Ateismo e sensualità

di Greta Christina, gretachristina.com

 

Occupiamoci una volta tanto di un argomento piacevole. Infatti, dell’argomento più piacevole di tutti. Il piacere.

La concezione atea della sensualità, del puro piacere fisico e del godimento del nostro corpo è circa undici miliardi di volte migliore di qualsiasi concezione religiosa tradizionale. La nostra concezione – o meglio, le nostre concezioni – del piacere fisico sono più coerenti, più eticamente corrette e di gran lunga più accattivanti e divertenti. Noi non crediamo in un’anima soprannaturale che sia migliore del nostro corpo, più importante del nostro corpo o ad esso superiore da tutti i punti di vista. Noi non crediamo di avere un’anima separata dal corpo, punto e basta. Certamente non crediamo in un dio immateriale che pensa che i nostri corpi siano delle cose ignobili – anche se è stato lui, a dire il vero, a crearli – e che si inventa infinite regole arbitrarie ed imperscrutabilmente pignole riguardo a come ci sia permesso o non ci sia permesso di usarli. Secondo noi il mondo fisico è tutto ciò che esiste. Secondo noi il nostro corpo, e la vita che in esso viviamo, è tutto ciò che abbiamo. E il risultato è che siamo completamente liberi – nei limiti della liceità etica, naturalmente – di goderci questo nostro corpo e questa nostra vita mortale e fisica. In quanto atei siamo liberi di valorizzare il nostro corpo e i piaceri che esso ci può dare nella maniera più completa ed esuberante possibile.

E allora perché non lo facciamo? Perché la cultura atea non è maggiormente indirizzata verso la fisicità? Perché non si concentra maggiormente sulla sensualità e sulla gioia dei sensi? Perché è così “cerebrale”, il più delle volte? In quanto atei abbiamo completamente rifiutato l’idea che esista un mondo più elevato, migliore di quello fisico. Perché, invece, diamo così spesso l’impressione di condividerla?

Il Dottor Anthony Pinn ha posto questa domanda lo scorso settembre [2012, ndt] a Denver, alla conferenza di “Atheist Alliance of America”. Non ricordo le parole esatte: ero troppo occupata a stare seduta lì a bocca aperta a pensare: “Ha ragione. Ha assolutamente ragione. Perché non ci ho pensato prima?”, e dunque non ho preso appunti dettagliati. Ma da quel momento in poi queste idee hanno cominciato a frullarmi e ronzarmi per la testa, e a cercare di uscirne.

So per certo che molti atei, forse addirittura la maggior parte di noi, non vivono in questo modo “cerebrale” nella loro vita privata. So di non essere l’unica atea a trovare piacere nel buon cibo e nell’ottimo vino, a scopare tutto il pomeriggio e a ballare tutta la notte, a camminare per chilometri sotto il sole e a fare culturismo per il puro piacere “endorfinico” di farlo, a fermarmi per annusare le rose. Ma la nostra vita pubblica normalmente non rispecchia queste cose. Ci sono alcune insigni eccezioni, naturalmente: mi vengono in mente eventi come “Skeptics in the Pub” e simili. Ma per lo più la nostra vita pubblica da atei – i nostri eventi, i nostri scritti, la nostra cultura – si occupano principalmente di attivismo politico, di trasformazioni sociali, di ricerca scientifica e della vita intellettuale.

Non fraintendetemi. Io sono una appassionata di attivismo politico, di trasformazioni sociali, di ricerca scientifica e della vita intellettuale. Ma la cultura atea non ha da offrire soltanto questo. Ha da offrire molto, ma molto di più. Questa idea stravagante che noi non siamo qualcosa di separato dal nostro corpo e che perciò questa vita è tutto quello che abbiamo – questo è uno dei nostri principali punti di forza. E tuttavia, quando si tratta di trarre una delle conclusioni logiche più ovvie derivate da questa idea – il concetto che, dal punto di vista etico, la ricerca del piacere non soltanto non è una cosa peccaminosa ma anzi è un bene a tutti gli effetti – noi pubblicamente facciamo marcia indietro. Quando i credenti ci accusano di essere degli edonisti sibaritici noi lo neghiamo con forza invece di rispondere: “Certo, sì, siamo edonisti – e perché mai non dovremmo esserlo? Le argomentazioni religiose contro il piacere sono ridicole e assurde. Perché mai dovremmo accettarle?”. Quando i credenti ci accusano di aver rifiutato le leggi divine al solo scopo di poter sguazzare nei piaceri sensuali noi diventiamo molto “sublimi”, ci offendiamo e adduciamo ogni possibile motivazione che ci venga in mente a sostegno del rifiuto preteso dalla religione invece di rispondere: “Certo, quello è un aspetto molto importante. Le vostre leggi divine immaginarie che regolamentano il piacere sono dannose, ridicole e completamente stupide, e per molti atei sono uno dei motivi principali per cui hanno cominciato a mettere in dubbio la religione”. Quando i credenti ci accusano del terribile crimine di goderci il nostro corpo noi ci difendiamo con veemenza da questa accusa invece di contestare la premessa stessa su cui si basa.

Come mai? In parte potrebbe semplicemente trattarsi di Pubbliche Relazioni. Negli Stati Uniti, almeno, l’equiparazione di stampo puritano del piacere con il peccato e l’auto-gratificazione egoistica è profondamente radicata dal punto di vista culturale. È possibile che alcuni atei pensino (consciamente o no) che per venire accettati all’interno della cultura maggioritaria sia necessario accettarne i valori o almeno non gloriarsi di metterli alla berlina in pubblico. È la solita disputa fra “conciliazionismo” e radicalismo: vogliamo semplicemente che il nostro modo di vita venga maggiormente accettato nella società oppure stiamo cercando di ottenere dei cambiamenti culturali più ampi e profondi all’interno della società stessa? È una disputa che è presente in tutti i movimenti di trasformazione sociale di cui io sia a conoscenza. Solo per citare un esempio: pensate alle dispute fra “conciliazionismo” e radicalismo all’interno del movimento LGBT. I primi cercano di presentare all’esterno la loro comunità come “esattamente uguale a tutti gli altri”, con i bambini, le magliette polo, gli steccati dipinti di bianco, la monogamia e una profonda fede in Dio. I secondi vogliono venire accettati esattamente per come sono, con tutta la loro varietà di pratiche sessuali, di scelte relazionali, di rappresentazioni di genere e di identità sociali, e vogliono ardentemente che la società cambi alcune delle sue principali concezioni sulla famiglia, l’amore, il genere e il sesso. I primi dicono: “Non è vero che i gay sono promiscui! Noi vogliamo semplicemente poterci sposare in maniera monogamica, esattamente come voi!”. I secondi dicono: “Certo, alcuni di noi sono promiscui, alcuni di noi hanno centinaia di partner sessuali – e che c’è di male in questo?”. I primi pensano che non verranno mai accettati se non si fa in modo che la società li consideri esattamente come tutti gli altri. I secondi pensano che non si potrà mai cambiare il modo in cui la società li considera se non si cambia prima la società … e non accettano le vittorie dei LGBT più “conformisti” ottenute a discapito di quelli più estremi.

Tutte cose già sentite? Questo dunque spiega in gran parte la questione. Tuttavia non credo che la tendenza degli atei a sottovalutare il piacere fisico dipenda soltanto da quale immagine di noi stessi vogliamo presentare in pubblico. Credo che molti di noi – ed io non sono un’eccezione, in questo – condividano questa mentalità, se non consciamente almeno inconsciamente.

Accade molto spesso che le persone emarginate condividano le concezioni che le emarginano. Il sessismo interiorizzato, il razzismo interiorizzato, l’omofobia interiorizzata ecc. – tutte queste cose sono ben documentate dalla ricerca sociologica. E non ci sorprendono affatto. Sessismo, razzismo e così via sono profondamente radicati nei nostri modi di pensare. Ne siamo imbevuti. Siamo tutti cresciuti in mezzo a questi modi di pensare e li abbiamo assorbiti tutti – anche coloro che ne sono le vittime. A volte l’auto-fobia [qui intesa come generico atteggiamento auto-denigratorio e non come la malattia mentale che porta questo nome, ndt] interiorizzata può essere molto palese, come nel caso delle donne che pensano che il sesso femminile sia adatto soltanto a fare la moglie e la madre. E a volte può essere più elusiva, un assorbimento inconscio di idee e riflessi meno evidenti, come nel caso delle donne che non chiedono aumenti di stipendio o promozioni sul lavoro con la stessa frequenza dei loro colleghi maschi. (Intendo dire, molte donne. Me inclusa).

Lo stesso vale per l’ateismo e per gli atei. A volte l’ateo-fobia interiorizzata può essere molto palese, come nel caso degli atei che affermano che la fede religiosa è una cosa meravigliosa e necessaria per la società e rimpiangono di non averla essi stessi. E a volte può essere più elusiva, un assorbimento inconscio di idee e riflessi meno evidenti, come nel caso dell’accettazione della ridicola idea che l’esperienza fisica abbia meno valore e sia meno significativa di quella intellettuale e che il piacere fisico sia una cosa di cui ci si deve vergognare.

E dunque diamoci un taglio. Valorizziamo il nostro corpo tanto quanto la nostra mente. Anzi, smettiamola di considerare il nostro corpo come qualcosa di completamente separato dalla nostra mente. Non limitiamoci semplicemente a rifiutare il dualismo cartesiano e la assurda idea che l’anima sia il vero “sé” e il corpo sia soltanto un involucro repellente. Rifiutiamo anche la sua progenie mutante, la assurda idea che l’intelletto sia il vero “sé” e i sensi siano soltanto un sovrappiù insignificante. La concezione atea del piacere fisico è più coerente, più eticamente corretta e di gran lunga più accattivante e divertente. Mettiamola al posto d’onore. Le nostre pubbliche relazioni ne gioveranno: forse spaventeremo qualche matusa ammuffito, ma sicuramente attireremo i giovani. Ed inoltre la nostra concezione ha il vantaggio di essere vera.

 

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Greta Christina è una nota oratrice e autrice che gestisce un blog (Greta Christina’s Blog). Ha scritto il libro “Why Are You Atheists So Angry? 99 Things that Piss Off the Godless” (“Perché voi atei siete così arrabbiati? 99 cose che fanno incazzare i Senza-dio”) (Pitchstone Publishing, 2012).

 

(Riproduzione autorizzata da “Free Inquiry”, pubblicazione del Council for Secular Humanism, Amherst, New York, USA; traduzione dall’inglese di Enrica Rota)