L’ora infinita: metamorfosi e metastasi di un istituto da riformare

di Marco Croce

 

La c.d. “ora di religione”, ossia l’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica — a spese di tutti i contribuenti — è stata una delle costanti della pubblica istruzione nello Stato italiano, salvo una piccola parentesi nell’Italia di fine ‘800: l’istituto era già presente nel Regno di Sardegna e aveva allora come scopo quello di fabbricare sudditi e fedeli, di educare il popolo all’obbedienza all’autorità regia e cattolica; tale impostazione rimase tutto sommato inalterata pur nella temperie “laicista” di quella fase della storia patria, tanto che la legge Casati del 1859, che per altri aspetti colpiva pesantemente gli interessi dello Stato Pontificio, disponeva che l’insegnamento della religione cattolica venisse impartito tanto nel primo livello della scuola elementare, dove occupava il primo posto tra tutte le materie, tanto negli altri gradi e tipi di scuole. La previsione della possibilità di chiedere una dispensa da parte di coloro che intendessero essere esonerati dalla frequenza di tale “materia” non incideva in alcun modo sul ruolo complessivo riconosciuto alla religione cattolica, i cui valori seguitavano ad informare l’intera attività educativa e le cui strutture educative continuavano ad operare senza concorrenza nell’ambito della scuola dell’infanzia.

L’unico serio tentativo di innovare profondamente fu compiuto nel 1877, con la legge n. 3691, c.d. Legge Coppino, un provvedimento che potrebbe rappresentare il modello al quale attingere per riformare questo settore degli studi scolastici: con tale atto legislativo — specificato nel successivo Regio Decreto 21 giugno 1883 — l’insegnamento della religione cattolica veniva eliminato nelle scuole secondarie e veniva sostituito in quelle elementari da un’introduzione alle prime nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino. Permaneva però per gli alunni le cui famiglie ne avessero fatto richiesta, a spese però delle famiglie stesse, salvo il caso in cui — per curiosa disposizione introdotta dal Regio Decreto n. 150/1908 — la maggioranza dei consiglieri comunali avesse votato per far accollare l’onere al Comune. L’insegnamento era dunque extra-curriculare e impartito solo a richiesta.

Tale tentativo fu però presto temperato nella prassi che vide comunque il permanere dell’insegnamento della religione cattolica su larga scala e poi “stemperato” di diritto con la ri-confessionalizzazione dell’ordinamento giuridico italiano ad opera del Regime fascista che, in questa materia, non fece altro che ripristinare l’assetto precedente alla Legge Coppino: insegnamento obbligatorio salvo dispensa, nell’ambito però di una elevazione della religione cattolica a “fondamento e coronamento” dell’intera istruzione pubblica, come si legge nel Regio Decreto n. 2185 del 1923 e, pochi anni più tardi, nell’art. 36 del Concordato Lateranense.

L’entrata in vigore della Costituzione non produsse praticamente nessuna alterazione di questo schema ormai consolidato; anzi, nei primi anni ’50 ci furono netti segnali di consolidamento dell’assetto scaturito dalla Riforma Gentile e dalla Conciliazione: i c.d. programmi Ermini, ossia il d.p.r. n. 503 del 1955, relativi alla scuola primaria non facevano altro che confermare l’impostazione confessionale della riforma Gentile, raggiungendo vertici così lontani dalla laicità dello Stato da lasciare quasi sgomenti. Si legge infatti nel provvedimento: “L’insegnamento religioso sia considerato come fondamento e coronamento di tutta l’opera educativa. La vita scolastica abbia quotidianamente inizio con la preghiera, che è elevazione dell’animo a Dio, seguita dall’esecuzione di un breve canto religioso o dall’ascolto di un semplice brano di musica sacra. Nel corso del ciclo, l’insegnante terrà facili conversazioni sul Segno della croce, sulle principali preghiere apprese (Padre nostro, Ave Maria, Gloria al Padre, preghiera dell’Angelo Custode, preghiera per i Defunti), su fatti del Vecchio Testamento ed episodi della vita di Gesù desunti dal Vangelo”.

Bisognerà dunque attendere la revisione del Concordato lateranense, avvenuta nel 1984, per avere un nuovo quadro normativo che però non ha risolto i problemi sul versante del rispetto della laicità dello Stato e, anzi, ha aggravato in gran parte la situazione determinando difficoltà, sia teoriche sia pratiche, di quasi insuperabile soluzione, che hanno dato luogo a un lungo contenzioso che si trascina fino ai giorni nostri: nell’art. 9 dell’Accordo di Villa Madama, reso esecutivo con la l.n. 121 del 1985, si legge che “La Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado. Nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento. All’atto dell’iscrizione gli studenti o i loro genitori eserciteranno tale diritto, su richiesta dell’autorità scolastica, senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione”.

Com’è stato rilevato da molti studiosi, si tratta di una formula non molto lineare, che fonda la riproposizione dell’insegnamento su un indubitabile valore culturale e storico del cattolicesimo la cui funzione è stata da subito contraddetta dalla permanente natura catechetica di tutti i principali elementi del corso di religione cattolica, fra i quali spicca il fatto che, ai sensi del punto 5, lett. a) del Protocollo Addizionale al nuovo Concordato, l’insegnamento è impartito in conformità con la dottrina della Chiesa da insegnanti — pagati dallo Stato — che siano riconosciuti idonei dall’autorità ecclesiastica (e per di più, dal 2003, “di ruolo”, con la conseguenza che in caso di ritiro del nulla osta vescovile sono messi in mobilità e possono andare a insegnare altre materie per le quali dispongano dei titoli “superando” i vincitori di concorso in attesa in graduatoria).

Molteplici sono gli elementi di dubbia costituzionalità che permangono sull’istituto: l’obbligo per lo Stato (anche finanziario) di fornire questo insegnamento a prescindere dalle richieste delle famiglie e la pressione psicologica che si esercita sugli studenti costringendoli a una scelta che può indirettamente portare a rivelare “dati sensibili” sono spie decisive di un assetto che non sembra rispettare minimamente il principio di laicità. Ma è sulla curricularità o meno della disciplina che si è scatenata una vera e propria guerra che va avanti da ormai 30 anni e ha fatto emergere nei casi concreti tutte le criticità possibili alla luce di nodi teorici difficilmente districabili.

Questa guerra cominciò quando il ministero, nel 1986, dispose tramite circolare l’obbligatorietà delle ore alternative all’insegnamento della religione cattolica per coloro i quali non si avvalessero della stessa: con questa mossa la materia da facoltativa (dunque extra curriculare) diventava opzionale (dunque curriculare). TAR Lazio e Consiglio di Stato, come di consueto su queste tematiche, respinsero i ricorsi che erano stati presentati sancendo la legittimità della scelte governative e fu solo grazie al Pretore di Firenze, adito ex art. 700 c.p.c. da alcuni studenti fiorentini, che si giunse in Corte costituzionale per le fondamentali sentenze n. 203 del 1989 e n. 13 del 1991.

Il giudice delle leggi sanciva in maniera piuttosto chiara le condizioni di legittimità costituzionale dell’art. 9 della l. 121 del 1985: l’ora di religione non doveva essere considerata curriculare dal momento che, se lo fosse stata, avrebbe finito per incidere sulla libertà di coscienza dei singoli individui. A fronte dell’assenza di alternatività fra IRC e altre materie scolastiche la posizione degli studenti non avvalentisi era dunque quella del non obbligo, cioè del diritto costituzionale di non fare nulla in alternativa, diritto che addirittura poteva essere esercitato con l’uscita dal plesso scolastico.

Chiarissimi gli intendimenti della Consulta, ma di assai problematica realizzazione, soprattutto per i bambini più piccoli che non possono certamente assentarsi da scuola nel mezzo della mattinata finendo così per essere di fatto costretti a fare qualcosa in alternativa, salvo nel caso in cui i genitori possano permettersi di venirli a prendere e poi riportare a scuola. Siccome non è tecnicamente possibile assicurare che l’ora di religione venga collocata sempre alla prima o all’ultima ora, permangono delle difficoltà applicative superabili solo collocando tale insegnamento totalmente fuori dall’orario scolastico.

Comunque, a fronte di questa chiara presa di posizione della Corte costituzionale, il “sistema” ha reagito cercando surrettiziamente di far tornare l’insegnamento della religione cattolica nel novero delle materie curriculari: fino a fine anni ’90 vi è stato un nutrito contenzioso riguardante la partecipazione degli insegnanti di religione agli scrutini con voto decisivo ai fini della promozione che, pur nelle oscillazioni giurisprudenziali, è sembrato assestarsi sulla decisività di tale voto e, dunque, sulla curricularità della materia (utilizzando il sofisma della obbligatorietà della stessa per chi, liberamente, l’avesse scelta).

E, poi, sfruttando l’assetto della “nuova scuola” scaturita dalle riforme Bassanini e Berlinguer, e in particolare il sistema del credito scolastico, a partire dal 1999 svariate circolari ministeriali, emanate di anno in anno, hanno attribuito all’insegnante di religione e agli insegnanti delle ore alternative la possibilità di attribuire punteggio al fine dell’assegnazione del credito, ponendo quindi le basi per il ritorno alla curricularità di tali attività scolastiche, con lesione della posizione di chi, optando per il diritto di fare nulla in alternativa, esercitava un proprio diritto costituzionalmente sancito dalla giurisprudenza della Corte costituzionale.

Il contenzioso su tale problematica ha trovato una sistemazione definitiva nella sentenza 2749 del 2010 del Consiglio di Stato che da una parte ha stabilito, manipolando in maniera evidente le decisioni della Corte costituzionale in precedenza richiamate, che per chi opta per l’ora di religione la materia diviene obbligatoria — quindi valutabile ai fini del credito — dall’altra si è “inventato” un discutibile obbligo per lo Stato di garantire le attività alternative che non sembra avere basi normative troppo solide. Ciononostante, questa “invenzione” dei giudici di Palazzo Spada, funzionale a rendere politicamente più digeribile il ritorno alla curricularità dell’ora di religione, ha fatto da base alla decisione del Tribunale di Padova con la quale si è sancito il diritto al risarcimento del danno da mancata attuazione dell’ora alternativa.

Tale assetto, sotto il profilo dell’obbligatorietà “soggettiva” dell’ora di religione per chi la sceglie, è stato però poi messo in discussione da una decisione del TAR Molise del 28 giugno 2012, che ha riconosciuto il diritto di rifiutare l’insegnamento anche nel corso dell’anno sulla base del fatto che non si tratta di una materia come le altre, visto che la scelta se avvalersi o meno dell’IRC attiene a un diritto assoluto e indisponibile della persona, con la conseguenza che il consenso è sempre revocabile. Questa decisione non risulta essere stata impugnata o comunque non è stata ancora riesaminata dal Consiglio di Stato, per cui al momento rappresenta un diverso orientamento giurisprudenziale che si pone in linea di continuità, a differenza delle sentenze del supremo consesso della giustizia amministrativa, con le decisioni della Corte costituzionale per le quali, come si è visto, l’ora di religione non può mai essere obbligatoria e curriculare.

La disarmonia dell’istituto rispetto al principio di laicità permane purtroppo immutata: lo Stato spende ogni anno più di un miliardo di euro per pagare insegnanti, scelti dal vescovo, di una materia che dovrebbe essere facoltativa e che invece si cerca in ogni maniera di riportare nel tempo scuola complessivo. Gli individui sono posti di fronte a una scelta che li costringe a venire allo scoperto e a rivelare indirettamente le proprie preferenze in materia di religione. Tra l’altro, l’ora alternativa, quando richiesta, non è assicurata per carenza di fondi, di strutture, di insegnanti disponibili, ecc. E, comunque, l’aver riportato nel tempo scuola l’IRC e le ore alternative finisce per ledere il diritto di non fare nulla sancito dalla sentenze della Corte costituzionale.

Enorme, inoltre, la disparità di trattamento delle altre confessioni religiose, che nelle Intese hanno pattuito d’insegnare il fatto religioso, a loro spese, nel caso in cui gli studenti e le famiglie ne facciano richiesta (tralasciando il problema del difficile accesso e all’Intesa e alla legge sulla base delle stesse, sistema che produce arbitrio e discriminazione).

In conclusione, l’unica soluzione che possa riportare il sistema in armonia con il principio di laicità dello Stato sarebbe il ritorno a un assetto similare a quello della Legge Coppino: piena libertà, per tutti, d’insegnare il fatto religioso a proprie spese nella scuola pubblica come attività facoltativa; nel mentre lo Stato, con un proprio insegnamento, obbligatorio, di educazione alla cittadinanza e magari anche di storia delle religioni dovrebbe cercare di creare quelle condizioni di rispetto per l’altro e di condivisione del pluralismo della (e nella) sfera pubblica capaci di disinnescare quei conflitti e quelle tensioni sociali che sembrerebbero essere in qualche misura alimentati dalla attività educativa dei portatori di verità rivelate.

 

Per approfondimenti e ulteriori indicazioni bibliografiche

N. Fiorita, Scuola pubblica e religioni, Libellula Edizioni, 2012, p. 55 e ss.

M. Croce, La libertà religiosa nell’ordinamento costituzionale italiano, ETS, 2012, p. 280 e ss.

B. Serra, Insegnamento della religione cattolica, attività alternative e credito scolastico: note a margine di un lungo contenzioso amministrativo e L’ora di religione tra diritti fondamentali ed esigenze organizzative. Annotazioni a trent’anni dall’Accordo di Villa Madama (in www.statoechiese.it).

 

Marco Croce, dottore di ricerca in Giustizia costituzionale e Diritti fondamentali all’Università di Pisa, è professore a contratto all’Università di Firenze, dove collabora con le cattedre di Diritto costituzionale e Diritto ecclesiastico e canonico.

Da L’ATEO 5/2014