Libertà e autonomia della scienza

di Carlo Flamigni

 

Il primo problema che la scienza deve risolvere oggi riguarda la prevalenza, sempre più evidente, della ricerca scientifica post-accademica, quella finanziata dall’industria, dalla quale dipende una conoscenza non sempre basata sull’oggettività, non sempre fondata sul disinteresse personale, sul comunitarismo, sull’universalismo e sullo scetticismo organizzato, cioè sugli imperativi istituzionali della ricerca scientifica. Questa nuova scienza tende a sottrarre i risultati delle indagini alla proprietà del ricercatore, vietandogli di comunicarli, di analizzarli e di criticarli; stabilisce un rapporto perverso tra ricerca scientifica e mercato; tende a far tracimare le sue regole nel terreno della scienza accademica, condizionando negativamente la credibilità del ricercatore. Ne può derivare una scienza completamente imbrigliata nelle reti della prassi, in un mosaico che produce una particolare forma di conoscenza che deve essere in accordo con gli interessi finanziari, commerciali, politici e sociali degli enti che la finanziano.

Il problema è complesso. La scienza occupa un posto ben preciso nella società ed è una voce importante nel bilancio nazionale, con rapporti di grande rilievo con la medicina, la tecnologia, la legge e la politica. Difendere la scienza accademica dagli sconfinamenti della ricerca industriale non è dunque solo un problema morale: è un dovere sociale, non assolvendo il quale si consegna la società ad una pseudoscienza priva di responsabilità, insincera e certamente non virtuosa. Ebbene, delle molte cose che si possono fare per riportare la scienza alla produzione di una conoscenza non interessata e comunque sottoposta al controllo sociale, nessun governo, a mia memoria, si è mai realmente interessato.

Se la produzione di una conoscenza originale e utile può essere considerata una ricchezza per tutti, ci si dovrebbe aspettare, da chi amministra il paese, la scelta di una politica capace di consentire la competizione con le strutture che controllano il sapere nel resto del mondo. Non solo nessuno si è mai adoperato in questo senso, ma sono stati fatti concreti tentativi per andare nella direzione opposta. Ignoro se questi passi siano stati fatti per ingenuità o per ignoranza, ma non so se errori di questo genere possano comunque trovare giustificazioni. Da molti anni è in atto una discussione, che talora prende toni piuttosto accesi, su chi abbia il diritto di controllare la ricerca scientifica, ammesso che questo diritto esista.

Comincio col dare la mia opinione su quest’ultimo punto. Voglio partire da una definizione della scienza, senza la quale non sarebbe possibile discutere con un minimo di ordine: una peculiare istituzione sociale che coinvolge grandi numeri di particolari persone che eseguono con regolarità azioni specifiche coordinate consapevolmente in progetti più vasti (T. Ziman). Ciò significa che i ricercatori godono della più ampia libertà rispetto a quanto fare, ma che la loro attività individuale ha significato scientifico soltanto rispetto ad un progetto più vasto e condiviso. Ne deriva che le critiche che la società può muovere ad uno studioso che ha deciso di iniziare una sperimentazione che tutti gli altri ricercatori sconsigliano, non sono in realtà rivolte ad uno scienziato e non hanno niente a che fare con la scienza.

Il secondo punto riguarda il fatto che la ricerca scientifica è un’attività umana che non può sottrarsi ai condizionamenti che riguardano tutte le attività dell’uomo: deve avere codici, vincoli, attribuiti. Deve garantire una efficiente autodisciplina ed essere così trasparente da consentire un equilibrato controllo da parte della società. Se la scienza fosse soltanto un sistema di conoscenze, allora non sarebbe soggetta all’etica, poiché nessuno può porre limiti alla conoscenza. Ma la scienza usa strumenti, per arrivare alla conoscenza, e gli strumenti sono diventati una parte integrante del conoscere. Un controllo da parte della morale sembra dunque diventato inevitabile: è chiaro che a questo punto è necessario chiedersi qual è la morale autorizzata a giudicare la scienza.

Ragionando in modo molto elementare, mi sembra che se l’acquisizione di nuove conoscenze è un interesse della collettività, se la scienza opera in favore del benessere e dello sviluppo della società, non si può accettare un controllo che sia affidato alle religioni o alle ideologie. Si può invece prevedere che a condizionare le scelte della ricerca scientifica possa essere chiamata una generale disposizione della coscienza collettiva dell’uomo che chiamerò, per semplicità, la morale di senso comune. Questa morale, che si forma per molteplici influenze dentro ognuno di noi, ha sempre avuto un dialogo utile ed efficace con la scienza, e pur essendo, per sé, molto restia ad accettare i cambiamenti e persino le proposte di cambiamento, ha generalmente ceduto di fronte alle pressioni di quelle che vengono definite “le intuizioni delle conoscenze possibili” perché è riuscita a trovare, al loro interno, indicazioni relative ai vantaggi impliciti e tranquillità nei riguardi dei rischi probabili.

Ma l’evoluzione della conoscenza, oggi, è così rapida che le influenze di maggior rilievo sulla morale di senso comune non possono essere affidate a morali ossificate, colme di pregiudizi, incapaci di adattarsi alle nuove proposte in tempi accettabili. È necessario che il rapporto tra morale di senso comune e intuizione delle conoscenze possibili sia mantenuto vivo ed efficace da un’etica non dogmatica, laica, capace insieme di adattarsi al nuovo e di riconoscere tempestivamente gli elementi di mistificazione e di rischio, di non inchiodare la società alla croce di un concetto antistorico di natura, ma di salvaguardare al contempo alcune caratteristiche fondamentali della specie umana.

Su questa “etica laica” è stata fatta molta confusione e sono state dette molte cose strane, inclusa la richiesta di non inserirla comunque nei dizionari di filosofia, non so se per le sue contraddizioni o per le sue debolezze, apparentemente dovute alla mancanza di principi. Credo che queste critiche non siano corrette e ripropongo alcuni concetti del manifesto di etica laica che firmai, con Mori, Massarenti e Petroni, alcuni anni or sono.

  • Il primo principio della laicità è quello dell’autonomia: tutti gli individui hanno la stessa dignità e non possono esistere autorità superiori che presumano di poter scegliere per gli altri per le questioni che riguardano la vita e la salute.
  • Il secondo principio è quello di garantire il rispetto delle convinzioni religiose di tutti i cittadini, nella convinzione che dalla fede non possano derivare prescrizioni e soluzioni in materia di bioetica, ma senza dimenticare che la dimensione religiosa contribuisce alla formazione di un’etica diffusa.
  • Il terzo principio è quello di garantire ad ogni individuo una qualità di vita quanto più alta possibile, riconoscendo a tutti il diritto di vivere e morire con il minimo di sofferenza possibile e garantendo a tutti l’accesso alle migliori cure mediche possibili, naturalmente in rapporto alle risorse disponibili.

Secondo l’etica laica, la legislazione in campo biomedico deve essere guidata dall’idea di lasciare ad ogni studioso la più ampia sfera di decisioni autonome compatibili con l’interesse della collettività. In una società complessa come la nostra, caratterizzata dalla convivenza di molte visioni differenti dell’uomo e della morale, non si può pensare che possa esistere un canone etico a vocazione universale, soprattutto su un campo come quello della bioetica, che tocca le concezioni e i sentimenti più profondi dell’uomo.

La bioetica laica non è una versione secolarizzata della bioetica religiosa e non vuole rappresentare una nuova ortodossia: tra l’altro, in molte questioni gli stessi laici sono in disaccordo tra loro. La bioetica laica non vuole imporsi a coloro che aderiscono a valori e visioni diverse, ma si limita a cercare mediazioni, evitando di trasformare i contrasti in conflitti, considerando peraltro irrinunciabili i valori sufficientemente forti da rappresentare la base per regole di comportamento giuste ed efficaci: l’equità, la libertà della ricerca, l’autonomia delle persone. In questo modo, l’etica laica si può proporre come un metodo, utile per affrontare i problemi più complessi, anche quelli apparentemente irrisolvibili, un metodo reso particolarmente utile ed efficace dalla forza dei principi su cui è fondato.

Ma il problema vero, quello che dovrebbe essere oggetto di un dibattito pubblico molto più ampio di quello al quale ho assistito fino ad oggi, è quello che si può definire come “la questione cattolica”. Ha scritto Carlo Viano (Rivista di Filosofia, 2, 2002) che la sensazione che il regresso delle ideologie totalitarie dovesse far svanire l’ultima minaccia alla libertà della scienza, si è rivelata errata perché le trasformazioni delle scienze biologiche hanno posto fine al faticoso armistizio tra religione e scienza. Il Magistero cattolico è stato esplicito, almeno su questo punto: finché si tratta di mondo inorganico sono gli scienziati che debbono dirci come stanno le cose e la Bibbia può ricevere un’interpretazione figurata, ma appena si sfiora il mondo della vita la Chiesa non rinuncia alla credenza che essa dipenda da un’anima e perciò gli scienziati non possono pretendere di aver il diritto di intervenire.

Oggi le minacce alla libertà della scienza vengono dal fronte religioso, nelle società occidentali dall’integralismo cattolico e dal fondamentalismo protestante, oltre che da ideologie deboli che, non più favorevoli all’idea di Stato totalitario, contestano tuttavia la legittima possibilità per la scienza di porsi qualsiasi domanda, per irrispettosa che sia delle convinzioni di qualcuno, e di mettere alla prova le possibilità di alterare i processi naturali. Queste pretese cominciano ad avere ospitalità negli ordinamenti giuridici e hanno condizionato il finanziamento delle ricerche perfino in un paese liberale come gli Stati Uniti. La classe politica italiana, quale che sia il suo colore, non sembra affatto disposta a difendere i cittadini dalle imposizioni della Chiesa cattolica e a garantire che le scelte ispirate a credenze religiose non possano essere imposte a chi non le condivide. Si veda, solo per fare un esempio, l’intervento di un Governo che pur ama definirsi “tecnico” rivolto ad opporsi a un giudizio della Corte per i Diritti dell’Uomo che ha recentemente deliberato dichiarando illegittima almeno una parte della legge 40 sulla fecondazione assistita.

Condivido appieno le parole di Carlo Augusto Viano e condivido quello che, sulla stessa rivista, scriveva Antonello La Vergata, qualche tempo fa: è in atto un tentativo di costruire sulle lacerazioni del mondo cattolico e sul dramma dei cattolici non integralisti un blocco culturale antidemocratico e un blocco politico clerico-industriale, in cui gli interessi dell’impresa sono presentati come gli interessi della società tout court, e i valori della tradizione cattolica come i valori costitutivi dell’identità italiana … E così il Magistero non solo interviene contro le coppie di fatto, le unioni omosessuali, la fecondazione assistita, l’aborto, l’eutanasia e la clonazione, ma addirittura incita avvocati e giudici all’obiezione di coscienza contro il divorzio.

Si portano, nella discussione bioetica relativa alle nuove proposte della scienza, falsi argomenti, fingendo di derivarli da una letteratura scientifica che, o non esiste, o ha assai poco di scientifico. Al tempo stesso, si ignorano le ragioni degli altri, anche quando queste ragioni sono supportate da una letteratura seria e attendibile. Riesco a capire, pur disapprovandole, le ragioni di “questa malafede”: chi vive troppo intensamente la propria religione o, più genericamente, i propri principi morali, può arrivare al punto di dimenticare che esistono, per tutti, “limina certa” e cercare di prevalere sulle opinioni degli altri – quando queste divengono minacciose per le proprie — anche contro l’evidenza e la verità. Questa non è più soltanto “malafede”, è mala-fede, un altro, nuovo tipo di prevaricazione ideologica da aggiungere ai numerosi che l’analisi della storia consente di elencare. Del resto, fare luce sui meccanismi più intimi della biologia della riproduzione non è privo di effetti sulle differenti visioni metafisiche della procreazione e soprattutto sul concetto di sacralità della vita, che ormai si sta sgretolando lentamente.

 

Carlo Flamigni vive e lavora a Forlì. Ha diretto il Servizio di Fisiopatologia della Riproduzione dell’Università di Bologna e l’Istituto di Ostetricia e Ginecologia dell’Università di Bologna presso l’Ospedale S. Orsola. È Professore ordinario di Ginecologia e Ostetricia presso l’Università di Bologna, è stato Presidente della S.I.F.E.S. ed è membro del Comitato Nazionale per la Bioetica. Si occupa principalmente di Fisiopatologia della Riproduzione e di Endocrinologia Ginecologica, autore di oltre 900 pubblicazioni scientifiche e di numerosi volumi di divulgazione scientifica. È presidente onorario dell’UAAR. (Maggiori informazioni su www.carloflamigni.it).

Da L’ATEO 4/2013