Paura degli atei? Stereotipi sui non credenti e il fenomeno dell’ateofobia

di Laura Salvadori

 

Gli studi che mostrano i religiosi perseguitati e vittime della “cristianofobia” o “dell’islamofobia” sono ormai noti, ignorate dai mass media sembrano invece le condizioni dei non credenti, nonostante il pregiudizio nei loro confronti non possa essere considerato trascurabile.

Sono chiari i dati della ricerca che l’International Humanist and Ethical Union (IHEU), un’associazione che raggruppa 120 organizzazioni atee e umaniste di oltre 40 paesi, ha pubblicato in occasione della giornata mondiale per i diritti umani. La discriminazione dei non credenti avviene da parte dei governi di tutto il mondo, con leggi che negano il diritto degli atei ad esistere, ne limitano la libertà di espressione, revocano il loro diritto di cittadinanza, ne ostacolano l’accesso alla pubblica istruzione o al pubblico impiego, criminalizzano la loro critica della religione.

In sette paesi del mondo, Afghanistan, Iran, Maldive, Mauritania, Pakistan, Arabia Saudita e Sudan, coloro che si dichiarano atei possono subire la pena capitale. In altri paesi, come Bangladesh, Egitto, Indonesia, Kuwait e Giordania testi ateisti o umanisti sono vietati perché ritenuti blasfemi.

Altri Stati hanno ordinamenti giudiziari che provocano la discriminazione sistematica dei non credenti nella vita sociale. Per esempio in Indonesia esistono leggi sul controllo religioso del diritto alla cittadinanza e del diritto alla famiglia; secondo queste legislazioni i cittadini devono identificare la loro religione sulla carta di identità ed è proibito dichiararsi “atei”, “agnostici” o “nessuna religione”. I non credenti che scegliessero di mentire per avere i documenti (necessari per accedere al lavoro e agli studi) identificandosi con una religione, sarebbero poi costretti a dimostrare pubblicamente la loro fede per potersi creare una famiglia.

In sette Stati americani, invece, ai non credenti è proibito divenire pubblici ufficiali e in Arkansas non possono testimoniare in tribunale, dal momento che non possono giurare sulla Bibbia. Lo stesso capo dello Stato, Bush, nel suo discorso alla nazione del 24 agosto 1987 affermava «Non credo che gli atei dovrebbero essere considerati cittadini, né tantomeno patrioti. Questa è una nazione timorata di Dio».Anche in quei paesi in cui i non credenti non sono penalmente perseguiti, sono comunque costretti a subire l’ostracismo dei media, il biasimo dei religiosi, il pregiudizio da parte della società in cui vivono e numerosi sono i casi di intolleranza a causa dei quali gli atei sono costretti a cambiare lavoro, scuola o città.

Cosa si nasconde alla base di tali discriminazioni? Nello studio di Gervais, Shariff e Norenzayan (2011) un campione di studenti universitari è stato invitato a scegliere tra un candidato religioso e uno ateo per due posti di lavoro: un educatore di asilo nido e un cameriere. Al di là della loro appartenenza o non appartenenza religiosa, i candidati avevano medesime qualifiche per la posizione. I partecipanti hanno significativamente preferito il credente all’ateo per l’asilo nido, ruolo per il quale serviva una elevata dose di fiducia. Ciò che aumenta il pregiudizio è avere fede in Dio: nello stesso studio si osserva, infatti, come individui più religiosi fossero coloro che maggiormente stigmatizzavano gli atei. Tale ricerca ha dimostrato che alla base dei preconcetti contro i non credenti esisterebbe un sentimento di sfiducia (diverso per esempio rispetto al sentimento di disgusto alla base del pregiudizio contro gli omosessuali).

Allo stesso modo lo studio di Rice e Richardson (2012) sottolinea ulteriormente che per quanto riguarda gli atei non siano messe in discussione solo le capacità morali ma anche le capacità lavorative, determinando un minore riconoscimento sul luogo di lavoro dei non credenti a parità di meriti rispetto ai colleghi religiosi. La diffidenza nei confronti degli atei sembra guidata non tanto da motivi etnici o materiali quanto piuttosto da timori rispetto alla perdita di valori etici e morali che sono ritenuti il risultato del rispetto di Dio e delle regole dettate dalla religione nella società.

Alla base di questo rifiuto, quindi, non c’è la conoscenza diretta di individui non credenti, bensì il basarsi su stereotipi che vedono lo sviluppo dell’ateismo come una corrente che può mettere a repentaglio le leggi morali di una società; per questo gli atei sono meno accettati anche delle altre minoranze religiose, perché queste vengono comunque ritenute portatrici di un qualche valore. Gli ideali sacri sarebbero latori di valori positivi per la società quali la solidarietà verso i deboli, la carità, la fratellanza. Mentre gli individui atei avrebbero maggiori probabilità di sviluppare comportamenti rischiosi per loro stessi e per gli altri. Questa tesi “dell’assunzione del rischio” (Liu, 2010) si basa sul presupposto che i precetti religiosi, nella maggior parte dei casi, tendono a punire i comportamenti devianti con pene che saranno scontate nella vita ultraterrena. L’idea di una condanna divina fungerebbe da deterrente, però, solo per coloro che credono, i quali quindi, non si “assumerebbero il rischio” di una punizione; gli atei, tenderebbero, invece, a ignorare tali norme e a concentrarsi su ciò che accade nella vita terrena, e ciò li renderebbe maggiormente inclini a seguire i propri impulsi e a sviluppare comportamenti devianti e condotte d’abuso.

La realtà dei fatti sembra però diversa. Molti autori si sono prodigati nel dimostrare come tutti gli individui indipendentemente dalla loro appartenenza o meno ad un credo religioso abbiano una propria moralità.

Daniel Dennett nella sua opera “Rompere l’incantesimo” (2007) cerca di dimostrare come non sia la religione a creare individui moralmente migliori. Se i principi etici dipendessero da una ricompensa eterna le persone non credenti vagherebbero senza scopo e indulgerebbero nei desideri più vili. Ma questo ragionamento sottende una visione dell’umanità estremamente degradante che comunque i fatti smentiscono, dal momento che non c’è nessuna evidenza che le persone che non credono nella ricompensa del paradiso o nella punizione dell’inferno abbiano una maggiore tendenza a uccidere, violentare, rubare, o non mantenere promesse.

Anche Barrett (2007) afferma che tutti gli individui hanno delle capacità morali. Egli sostiene, tuttavia, che i teisti abbiano il lusso di una certezza morale fornitogli dalla religione, mentre gli atei debbano crearsi da soli la propria etica.

Geertz e Markusson (2010) sostengono che i non credenti creino la propria morale a partire dall’ideologia di una società giusta e dalla presenza in essa di regole da seguire per la civile convivenza. Il rispetto viene, dunque, portato alle altre persone piuttosto che ad un Dio, e questo non impedisce agli atei di provare compassione e a sviluppare doti altruistiche, che vengono considerate meccanismi di default affinati nel corso dell’evoluzione piuttosto che il frutto di leggi divine.

Nonostante l’evidente infondatezza dei pregiudizi nei confronti dei non credenti, molti studi dimostrano che questi sono la minoranza più temuta nei paesi occidentali. Una ricerca di Gervais e collaboratori (2011) rivela che per gli americani la descrizione di un individuo penalmente infido è più rappresentativa degli atei piuttosto che di cristiani, musulmani, omosessuali, ebrei o femministe. Anche altri studi condotti sulla popolazione americana hanno dimostrato che i non credenti sono ritenuti il gruppo più problematico, e il divario tra l’accettazione degli atei e l’accettazione delle altre minoranze sia etniche che religiose è ampio e persistente.

Edgell, Gerteis e Hartmann (2006) dimostrano che è più probabile che gli americani disapprovino un figlio che decide di sposarsi con un ateo rispetto ad un individuo che faccia parte di qualsiasi altra minoranza. I dati sono sorprendenti se si pensa che i non credenti sono ritenuti più pericolosi dei musulmani (i quali dopo l’11 settembre e la guerra in Iraq non godono di una buona accettazione sociale) e degli omosessuali (che sono ritenuti pericolosi per la potenziale volontà di sovvertire la composizione della famiglia tradizionale). I non credenti quindi risultano più discriminati rispetto ad ogni altra minoranza etnica, religiosa, e sessuale.

Un recente studio di Gervais (2011) sposta però l’attenzione sul fatto che la categoria degli atei goda di una interessante peculiarità. Per più di 50 anni, i ricercatori hanno riconosciuto una correlazione positiva tra il pregiudizio contro il diverso e l’ampiezza del gruppo discriminato: perciò più grande è il gruppo stigmatizzato e più elevato è il pregiudizio nei suoi confronti. Gervais (2011) dimostra che questa correlazione si inverte proprio parlando di ateismo. La ricerca verifica, infatti, l’ipotesi che all’aumentare del numero degli atei in una determinata popolazione si riduca la loro discriminazione. A dimostrazione di questa tesi, lo studio osserva che il pregiudizio contro gli atei si abbassa nei territori dove ne vivono molti. In paesi come Danimarca e Svezia nei quali gli atei sono un numero più elevato i preconcetti nei loro confronti sono pressoché inesistenti.

La stigmatizzazione si riduce, inoltre, quando la persona stima che i non credenti siano quantitativamente significativi nella popolazione, a prescindere dal loro effettivo numero, dimostrando che il pregiudizio contro di loro non dipende dalla presenza reale, ma dalla percezione di questi nella popolazione stessa. Secondo questo studio infatti le persone che ritenevano che gli atei fossero più frequenti avevano minori preconcetti rispetto a coloro che ritenevano che i non credenti fossero in numero inferiore.

Le cause che sembrano motivare tale fenomeno secondo gli autori sarebbero due: da una parte le persone che pensano che i non credenti siano più comuni sarebbero coloro che hanno avuto più contatti con loro e hanno potuto appurare personalmente che la loro affidabilità non è diversa da quella di chiunque altro, contrastando gli stereotipi negativi; dall’altra finché si ritiene che gli atei siano un gruppo sparuto si può anche credere che siano degli immorali che vivono violando tutte le leggi etiche e civili, mentre si incorre in una evidente dissonanza nel momento in cui questi diventano un gruppo grande e conosciuto che non sostanzia le aspettative violente e immorali cui viene solitamente legato. Quest’ultima ricerca ci offre un risultato incoraggiante, soprattutto in un paese come l’Italia, in cui dati ISTAT mostrano che è in aumento la quota di coloro che non frequentano luoghi di culto, che passano dal 15,9% nel 2001 al 20,2% nel 2011.

Dunque se da una parte il biasimo verso i non credenti sembra essere legato alla presenza e diffusione di stereotipi negativi che li dipingono come persone inaffidabili e dalla dubbia moralità, dall’altra i fatti dimostrano che le popolazioni in cui gli atei sono maggiormente presenti non confermano tali tendenze, ma al contrario viene mostrata una maggiore accettazione di questi. Purtroppo mancano degli studi specifici sul territorio italiano, ma alla luce di queste nuove scoperte è auspicabile, vista la diminuzione dei credenti militanti, un’inversione di tendenza rispetto alla stigmatizzazione dei non credenti.

Accanto ad una maggiore conoscenza dell’ateismo però, perché davvero si possano ridurre i pregiudizi, sembra quanto mai necessario cercare di abbandonare insostenibili pretese di verità a priori. Liberarsi dai pregiudizi è difficile ma affrontarli con consapevolezza, per relativizzarne il peso, appare necessario.

Bibliografia

Barrett J. (2007). Is the spell really broken? Bio-psychological explanations of religion and theistic belief. Theology and Science, 5 (1), 57–72.

Dennett D. (2007). Rompere l’incantesimo. La religione come fenomeno naturale. Milano, Raffaello Cortina Editore.

Edgell P., Gerteis J. & Hartmann D. (2006). Atheists as “Other”: Moral Boundaries and Cultural Membership in American Society. American Sociological Review, 71(2), 211-234.

Geertz A.W. & Markusson G.I. (2010). Religion is natural, atheism is not: On why everybody is both right and wrong. Religion, 17, 1–14.

Gervais W.M., Shariff A.F. & Norenzayan A. (2011). Do you believe in atheists? Distrust is central to anti-atheist prejudice. Journal of Personality and Social Psychology, 101, 1189–1206.

Gervais W.M. (2011). Finding the faithless: Perceived atheist prevalence reduces anti-atheist prejudice. Personality and Social Psychology Bulletin, 37, 543–556.

International Humanist and Ethical Union (2012). Report on Discrimination Against Humanists, Atheists and Non-religious People.

ISTAT (2012). Indagine multiscopo annuale sulle famiglie. “Aspetti della vita quotidiana”.

Liu E.Y. (2010). Are Risk-Taking Persons Less Religious? Risk Preference, Religious Affiliation, and Religious Participation in Taiwan. Journal for the Scientific Study of Religion, 49 (1), 172–178.

Rice S. & Richardson J. (2012). The effect of religious and sexual stigmas on programmers and trust in their work product. The Social Science Journal (in stampa).

 

Laura Salvadori dopo studi classici si laurea in Psicologia Clinica e della Salute con una tesi sul confronto psicologico tra cattolici praticanti, non praticanti e atei. Psicologa libero professionista e specializzanda in Psicoterapia Cognitivo Costruttivista, collabora con l’Associazione Artemisia, centro contro la violenza su donne e minori, a Firenze.