Venticinque secoli di ateofobia

di Raffaele Carcano

 

I gruppi umani non hanno mai promosso il dissenso. Possono averlo tollerato e solo fino a un certo punto. Più frequentemente, lo hanno represso, spesso con la forza. Negli infiniti gruppi di cui è costellata la storia di Homo sapiens le credenze nel soprannaturale hanno costituito un cemento formidabile, secondo soltanto alla lingua. Non stupisce che il dissenso da queste credenze abbia sempre costituito un problema. Non stupisce nemmeno che l’incredulità abbia sempre costituito un problema, un problema ancor più grande. Perché l’ateismo non è un tipo diverso di credenza, non si pone come la macchina per scrivere nei confronti della penna stilografica. L’ateismo, al confronto, è internet.

È la più grande opposizione a qualunque sistema religioso che si possa concepire. E per questo motivo può essere perseguitato anche dai sistemi religiosi più tolleranti. Il primo essere umano che, a quanto ci consta, si vede affibbiare l’etichetta di “ateo” è il poeta Diagora di Milo. I suoi versi corrosivi prendono di mira la religione. Troppo, anche per la tanto celebrata democrazia ateniese dell’età di Pericle: viene bandito dalla città e deve trovare rifugio a Corinto. Il decreto che lo prende di mira, e che prende di mira chiunque non crede negli dèi “riconosciuti dalla patria”, colpisce anche Anassagora, Socrate, Protagora e qualche decennio dopo il filosofo Teodoro di Cirene, a sua volta definito “l’ateo”.

In quel periodo ad Atene governa anche Crizia, il primo politico a giustificare la religione quale instrumentum regni, principio che troverà poi sistemazione filosofica nel De natura deorum di Cicerone. Sia Crizia, sia Cotta (il personaggio in cui viene identificato Cicerone) sono assai sospetti di incredulità: il fenomeno degli atei devoti, degli increduli che in nome della ragion di Stato perseguono altri increduli, viene dunque da molto lontano.

Di Atene è anche Platone. Nelle Leggi, per far fronte al numero crescente di atei, propone l’introduzione di pene draconiane: cinque anni in una casa di correzione per gli atei “banali”, ergastolo e pena di morte per quelli dissoluti e recidivi, recalcitranti alla rieducazione. Volenti o nolenti (nel mio caso, nolenti) Platone è uno dei pochi pensatori che ha saputo segnare la storia per millenni e che gode di discreto credito ancora oggi. Il primo di una lunga serie di cattivi maestri dell’ateofobia.

Nonostante il clima, tuttavia, la storia dei non credenti nel mondo antico non finisce. Perché laddove la società si caratterizza per un certo benessere, una limitata libertà di parola e adeguati livelli di istruzione, l’incredulità emerge spontaneamente, perlomeno tra i ceti che se lo possono permettere. Anche a Roma vivono atei conclamati: il più famoso di tutti è Lucrezio. Ma, anche a Roma, vi sono episodi di intolleranza. Il più noto di tutti riguarda Carneade. Il filosofo scettico, inviato come ambasciatore degli ateniesi a Roma, argomenta in modo un po’ troppo relativista. Risultato: non piace ai maggiorenti dell’urbe, e in particolare a Catone il Censore, che spinge il Senato a rispedirlo al mittente con l’accusa di voler “turbare la gioventù”.

La situazione peggiora, e parecchio, nel momento in cui Costantino e i suoi successori impongono il cristianesimo. La nuova religione eredita dall’ebraismo anche l’ateofobia del suo testo sacro: il salmista dice che i negatori di Dio sono uomini “stolti, corrotti, che fanno cose abominevoli” e il Deuteronomio, per non sbagliare, stabilisce che gli apostati vanno lapidati. Gesù, nel Vangelo, dice che “chi non è con me è contro di me” e i primi cristiani amplificano il concetto in un eterno conflitto cosmico in cui “chi non è con il nostro Dio è con Satana”. Fin dall’inizio il compito di rappresentarlo viene affidato al rito battesimale e all’esorcismo che ne è parte: chi si fa cristiano rinuncia a Satana, chi rinuncia al battesimo torna a Satana. In poche parole, qualunque non cristiano (e, molto presto, qualunque non cattolico) è, letteralmente, demonizzato. E dovrà quindi essere estirpato.

Con l’aiuto dello Stato, ovviamente. I testi sacri ebraici sono trasfusi nella legislazione, su esplicita richiesta di vescovi e leader cristiani. La religione si fa Stato, in particolar modo dopo l’ascesa al potere di Teodosio. Già nel 386 è istituita la pena di morte per i perturbatori della “pace nella Chiesa”: due anni dopo si proibiscono, pena supplizio, le discussioni pubbliche sulla religione; cinque anni dopo a coloro che “hanno tradito la santa fede e profanato il santo battesimo” viene negata la possibilità di ricoprire un ufficio pubblico, di testimoniare, testare ed ereditare; sei anni dopo è introdotta la deportazione per chi “turba la fede e la popolazione cattolica”. Nel 426 viene per la prima volta decisa la pena di morte per gli apostati, estesa poi ai possessori di libri contrari al cristianesimo e ai perturbatori del culto cristiano e, con Giustiniano, a bestemmiatori e omosessuali. Sant’Agostino indica come modelli Costantino e Teodosio, e predica l’entrata obbligatoria nella religione cristiana: richiesta accolta, chi non vi appartiene è ormai privato dei diritti civili.

Fine delle trasmissioni per molti secoli, nel corso dei quali si perdono le tracce del dissenso. Ma non si perdono affatto le tracce della repressione del dissenso. Ai blasfemi si taglia la lingua, ma a chi si pone fuori dalla Chiesa va assai peggio: scomunica, privazione di funerali e sepoltura, marchio di infamia, divieto di assistenza legale, confisca dei beni, perdita dei diritti civili, ergastolo. Nonché pena di morte per chi è giudicato colpevole di aver voluto convincere altri della bontà delle proprie opinioni. San Tommaso ricorda che l’incredulità è il peccato morale più grave, meritevole della morte. Che, ipocritamente, non sarà la Chiesa stessa a comminare, ma il braccio secolare. A sua volta passibile di scomunica se non eseguirà la condanna.

Un sistema totalitario: il primo e il modello per gli altri che seguiranno. Un sistema che ha anch’esso i suoi “atei devoti”. Come Federico II, a sua volta inflessibile nella repressione della devianza, un atteggiamento che peraltro non gli evita di essere scomunicato due volte e da due papi diversi. Come devoto è pure Pietro Pomponazzi, che nega l’immortalità dell’anima e i miracoli, ma invita anche a “credere quel che vogliono i teologi e i prelati con tutta la Chiesa romana, perché altrimenti farete la fine delle castagne”.

Perché nel frattempo si contano i morti: Pietro D’Abano, Cecco d’Ascoli. È difficile capire la portata dell’incredulità di tanti dissidenti dell’epoca, proprio perché la possibilità di esporsi è limitata e per contro le accuse di ateismo fioccano anche nei confronti di semplici eretici. Meglio la morte civile che la morte sul rogo, si pensa, anche perché “ateo” è ormai un termine passepartout usato per indicare qualunque reato. O peccato che dir si voglia: la distanza tra le due parole è infatti giunta ai minimi termini.

La società è e deve continuare a essere integralmente cattolica. L’Inquisizione è solo un tassello, per quanto il più importante, di un meccanismo repressivo sempre in corso di perfezionamento. Per esempio, l’arcivescovo di Milano san Carlo Borromeo aggiunge all’obbligo della confessione quantomeno annuale anche l’obbligo di un certificato che attesta di averla praticata. San Pio V, che rappresenta l’apice del fanatismo controriformista, impone di negare le cure agli inconfessi. C’è chi ne muore e c’è chi finisce al rogo.

Étienne Dolet, 1546. Jacques Gruet, 1547. Girolamo Biscazza, 1570. Tutti bruciati con l’accusa di ateismo. E ancora Giulio Cesare Vanini, il più noto: 1619. Dopo di allora, e soprattutto dopo il caso-Galileo, l’inquisizione abbassa le ali. La società si secolarizza, i sovrani assoluti non vedono più tanto di buon occhio un potere concorrente, anche a causa del pluralismo confessionale che comincia ad affermarsi sul continente. Alla fine del Seicento, a Napoli, l’inquisizione può ancora celebrare il processo al gruppo degli “ateisti” dediti all’atomismo. Ma i tempi sono ormai cambiati: si fa strada il principio della tolleranza e si avvicina l’età dei Lumi.

Già: ma quale tolleranza, per chi è senza Dio? John Locke, che scrive il famoso Trattato, la nega (oltre che ai cattolici) anche agli atei, ritenuti privi di morale e incapaci di giurare. Voltaire, autore dell’altrettanto famosa Lettera, nel Dizionario filosofico inserisce anche una corrosiva voce sull’ateismo, definendolo “un mostro”. Nel frattempo, i “blasfemi” continuano a essere condannati a morte: tra i più noti, Thomas Aikenhead nel 1697, addirittura nel 1776 il Cavaliere de La Barre. I libri continuano a essere oggetto di censura, benché meno occhiuta del passato e nessuno, persino tra gli illuministi, ha ancora il coraggio di manifestare apertamente il proprio ateismo.

Almeno fin quando non scoppia la Rivoluzione francese. Che tuttavia è guidata da deisti. Robespierre è decisamente ateofobo e proibisce le manifestazioni contrarie alla religione. Non solo: nella festa dell’Essere supremo, la vittima sacrificale prevista dal rituale è proprio l’ateismo.

Nel 1799, accusato di “ateismo”, Fichte deve lasciare la cattedra all’università di Jena. Nell’Ottocento l’ateismo si diffonde estesamente nei circoli intellettuali e le persecuzioni, quantomeno in Europa, diminuiscono. Ma ancora nel 1880 Charles Bradlaugh, eletto deputato nel Regno Unito, viene arrestato per essersi rifiutato di giurare sulla Bibbia.

Il Novecento è il secolo dei totalitarismi: che, come si può ben immaginare, non vedono di buon occhio l’ateismo. I regimi nazifascisti, gli stessi con cui la Santa Sede firma proficui concordati, mettono invece immediatamente fuori legge ogni organizzazione atea o laicista. Per dare un’idea della politica fascista, basti pensare che il Tribunale di Bologna stabilisce che il cittadino Ateo Trombetti deve, per decreto, chiamarsi Giusto Trombetti.

Ma agli atei butta male anche ad est. L’associazione dell’Unione Sovietica è sciolta per iniziativa di Stalin, quando l’avanzata tedesca lo spinge a riannodare i legami con la Chiesa ortodossa. Agli atei cechi va anche peggio: la loro organizzazione è sciolta tre volte in un secolo, prima dagli Asburgo, poi dai nazisti, infine dai comunisti.

Anche nell’Occidente “libero” il clima è però cambiato. Negli Stati Uniti il maccartismo è anche anti-ateo, ma si innesta su un clima favorevole: già nel 1940 a Bertrand Russell è vietato l’insegnamento al City College di New York. E legislazioni anti-atee, che precludono ai non credenti la possibilità di accedere ai pubblici uffici, sono in vigore in diversi stati USA ancora oggi.

La storia degli ultimi decenni vede l’ateofobia divampare soprattutto nei paesi islamici. Anche la sharia ritiene che l’apostasia sia meritevole della pena di morte e sette nazioni incorporano nella legislazione civile tale dottrina. Se fino a pochi anni fa a essere presi di mira erano soprattutto noti e ingombranti intellettuali, da Salman Rushdie a Taslima Nasreen, il diffondersi dell’ateismo tra le giovani generazioni fa sì che sempre più frequenti siano le condanne nei confronti di blogger o semplici attivisti.

Sarebbe bello se questo libro nero terminasse qui. È purtroppo prevedibile che la storia andrà diversamente. Proprio la diffusione dell’ateismo spinge le gerarchie religiose di ogni tipo ad accentuare i toni e a chiedere con sempre maggior forza la salvaguardia del sacro. La stessa legislazione italiana tutela penalmente ancora oggi il sentimento religioso e nessuno sembra aver voglia di eliminare questa arcaica discriminazione. Che un dio abbia bisogno di una legge per sentirsi protetto può sembrarci ridicolo, e lo è. Ma attenzione: dirlo ad alta voce può anche costare la vita, in certi angoli del pianeta.