La mente vuota dell’Imperatore. Senso critico,
metodo scientifico e la sfida dei falsi guaritori

di Riccardo Capecchi

 

 

Recenti fatti di cronaca ci hanno ricordato con amarezza che questo è un paese che fatica a distinguere tra illusioni e realtà, in cui un qualunque ciarlatano può apparire un medico illuminato e propinarci la sua panacea a base di olio di serpente. Quando abbiamo smesso di dubitare del falso, di avvertire il finto, di strappare l’idolo? Riconoscere la verità è necessario per la nostra sopravvivenza; la distinzione tra un bastone e un serpente è cablata nel profondo dei nostri circuiti cerebrali [1] (e forse non è un caso che la trasformazione dall’uno all’altro sia un famoso esempio biblico di miracolo). Il tradimento non è solo dei critici, intesi come figura specifica, militante, che dà l’esempio (o officia un rito), ma della critica, del senso critico, di quelle armi del pensiero che devono essere diffuse il più possibile tra la popolazione e usate per legittima difesa.

C’è un problema epistemologico nel nostro rapporto con la conoscenza. Su questo ci stiamo giocando una partita prossima a quella che Canguilhelm e Foucault chiamavano biopolitica. Perché l’incapacità di analisi si riverbera nel politico, non solamente nell’annichilimento della critica politica, sostituita da slogan, parole d’ordine, battute o vaffanculi. Vi chiedo l’indulgenza di seguirmi, e di intendere il termine epistemologia nell’accezione anglosassone. Un popolo ignorante in ambito scientifico, non solo cioè povero di nozioni di matematica, biologia, fisica o chimica, ma che non conosce il metodo scientifico, come funziona la sua logica di base, sarà incapace di discernere in questo ambito il vero dal falso, lasciandosi dominare dall’emozione, come una tifoseria. Sarebbe preferibile un mondo in cui tutti ancora credessero all’esistenza dell’etere, ma in cui fosse chiaro a ciascuno che cos’è e come funziona la scienza. Aggiungiamo a questo un problema strutturale ulteriore (causa e conseguenza insieme, inevitabile concatenazione): in Italia la figura del divulgatore scientifico è pressoché scomparsa dalle redazioni dei principali quotidiani. Gli articoli di argomento scientifico sono in genere affidati a chi si occupa di high tech, ovvero ad appassionati di gadgettecnologici, non sempre in possesso della conoscenza necessaria alla comprensione (e quindi alla sintesi) efficace e corretta di un articolo scientifico. A questo segue la necessità giornalistica, nell’ottica sempre più diffusa dell’infotainment, della trasformazione di una scoperta scientifica in una “storia”, con gli eroi, il colpo di genio, il titolo roboante che possibilmente rimandi a qualcosa di pop– in pratica, nulla a che vedere con la scoperta. Un panorama desolante.

Si pensi adesso a due casi eclatanti: Stamina e Di Bella. Di recente su un ottimo blog, Medbunker, il cui autore è un medico ginecologo che da tempo si occupa di pseudoscienze, è stato pubblicato un articolo [2] in cui si analizza in maniera efficace queste due vicende, evidenziandone le affinità. Vi ricorderete il Metodo Di Bella: nel 1997 un anziano professore di fisiologia finì al centro delle cronache italiane e internazionali per aver sviluppato un protocollo farmacologico alternativo alle cure tradizionali capace, a quanto si diceva, di curare una grande varietà di tumori. Del protocollo facevano parte Somatostatina, Retinoidi, Vitamine (E, D, C), Melatonina, Bromocriptina e chemioterapici tradizionali a dosi ridotte. L’uso delle singole sostanze non era privo di razionale (ad esempio, esistono prove di un moderato effetto antitumorale della somatostatina su alcuni tipi di cancro): quel che mancava era l’esistenza di una statistica sugli effettivi risultati conseguiti dai pazienti trattati, nonché una qualunque pubblicazione scientifica sull’argomento, senza contare il rifiuto da parte del professore degli schemi chemioterapici convenzionali. Il clamore suscitato dalla notizia, gonfiato da articoli sensazionalistici, portò a un coinvolgimento emotivo dell’opinione pubblica. Si diffusero voci di guarigioni mediante il Metodo Di Bella, in seguito non confermate. Vi furono pressioni da parte di associazioni di pazienti per ottenere libero accesso ai farmaci che facevano parte del trattamento. Il costo dei farmaci necessari per il protocollo era molto alto; nel dicembre del 1997 il pretore di Maglie ordinò alla ASL di competenza di fornire gratuitamente i farmaci a un paziente. Col tempo quelle sostanze si fecero introvabili, alimentando in certe regioni un vero e proprio mercato nero. Nacquero raccolte di firme da parte di cittadini per far partire la sperimentazione di quella che veniva chiamata “Cura Di Bella”. La Commissione Unica del Farmaco espresse a tal proposito parere contrario.

Tuttavia l’allora Ministro della Sanità, Rosy Bindi, autorizzò la sperimentazione con un provvedimento urgente, giustificando l’atto con ragioni di ordine pubblico. La sperimentazione venne concordata alla fine di gennaio del 1998, con protocolli sottoscritti da Luigi Di Bella. L’accordo prevedeva la sperimentazione di 9 protocolli (sarebbero poi diventati 11) per altrettante neoplasie, per un totale di 600 pazienti, e un ulteriore protocollo di osservazione che avrebbe coinvolto 2000 pazienti. Occorre qui una precisazione: solitamente per testare un qualunque farmaco esiste un iter che valuta inizialmente la tossicità della sostanza in questione (la cosiddetta Fase I della sperimentazione clinica) e successivamente l’attività terapeutica del farmaco stesso (la Fase II). Solo in un secondo momento si passa alla Fase III, ovvero alla sperimentazione clinica sui pazienti su larga scala. Nel caso del Metodo Di Bella, contemporaneamente alla Fase III partirono indagini di Fase II. In ambito oncologico, significa valutare se un determinato trattamento è in grado di ridurre le dimensioni delle masse tumorali in un numero significativo di pazienti. I risultati furono desolanti: quelle sperimentazioni non avevano prodotto alcuna prova che giustificasse ulteriori trialclinici e la sperimentazione si interruppe. I sostenitori del metodo contestarono la corretta esecuzione del protocollo, mentre a livello internazionale vi furono aspre critiche da parte della comunità scientifica per la sperimentazione condotta in mancanza delle minime evidenze necessarie.

Quindici anni dopo l’Italia si conferma il paese di Vico. La storia tende a ripetersi, con piccoli ritocchi. Un nuovo “guaritore”, Vannoni (stavolta non un professore di fisiologia, ma un docente di psicologia esperto in comunicazione persuasiva), si presenta con un’idea scientifica aggiornata coi tempi, “plausibile”: usare cellule staminali per curare malattie degenerative. Inizia la sua attività “terapeutica” nel 2005 servendosi di due biologi di origine russa. Un tribunale, in seguito a un’inchiesta su presunti pagamenti e irregolarità legate alla somministrazione di queste terapie, sospende le procedure effettuate agli Spedali Civili di Brescia sotto forma di “cure compassionevoli”. Le famiglie dei pazienti protestano, coinvolgendo una trasmissione televisiva, Le Iene, per chiedere un intervento del ministero e risolvere la situazione. I mediasi interessano del caso, che monta e cresce. Si crea una fazione di sostenitori del Metodo Vannoni. Anche in questo caso, nascono petizioni e raccolte firme per autorizzarne la sperimentazione clinica. E anche questa volta dalla comunità scientifica internazionale si lanciano avvertimenti circa la totale assenza di metodologia, ventilando l’ipotesi che l’Italia possa diventare un paese simile al Messico, meta di malati disperati per terapie pseudoscientifiche, fonte di lucro per ciarlatani senza scrupoli [3] .

Vannoni non ha mai pubblicato nessun dato sui suoi presunti risultati, non ha mai provato gli effetti di queste cure. Dal 2007 somministra terapie in condizioni che secondo un’ispezione dei NAS sono preoccupanti. Dalle indiscrezioni giornalistiche, infatti, dalla relazione del comitato ministeriale su Stamina emerge che nei campioni analizzati delle infusioni somministrate non è stata rinvenuta traccia di cellule staminali. L’utilizzo di derivati del sangue senza un’adeguata lavorazione e un’origine certa può essere fonte di prioni (i vettori del morbo di Creutzfeldt-Jakob, la variante umana dell’encefalopatia spongiforme bovina – la cosiddetta “Mucca Pazza”) o di virus. Stavolta la beffa di una sperimentazione “in regime d’emergenza” è stata evitata, anche se la vicenda si dibatte e contorce e riserba ancora gli ultimi colpi di coda. Mentre scrivo il tribunale di Pescara ha accolto l’ennesimo ricorso di un malato di SLA contro gli Spedali Civili di Brescia: dovrà essere curato col “Metodo Stamina” (come era già successo per il caso Di Bella).

Le analogie tra questi due casi sono impressionanti. Il nodo focale della questione, per me, è che manca senso critico. In questo caso è una forma peculiare di senso critico, il “senso scientifico” che manca, ovvero la capacità di distinguere tra pseudoscienza e scienza. Non è banale, sia chiaro. Presuppone la conoscenza diffusa di come funzionino le scoperte scientifiche. Dimentichiamo per un attimo i principali autori di filosofia della scienza e vediamo se troviamo un accordo. In qualunque disciplina scientifica, per supportare un’affermazione nuova (una scoperta) devo portare delle prove. Un teorema matematico necessita di una dimostrazione, una nuova galassia sarà individuata da coordinate, una scoperta in ambito biologico sarà dimostrata da un esperimento. La prova non deve solo essere consistente, deve anche poter essere messa a disposizione per la verifica da parte di chiunque: nel caso di un esperimento, significa che deve essere riproducibile. Col tempo si è messo a punto un sistema di controllo delle scoperte scientifiche: vengono annunciate mediante articoli, i quali rispettano alcuni parametri (vengono descritti i metodi di realizzazione dell’esperimento, la statistica, le tabelle con i risultati, ecc.). Questi articoli vengono quindi rivisti da esperti del settore che ne verificano la plausibilità e la chiarezza prima di venire rifiutati (il più delle volte) o pubblicati nelle riviste specializzate.

Questo non significa che ciò che viene pubblicato è la verità: a volte capitano errori, altre volte una serie di dati vengono interpretati in maniera parziale o, col tempo, compare una teoria che ingloba dati precedenti sotto una luce nuova (il paradigm shift reso famoso da Kuhn). La scienza è un accordo tra sciocchi, sempre pronta a vacillare – ed è comunque quanto di meglio si possa disporre. Anzi, proprio per questa sua natura ferocemente autocritica, che rivede costantemente i propri confini e le proprie fondamenta, quel che sorge dalle continue macerie è sempre più solido e netto dell’edificio che c’era prima. Se ci accostiamo con questo bagaglio ai casi Di Bella e Vannoni salta agli occhi in modo grossolano la mancanza di pubblicazioni, ovvero di confronto scientifico internazionale. Tanto è vero che l’unica cosa che può giustificare questa discrepanza tra i fautori del metodo è una contro-narrazione fatta di multinazionali (“Big Pharma”) che controllano il mondo scientifico e impediscono l’emergere di metodi contrari ai loro profitti. La trasformazione della scienza in una narrazione qualsiasi è lo specifico movimento retorico che fa saltare il senso stesso di metodo scientifico: se la scienza è un racconto come un altro, vale esattamente quanto un’altra narrazione. Il dubbio è il pertugio attraverso il quale passa l’onda dell’emotività, magari in familiari di persone che soffrono per malattie incurabili.

Facciamo un esperimento mentale. Cosa succederebbe se Vannoni, anziché parlare di staminali, affermasse che ciò che cura i pazienti è l’immersione in una vasca colma di sangue di toro? Gran parte delle persone disposte a credere al suo metodo non lo sarebbe più, relegandolo nell’ambito della magia. Un tempo i cultori del dio Mitra non sarebbero stati d’accordo. Se al sangue taurino, però, sostituiamo le “staminali”, tutto funziona, tutto diviene plausibile. Poco importa se le cellule staminali che vengono utilizzate nel protocollo sono probabilmente mesenchimali, cioè derivanti da un tessuto differente da quello del sistema nervoso. Negli ultimi anni si è fatto un gran parlare di staminali come cura potenziale di diverse malattie: pubblicazioni non specialistiche per meri fini sensazionalistici hanno trasferito nozioni scientifiche in un contesto narrativo, rimuovendo i passaggi necessari per trasformare una teoria biologica in una conferma e infine in una terapia praticabile – ovvero, cancellando il metodo scientifico. Nella narrazione della “cura miracolosa” si compie un atto di fede su elementi che hanno un’origine scientifica. Le staminali divengono il nuovo fluido mesmerico. Quel che fa più rabbia è che effettivamente, al momento, sono in corso sperimentazioni rigorose per l’utilizzo delle cellule staminali in pazienti con malattie neurodegenerative. E quindi cosa significa, che ha ragione Vannoni? Il punto è che non abbiamo né dimostrazioni di efficacia, né conosciamo i rischi di tali terapie, le dosi necessarie per ottenere dei risultati (se mai ve ne sono), i migliori processi di coltura degli estratti tissutali, ecc. Se Vannoni avesse davvero voluto portare un significativo e disinteressato contributo al benessere dei pazienti, avrebbe divulgato alla comunità internazionale i dati delle sue ricerche, cosa che non ha fatto (al contrario, esistono dei discussi “brevetti” della sua cura). Questo è il punto: la possibilità della verifica. La trasparenza.

C’è stato recentemente un altro caso di cura “alternativa” che ha fatto discutere, ma con esiti molto differenti. Un chirurgo vascolare di Modena, il prof. Zamboni, ha sostenuto che molti malati di Sclerosi Multipla fossero affetti da una particolare malformazione venosa a livello giugulare (che ha chiamato CCSVI), la quale poteva essere dimostrata mediante eco doppler. Operando quindi una dilatazione meccanica della stenosi venosa tramite stent, si riuscirebbe, a detta del chirurgo, a ristabilire un flusso corretto di sangue in uscita dal cranio. Il professore sostiene che con tale manovra (chiamata, con malcelato ottimismo, “di liberazione”) si inducano miglioramenti nella sintomatologia dei pazienti. La teoria è stata accolta con molto scetticismo in ambito medico, poiché si ritiene al momento che la Sclerosi Multipla sia una malattia immunomediata, ovvero causata da un danno diretto del sistema immunitario. Tuttavia, in questo caso il medico ha scelto di aprirsi alla comunità scientifica internazionale, diffondendo dati, pubblicando su riviste del settore, dove si è sviluppato un dibattito (anche feroce). Attualmente sia negli Stati Uniti sia in varie parti d’Italia sta partendo la sperimentazione della metodica. Alla fine del percorso, numeri alla mano, sapremo se davvero questa insolita teoria ha portato un significativo miglioramento nella vita dei pazienti. In tal caso, potrebbe essere necessario un cambio di paradigma per conciliare le precedenti conoscenze sulla Sclerosi Multipla con questi risultati. E sarebbe magnifico, anche se non occorre farsi illusioni: troppi studi hanno messo in discussione la teoria di Zamboni, di fatto sconfessandola. Sarebbe comunque una vittoria del metodo scientifico [4].

Ho parlato di metodo scientifico, ma come avete visto la faccenda si complica. Perché non basta avere ben presente il meccanismo su cui si reggono le conoscenze scientifiche: occorre distinguere il discorso scientifico da altri tipi di discorso. Quel che ho chiamato “critica” e che finora ho trattato come un monolito in realtà si compone di diverse competenze che si articolano tra loro in modo armonico, come ingranaggi in un orologio.

Come fare dunque per diffondere il senso critico? Si possono immaginare insegnamenti “alternativi” alle canoniche materie scolastiche e tuttavia essenziali per la formazione dell’individuo? La lista che ho provato a tratteggiare descrive in realtà un campo di forze, i cui confini trascendono da un argomento all’altro come vasi comunicanti. C’è l’epistemologia, intesa come metodo scientifico; c’è la semiotica, la logica matematica, la filologia (nel senso di genealogia e uso delle fonti), lo storytelling[5]. In una parola, vorrei chiamare questo campo di forze “retorica”. Niente di nuovo: l’arte della retorica, rivista e adattata ai tempi, mostra all’individuo il tessuto di rapporti di forza (politici, economici, informazionali) che definisce il nostro piano di esistenza. Non solamente come deterrente per manovre persuasive da parte di altri, ma anche, come suggerisce Ginzburg [6] seguendo Aristotele, retorica come strumento per arrivare alla prova, sia in ambito storiografico sia, estendendo, epistemologico. Una diagnostica necessaria per mettere in luce la forma, l’architettura del mondo. La mancanza di questo strumento critico, la cecità di questo occhio, si riverbera nel politico: una popolazione in preda all’emotività, ad esempio, costringerà i propri governanti a sperimentazioni irragionevoli o a richiedere interrogazioni parlamentari sulle scie chimiche. Non è un caso, ad esempio, che del Metodo Di Bella furono pervicaci sostenitori uomini politici di Alleanza Nazionale e che ancora nel 2003, sotto l’allora Ministro della Sanità, Storace, si tentò di far inserire nella lista dei farmaci dispensati dal Sistema Sanitario Nazionale quelli che componevano il protocollo Di Bella [7]. In un meccanismo politico basato sul consenso, questa stessa ignoranza plasma la mente dell’Imperatore. Il pensiero critico ci fa vedere che il Re è vuoto: porta al disvelamento del suo mistero taumaturgico, mostra i flussi di denaro e di informazione che intersecano e individuano i nessi di potere. Il passo successivo è dire la verità.

Le cose non sono così semplici. Occorre esercitare in modo ricorsivo il senso critico sui suoi stessi fondamenti, dissezionarne le fibre, se vogliamo che la costruzione sia solida e la nostra voce ferma. Anche in questo caso, la colonna portante della differenza tra scienza e narrazione, il metodo scientifico, che a prima vista appariva lucido e netto, si rivela poroso e meno solido del previsto. Il sistema internazionale del peer reviewè lungi dall’essere perfetto. I finanziamenti per i laboratori scientifici vengono assegnati in base a criteri non sempre trasparenti, tendendo a premiare centri famosi di grosse università che producono numerosi articoli sulle più importanti riviste scientifiche (e che quindi, per tali motivi, hanno già sufficienti fondi). I fondi sono necessari per l’acquisto di apparecchiature all’avanguardia, il cui solo possesso determina la possibilità di realizzare prima di altri nuove scoperte, alimentando il circolo vizioso dei finanziamenti. Si può tratteggiare un Capitale scientifico che mostra come la ricerca non sia davvero libera, ma dominata da rapporti economici e di potere tra università, riviste, centri di finanziamento (e,ça va sans dire, industrie farmaceutiche). Certi moniti di Feyerabend vanno ancora ascoltati. Infine, parte di ciò che ha reso la Scienza un Mistero è imputabile ai suoi officianti, troppo distanti per una divulgazione su larga scala e a volte interessati a mantenere le conoscenze in ambito prettamente specialistico.

Nonostante tutto, il senso critico, basato su quell’insieme di strumenti analitici per affrontare il mondo che ho chiamato retorica, è l’arma più efficace che abbiamo a disposizione. La scienza è parte integrante di quel bagaglio. Incerta, fallace come tutte le cose umane, criticabile. Ma da ogni critica trae maggiore forza, come l’araba fenice che risorge dalle ceneri. E che importa se appare sgraziata: del resto, l’evoluzione ci dice che, come fenice, è meglio un solido tacchino che un fragile pterodattilo [8].

 

 

Note

[1] Si veda ad esempio su tali argomenti Jean-Pierre Changeux, L’uomo di verità, Milano, Feltrinelli 2003.

[2] http://medbunker.blogspot.it
/2013/12/la-comunicazione-persuasiva-nella.html(Lo stesso blogger è autore di un “Dossier Di Bella”, che ho consultato estesamente per la realizzazione di questo articolo).

[3] Stem cell fiasco must be stopped, in Nature, 331 (19 December 2013).

[4] In un articolo dell’ottobre 2013, pubblicato su Lancet, Traboulsee et al. mettono in crisi l’ipotesi che questa anomalia vascolare possa essere associata alla sclerosi multipla, mostrando con uno studio in doppio cieco che tale malformazione è presente in una bassa percentuale sia nei pazienti analizzati sia in controlli sani [“Prevalence of extracranial venous narrowing on catheter venography in people with multiple sclerosis, their siblings, and unrelated healthy controls: a blinded, case-control study”, Lancet, 2014 Jan. 11; 383 (9912)]. Al momento non esistono studi controllati che dimostrino l’effettiva efficacia della manovra di liberazione o che ne valutino la reale sicurezza. Altissima è l’incidenza delle restenosi post intervento. Nonostante questo, si calcola che dal 2010 la manovra di liberazione venga eseguita in strutture private di 40 paesi e che già 30.000 pazienti si siano sottoposti a tale procedura. Purtroppo esistono medici senza scrupoli che, in assenza di evidenze definitive, al di fuori di protocolli di studio speculano sulla speranza dei malati per meri motivi economici.

[5] La lunghezza del testo mi costringe ad accennare concetti che avrebbero necessità di maggiore esposizione. Per ciò che intendo per “storytelling” si veda Wu Ming 2, La salvezza di Euridice, contenuto in New Italian Epic.Narrazioni, sguardi obliqui, ritorni al futuro, Einaudi 2009.

[6] Carlo Ginzburg, Rapporti di forza. Storia, retorica, prova,Milano, Feltrinelli 2000.

[7] È curioso a questo punto ricordare come Di Bella divenne professore di Fisiologia a Modena nel 1939 e prese parte dal ’41 al ’43 alla campagna italiana in Grecia in qualità di ufficiale medico.

[8] Durante la scrittura di questo testo sono comparsi in rete e su carta numerosi articoli che hanno sviluppato una riflessione sugli argomenti qui trattati. Ultimo in ordine di tempo, segnalo per concisione e chiarezza l’articolo di Fabio Chiusi pubblicato su Wired.it il 3 gennaio, dal titolo Contro l’apologia dilagante dell’ignoranza, (http://
www.wired.it/attualita/me
dia/2014/01/03/contro-lapolo
gia-dilagante-dellignoranza/) che converge con molte delle mie conclusioni. Sono debitore a tutte queste letture.

 

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Riccardo Capecchi, medico specializzando in Immunologia Clinica all’Università di Pisa. Assieme ad altri 114 autori ha preso parte alla stesura del romanzo collettivo “In territorio nemico” (Minimum Fax). Scrive sciocchezze in rete con lo pseudonimo di Blepiro. Qualche volta ha anche una vita sociale.