati: tra i presenti c’erano botanici, chimici, geologi, astronomi, e tutti «ascoltarono con notevole meraviglia il suo resoconto dei rapporti apparentemente invariabili con cui apparivano certi caratteri negli ibridi». Dunque Mendel oscuro ricercatore no, ma è certo che Darwin e Mendel ebbero fama assai diversa nel loro tempo. L’Origine delle Specie ebbe un successo editoriale strepitoso: la prima edizione andò esaurita in un solo giorno. Il lavoro di Mendel, invece, come si è detto, rimase ignorato per 35 anni.

È tempo di concludere, ma non posso farlo prima di avere almeno accennato ad una vicenda piuttosto paradossale. Il fatto che la teoria particellare di Mendel offrisse quel sostegno di cui la teoria della selezione naturale di Darwin aveva bisogno, potrebbe far pensare che con la riscoperta delle leggi di Mendel ogni cosa potesse finalmente andare al suo posto. Ma non è così che andarono le cose, e quello tra eredità ed evoluzione rimase un rapporto tormentato per qualche decennio.

Nel 1909, gli organizzatori del congresso per il centenario della nascita di Darwin si trovarono a dover fronteggiare una situazione imbarazzante [12]: benché nessuno più dubitasse dell’evoluzione, la teoria della selezione naturale come sua spiegazione era in ribasso. La confusione sui meccanismi dell’evoluzione aveva raggiunto il suo acme e l’eredità mendeliana da poco riscoperta, stranamente, aveva soltanto aumentato la confusione, aggiungendo un nuovo meccanismo: la produzione di nuove specie di colpo, attraverso grosse e fortuite mutazioni. Paradossalmente, all’inizio del XX secolo i più autorevoli seguaci di Mendel, Hugo de Vries in testa, si consideravano anti-darwiniani. La genetica mendeliana, lungi dal soccorrere la teoria di Darwin, era vista come antitetica ad essa [13].

A rimettere le cose nella giusta prospettiva e dimostrare che la teoria particellare di Mendel era funzionale, anzi indispensabile al darwinismo fu il matematico Ronald Fisher. Siamo ormai negli anni Trenta, è iniziato il processo di fusione tra genetica ed evoluzionismo, la cosiddetta “sintesi moderna”, e in occasione del centenario dall’uscita dell’opera di Darwin (1959), la sintesi era ormai completa e inossidabile.

 

Note

[1] Charles Robert Darwin (Shrewsbury, 12 febbraio 1809 – Downe, 19 aprile 1882) e Johann Gregor Mendel (Heizendorf, 22 luglio 1822 – Brünn, 6 gennaio 1884).

[2] Jirí Sekerák, The Global and the Local: The History of Science and the Cultural Integration of Europe. Proc. of the 2nd ICESHS, Cracov, Poland, Sept. 6-9, 2006.

[3] On the Origin of Species by Means of Natural Selection, 1859.

[4] Li riporta Åke Gustafsson in: The Life of Gregor Johann Mendel – Tragic or Not? Acta Agric. Scand. Suppl. 16, 27-32, 1966: The Variation of Animals and Plants under Domestication, 1868; The Effect of Cross and Self Fertilisation in the Vegetable Kingdom, 1876; On the Various Contrivances by which
British and Foreign Orchids are Fertilised by Insects, 1862.

[5] Richard Lewontin, Il sogno del genoma umano ed altre illusioni della scienza, Laterza 2004.

[6] Edward M. East, Mendel and his contemporaries, The Scientific Monthly, 16: 225-237, 1923. (Electronic Scholarly Publishing Project 2000: http://www.esp.org).

[7] Per esempio: Michael H. MacRoberts, Was Mendel paper on Pisum neglected or unknown? Annals of Science 42, 339-345, 1985.

[8] Hugo Iltis, Gregor Johann Mendel: Leben, Werk und Wirkung, J. Springer, Berlin, 1924. Trad. ingl. Life of Mendel, Norton, New York, 1932.

[9] Brian Goodwin, How the Leopard Changed Its Spots, Touchstone, New York, 1994.

[10] Non risulta in modo esplicito che per ogni carattere i determinanti genetici siano due. Se solo Mendel avesse indicato i genotipi delle piante sempre con due lettere per ogni carattere, così come indicava i genotipi dei gameti con una lettera, tutto sarebbe stato più chiaro.

[11] Randy Moore, The “Rediscovery” of Mendel Work, Bioscene, 27, 13-24, 2001.

[12] Stephen J. Gould, Hen’s Teeth and Horse’s Toes, Norton, 1983.

[13] Richard Dawkins, The Blind Watchmaker, Norton, 1987.

 

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Angelo Abbondandolo è stato professore ordinario di Genetica all’Università di Genova e ha svolto attività didattica e di ricerca in Italia e all’estero (L’Avana, Parigi, Edimburgo, L’Aia). Da quando è in pensione si dedica alla divulgazione di tematiche che riguardano la genetica e l’evoluzione.