Contro il credo delle caste: idee e figure dell’India secolarizzata

di Fabrizio Gonnelli

 

L’ignorante, chi manca di fede, chi è preso da dubbi è destinato a perire. Non questo mondo, non quell’altro, non la felicità sono per l’uomo che dubita.

Bhagavadgita, IV 40

Che cosa sia il mistero, non lo so. Non lo chiamo Dio perché Dio è venuto a significare molto di ciò in cui non credo. Mi trovo incapace di pensare ad una divinità o ad una qualche sconosciuto potere supremo in termini antropomorfi e il fatto che molte persone lo pensino così resta per me una fonte di continua sorpresa. Ogni idea di un Dio personale mi è estranea.

Jawaharlal Nehru
(primo ministro dell’India dal 1947 al 1964)

 

 

Forse solo in alcune agenzie di viaggio persiste ancora il mito dell’India come “terra della spiritualità” per eccellenza, però non si può negare che qui da noi ancora oggi la maggioranza delle persone associ l’India – soprassedendo su curry, Bollywood e Kamasutra – ai templi, ai lavacri nel Gange, ai guru e alle mille divinità della più o meno incomprensibile tradizione hindu, da Visnu alla dea Kalì (con l’accento sulla i!). Il politeismo induista agli occhi di noi occidentali, cresciuti volenti o nolenti a pane e monoteismo, appare come una sorta di libero mercato religioso che soddisfa tanto le superstizioni più arcaiche quanto le più elevate aspirazioni alla “sapienza”. Colorato, un po’ straccione e ciarlatanesco, ma anche con aspetti esteticamente affascinanti, umanamente ed emozionalmente ricco, nel complesso abbastanza innocuo. Poi magari ci sovviene anche del sistema delle caste, dei brahmini e dei paria, ma siccome anche quelle son questioni complesse e poco chiare, e per di più ci vien detto che dopo Gandhi da quando l’India è indipendente e democratica “non contano”, ci mettiamo l’animo in pace.

Ovviamente chi pensa che ogni sistema religioso è innanzitutto un sistema di potere, fa il naturale passetto in più di connettere la millenaria permanenza delle caste con l’onnipresenza della religione, magari ricordandosi anche che a scuola – nell’ora di geografia (quando si faceva) e non in quella di religione – gli fu accennato al fatto che giainismo e buddismo si svilupparono in opposizione alla struttura sociale imposta dall’induismo. Chi scrive non è molto più in là come competenze di indologia, nonostante un remoto esame di sanscrito. Ha solo voluto fare una breve indagine e un giro di letture non molto approfondite dopo essersi domandato – forse in maniera troppo ingenua – se e quando gli indiani abbiano reagito a questo strapotere della religione e della “spiritualità” semplicemente dicendo “non è vero niente, adesso basta”, e quindi adottando un modo di pensare irreligioso, ateistico e materialista. I risultati dell’indagine sono stati così ricchi e complessi da permettere soltanto in questa sede una sorta di rendiconto fatto in base alle tematiche che è sembrato più importante enucleare [1].

1. Atei ben accetti e atei malfamati

Si può tranquillamente dire che sì, di indiani che hanno reagito con una scelta ateistica ce ne sono stati da subito; volendo già il buddismo e il giainismo non prevedono la nozione di un dio creatore. Ma la questione non sembra risolta così semplicemente, poiché oltre alla credenza in Dio, ai nostri scopi è da prendere in considerazione anche la credenza nell’anima e in un suo qualche destino dopo la morte, in qualsiasi modo siano concepiti l’una e l’altro. Senza l’anima vengono infatti meno, a dir poco, l’idea del ciclo delle rinascite e quella del karma, coessenziali al sistema teologico-sociale dell’induismo. Per quanto riguarda la sola credenza in Dio, infatti, può sorprendere venire a sapere che due dei sei sistemi tradizionali (darsana) del pensiero indiano (l’epoca di ciascuno non è precisabile, le origini comunque precedenti di qualche secolo l’era volgare) non ritengono affatto essenziale credere nell’esistenza di una siffatta entità. La Sankhya, a farla molto breve, interpreta infatti il mondo con i concetti di purusa (qualcosa come le infinite anime intelligenti) e di prakrti o pradhana (natura naturante, materia), due realtà dalla cui interazione nasce l’illusorio legame fra anima e materia, legame che però è alla base della percezione stessa del mondo da parte della psiche (vista come una sorta di viluppo materiale della impassibile anima). Insomma, di una divinità che metta ordine in questo cosmico balletto da cui l’anima aspira a liberarsi (la metafora è delle fonti) pare che i pensatori della Sankhya non abbiano sentito il bisogno (mentre quelli della scuola Yoga, che pure parte da principi più o meno uguali, sì … bontà loro).

A fare a meno di Dio la Mimansa ci arriva invece da una strada diversa. Si tratta di una scuola di pensiero che assolutizza il ritualismo vedico elaborando una dottrina del “sacrificio creatore” (si può immaginare quanto chiara e scorrevole): «l’universo e l’uomo sono retti dal sacrificio … il sistema non ammette nell’universo nessun intervento divino, per il fatto stesso che un dio creatore e distruttore dell’universo non esiste» (Tucci). Il risultato è che ad essere considerati eterni sono i Veda e non Dio. Paiono roba da ultraortodossi hindu questi testi (e sono molti!) della Mimansa, eppure non c’è Dio di mezzo, ma solo i nomi delle divinità, la loro realtà cultuale che permette di dare corpo al sacrificio “che crea frutto”(!). Molto diversa la piega che le vicende assumono quando invece di mezzo c’è, accanto alla non credenza in un Dio, anche l’opzione intellettuale per il materialismo. È vero che, isolate considerazioni di stampo materialista ricorrono fin da età molto antica, nelle Upanisad e nell’epica classica, però si ha l’impressione che tutto ciò resti un po’ come Qoêlet o Giobbe nell’Antico Testamento, una voce problematica e dissonante ma armonizzabile quanto basta e anzi utile ad arricchire l’interpretabilità ortodossa del corpus [2].

In realtà solo abbastanza tardi, stando a studi recenti, il pensiero materialista-ateo indiano avrebbe trovato una sistemazione vera e propria, compiuta secondo il metodo della filosofia “alta” (la Grande Tradizione), cioè in forma di aforismi filosofici accompagnati da commentari [3]. Si tratta della Lokayata (o Lokayatika), ovvero scuola di pensiero “mondana” (da loka, mondo), meglio definita come Carvaka/Lokayata. I suoi fondamenti?

«I) negazione della rinascita e dell’aldilà (paradiso e inferno) e dell’immortalità dell’anima, II) rifiuto della credenza nell’efficacia del compimento delle azioni religiose, III) accettazione dell’origine naturale dell’universo, senza bisogno di un dio creatore o di qualche altro agente soprannaturale, IV) credenza nella superiorità della materia sulla coscienza, e dunque del corpo sullo spirito (anima), e infine V) affermazione del primato della percezione diretta su tutte le altre modalità di conoscenza, come ad esempio l’inferenza, le quali restano in tal modo secondarie, e attendibili se e solo se basate sulla percezione e non, ad esempio, sulle scritture» (Bhattacharya).

Mica poco, no? E però è molto significativo che a questo forse fin troppo limpido elenco si sia arrivati solo ricostruendo da citazioni e parafrasi in opere di filosofi antimaterialisti, perché i testi originali sono andati persi tutti prima del XIV sec., evidentemente a seguito di una opera di censura/rimozione messa in atto sia dal versante induista sia da quello buddista e giainista. Il sistema Carvaka/Lokayata non ha così ottenuto un posto accanto agli altri e ha anzi subìto i colpi di una pesante pubblicità negativa: visto che non dava importanza all’ascesi, criticava il sistema delle caste e perfino la discriminazione delle donne, inevitabile che venisse denigrato con l’accusa di smodato edonismo. Il parallelo con la sfortuna di Epicuro e dell’epicureismo nell’Occidente cristiano è fin troppo evidente … e la dice lunga.

2. Il rifiuto della tradizionee del brahminismo

Dunque un filone di pensiero ateo e materialista in India esiste da molto tempo, è stato offuscato in varia maniera ma ne resta comunque vistosa presenza nella trattatistica; di certo i brahmini colti ne hanno sempre sentito parlare, anche solo per ripetere gli argomenti con cui sbarazzarsi in fretta del volgare pensiero materialista di questi nastika (non credenti, nichilisti). A un certo punto, diciamo nella seconda metà del XIX sec., ecco che entrano in azione gli effetti delle dinamiche sociali e culturali connesse col colonialismo inglese. E da qui prende nuovo abbrivio il pensiero umanista e razionalista indiano, in parte grazie agli Inglesi, in parte contro di loro e contro le caste che più traevano vantaggio dal governo coloniale. Di sicuro la diffusione del sistema educativo anglofono e la conseguente creazione di una intellighenzia locale relativamente aggiornata sulle idee europee ha giocato un ruolo importante. Mi pare che abbia un senso semplificare indicando due percorsi tendenziali: (1) un’adesione diretta a idee positiviste e razionaliste occidentali viste come motore di progresso, con conseguente volontà di allontanarsi dalla tradizione indiana, (2) una risposta che potremmo dire nazionalistica, nel senso cioè che è fiera di ricollegarsi alla sterminata tradizione filosofica indiana (che è anche scientifica, non dimentichiamolo) in quanto essa sarebbe non solo già di per sé in possesso dei mezzi per rinnovarsi e spingere al rinnovamento ma anche capace di assorbire e superare, migliorandoli, i germi del pensiero occidentale, scientifici, politici o religiosi che siano. Poiché l’onda lunga a cavallo del XX sec. è quella diretta verso l’unificazione e l’indipendenza del paese e i pensatori indiani si trovano regolarmente a fare politica, l’atteggiamento nazionalistico risulta in sostanza quello vincente, quello che “passa” nella comunicazione come indiano autentico.

Di sicuro hanno un ruolo chiave in questo processo figure carismatiche, come Gandhi, di cui diremo fra poco; o Sri Aurobindo (1872-1950), un formidabile ingegno che, sintomaticamente, era andato a studiare in Inghilterra per allontanarsi dalla “zeppa” della cultura indiana e poi ne era diventato un campione, se pure di nuovo tipo; o Chandra Mukherjee (1865-1943), figlio di un ateo sostenitore della Religione dell’Umanità di Comte, che fondò la rivista “Dawn”, organo importante del movimento nazionalista: a un certo momento fu “illuminato” ed ebbe una svolta religiosa: racconta, pare, di aver sentito una chiara voce risuonargli dentro, “God exists”!. Però a qualcuno questa piega non piace, si accorge che è pilotata da personaggi che mantengono i ruoli e i modi del brahminismo, seppure aggiornati; iI Partito del Congresso appare a molti colonizzato dal modo di pensare brahminico e dai suoi interessi economici. Ecco quindi, ad esempio, Ramasami Periyar (1879-1973), attivista di cultura dravidica fondatore del “Self Respect Movement”, che, quasi a rispondere alla “voce” di Mukherjee, iniziava abitualmente i suoi discorsi ripetendo come un mantra “Non esiste alcun dio, non esiste alcun dio, non esiste affatto alcun dio”; mentre per Ramchandra Rao (1902-1973), più noto come Gora, fondatore alla fine degli anni ’30 dell’“Atheist Center”, il teismo è di per sé causa di ineguaglianza e ingiustizia nelle società. Sembra di capire che secondo questi critici anche i più aperti membri del Congresso, quelli più attivi a parole per il superamento delle caste e della “intoccabilità”, risultavano poi nei fatti degli ambigui prosecutori di una tradizione oppressiva e antiegualitaria. Colpisce il fatto che alcuni di questi intellettuali atei/razionalisti/umanisti abbiano appoggiato manifestazioni simbolicamente estreme come il rogo di libri, una cosa che agli umanisti europei fa sempre, e giustamente, venire un po’ i brividi. Erano, in qualche modo, falò di esasperazione contro testi (anche il poema Ramayana, ad esempio) che si ritiene abbiano garantito il millenario monopolio culturale brahminico (e sanscritofono) e abbiano contribuito a mantenere sottomesse e divise le caste inferiori [4].

Dunque nella lotta per l’uguaglianza [5] e nelle connesse tensioni sociali e culturali sembra di poter riconoscere il motore primo dell’ateismo contemporaneo in India, o, perlomeno, della sua uscita nella dimensione pubblica. L’interiorizzazione della visione induista è sentita come una minaccia politica di tale gravità che il paria Bhimrao Ramji Ambedkar (1891-1956), promotore della “lotta non violenta” (satygraha) e destinato a diventare uno dei padri della Costituzione dell’India indipendente, nel 1935 per emancipare le masse di dalit [6] (dai quali egli è oggi in molte parti dell’India venerato più di Gandhi) tuonava: “Troncate i vostri legami con l’induismo. Entrate in una religione dove otterrete pace e dignità. Ma ricordate di scegliere solo quella religione in cui avrete uguale status, uguale opportunità, uguale trattamento” [7].

Ma non molti, sembra, devono aver pensato che collocarsi tout court “fuori religione” potesse essere un modo efficace per combattere la condizione di “fuori casta”. Maggiore, purtroppo, il numero di quelli che hanno indirizzato altrove l’invito, incontrando magari sulla propria strada missionari (cattolici o protestanti) e imam. Con conseguenti attriti sociali e culturali di non poco conto [8]. Tant’è vero che ancora all’inizio di questo secolo c’è stato in alcuni stati indiani il tentativo di rafforzare le “Anti-Conversion Laws”, il che ha sollevato le dure critiche di chi ha visto in ciò un tentativo di limitare la libertà religiosa da parte dei paladini della Hindutva [9].

Comunque sia, a fronte del radicalismo ateo o dell’uso politico della conversione religiosa, la strada effettivamente percorsa dall’India verso la secolarizzazione (si ricordi che la costituzione indiana è una delle poche al mondo a dichiarare laico lo Stato già nel preambolo) è stata caratterizzata da un atteggiamento assai più inclusivo nei confronti delle religioni, induismo e islamismo in primis. Un ruolo centrale in ciò, ovviamente, spetta a Gandhi, la cui opera di risveglio della coscienza indiana si è presentata con i tratti di un rinnovamento religioso-spirituale, anche a livello di linguaggio e di immagine. Gandhi [10] passò da posizioni hindu abbastanza ortodosse a una concezione più eclettica, influenzata dal giainismo ancor più che dal buddismo, una posizione che potremmo definire “ecumenica” (dichiarava, ad esempio, di accettare l’autorità dei Veda ma anche quella della Bibbia, del Corano e dell’Avesta), umanistica, se si vuole, sempre però marcata in senso religioso: nonostante i frequenti appelli alla razionalità, restava uno spiritualista sospettoso della modernità e della tecnologia, rifiutava l’intoccabilità (e difatti rinominò harijan, “popolo di Dio” i dalit!) ma mai ha rinnegato la “divina bellezza” della concezione del varna-vyavastha, pur interpretandola in maniera, diciamo così, “liberal”.

La sua originale mescolanza di tradizionalismo e di riformismo non bastò ad evitargli, alla fine, lo scontro con l’ala hindu più reazionaria, da cui proveniva l’uomo che lo uccise, ma certo fu più che sufficiente per dispiacere profondamente, sul versante opposto, ad esempio al succitato Periyar, che ancora nel 1973 considerava il gandhismo una iattura per l’India, da abolire non meno delle religioni e della fede in “Dio”. E significativo anche ciò che dice a proposito di Gandhi e della sua sathyagraha (per noi correntemente “lotta politica non violenta”, ma etimologicamente “fermezza nella verità”) Gora, il quale ha dedicato la vita ad emancipare l’ateismo da quanto di negativo vi è connesso nella cultura dominante arrivando a definirlo “il dominio dell’uomo su questo mondo” in opposizione al teismo, che rappresenta invece per lui la resa dell’uomo dinanzi al mondo. Dice dunque Gora su Gandhi:

Poiché la satyagraha afferma la libertà dell’individuo di sapere e di insistere sulla sincerità, essa è per principio ateistica. Avrebbe potuto essere il punto di partenza per il movimento ateistico in questa età moderna. Ma Gandhi, che l’ha proposta, l’ha spiegata nel linguaggio del teismo. Il linguaggio del teismo che era familiare alla gente gli ha dato il vantaggio di una comunicazione facile con la gente. Ma dopo Gandhi la gente è tornata sulle strade contenute nel linguaggio e ha offerto una lealtà puramente formale ai princìpi di verità, uguaglianza, apertura e non violenza. L’esperienza rivela la necessità di un ateismo dichiarato per avere un progresso stabile. La satyagraha di Gandhi richiede una correzione in senso ateistico per una duratura utilità” [11].

3. Umanismi, fiducia nella scienza e smascheramento del soprannaturale

La correzione ateistica vagheggiata da Gora – qualsiasi cosa potesse significare – non c’è stata, la classe politica indiana non è divenuta particolarmente nota per la sua caratura laica o non religiosa [12] e tuttora la burocrazia dà per sottinteso che un cittadino indiano si riconosca in un gruppo di fede [13]. I contrasti interreligiosi, con gruppi hindu e gruppi musulmani come protagonisti e quelli cristiani in seconda linea, sono scoppiati violentemente a più riprese, anche dopo la sofferta soluzione della separazione del Pakistan a maggioranza musulmana dal “corpo” indiano a maggioranza hindu (1947). Ciò detto, bisogna ammettere che uno Stato che ha avuto per 17 anni primo ministro un signore come Nehru (vedi la sua affermazione in epigrafe) ha comunque fatto un suo sensibile progresso sul cammino non solo della laicità ma proprio dell’umanesimo razionalista, soprattutto se si pensa alla situazione di partenza.

Un importantissimo contributo culturale e politico in questo senso è venuto, a titoli diversi, dalle “eroiche” figure della cui attività rende conto la monografia di Ramendra (vedi nota 1), un po’ schematica ma ricca di dati e preziosa perché informa su scritti e discorsi molto spesso circolati solo in lingue dell’India. Oltre che a Periyar Ramasami, Ambedkar, Gora e Ramswaroop Verma, ai quali si è già fatto cenno, capitoli specifici sono dedicati a Manabendra Nat Roy, Narsing Narain, Abraham Kovoor e Amritlal Bhikku Shah. M.N. Roy (1887-1954) è il più celebre a livello internazionale, visto che fu un instancabile attivista dalla vita avventurosa, passato da posizioni marxiste (fu tra i fondatori del partito comunista indiano e di quello messicano, tanto per dire!) alla elaborazione di una propria filosofia politica ed esistenziale che definì “Radical Humanism”. L’idea di diffondere un umanesimo per tutti, non elitario e capace di coagulare un’etica comune liberando al contempo dalle paure “religiose” ciascun individuo, è al centro anche dell’opera di Narsing Narain (1897-1972), fondatore della “Indian Humanist Union” (1960): per lui l’umanesimo non è una religione, ma non si sdegna se qualcuno pensa che lo sia poiché riconosce che esso dovrebbe svolgere nelle società la stessa funzione che troppo a lungo si sono riservate le religioni [14].

A.B. Shah (1920-1981), fondatore della “Indian Secular Society” (1968), proveniva dalla cultura cristiana (siriaca) e fra questi personaggi si distingue per un più marcato interesse alla filosofia della scienza e delle religioni (del 1981 è il volume Religion and Society in India). Originale, inoltre, la sua stretta collaborazione con uno studioso e attivista di cultura musulmana, Hamid Dalwai, col quale verificò sul campo lo stato delle relazioni fra hindu e musulmani. Il fatto che Gandhi non fosse stato capace di risolvere a fondo il problema di tali relazioni secondo Shah indica il fallimento della concezione indiana di secolarismo, inteso solo come garanzia di uguale trattamento per tutte le religioni da parte dello Stato. Ma così il processo è fermato a metà e manca la parte che limita le pretese dei gruppi religiosi più potenti di interferire negli ambiti di rilevanza pubblica, dove le questioni sono da affrontare solo su basi razionali e scientifiche [15].

E con ciò si tocca un ultimo punto che accomuna questi pensatori e che è sicuramente rilevante nel definire i tratti del razionalismo indiano contemporaneo, ovvero la ferma convinzione che solo attraverso il metodo scientifico si può giungere ad una conoscenza vera, condivisibile e utile; e, oltre a ciò, democratica, non riservata ad una casta ristretta (essendo invece l’elitismo culturale uno dei bastioni del brahminismo, ben assecondato, a dire il vero, anche dal sistema accademico coloniale). Da qui due filoni di interesse ed azione: la scuola e la formazione aperta e diffusa al massimo, capace di sviluppare lo spirito critico e priva di contenuti confessionali; e la sfida alle superstizioni e al soprannaturalismo. Fra levitazioni di yogin, materializzazioni di oggetti e statuette di Ganesh che bevono il latte, per tutto il ’900 in India c’è stato sempre lavoro per simile debunking, e verosimilmente ce ne sarà ancora a lungo.

Spicca in questo ambito Abraham Kovoor (1898-1978), fondatore della “Rationalist Association”. Riprendendo un’idea lanciata nel 1922 dal “Scientific American”, nel 1963 ufficializzò un premio per chiunque avesse eseguito in condizioni di controllo scientifico almeno un “prodigio” a scelta fra tutti quelli normalmente vantati dai vari santoni: sono 21 challenges che furono diffusi in tutto il mondo e che andavano dalla lettura del numero di serie di una banconota sigillata al restare in apnea per mezz’ora, dal camminare sull’acqua al non impressionare col proprio corpo una pellicola fotografica. Chi voleva affrontare la prova doveva versare una discreta somma in cauzione, che avrebbe riavuto indietro solo insieme al premio. Fu la prima di una serie di sfide similmente organizzate poi da singoli (come il celebre James Randi) e associazioni in tutto il mondo (anche in Italia dal CICAP), i cui premi restano tutti ancora da incassare. Dopo Kovoor questa linea di “attivismo razionalista” ha continuato a svilupparsi in India, ad esempio con l’associazione “Indian Skeptic” di Basava Premananda (1930-2009), esperto di prestidigitazione che ha denunciato i trucchi di Sai Baba sfidando la potente lobby mistico-politico-economica edificatasi intorno a questo santone. Sanal Edamaruku, attuale presidente della “Indian Rationalist Association”, è uno dei ricercatori che ha proseguito con grande impegno questa lotta: dopo la suscettibilità dei fedeli di Sai Baba, ha provato di recente anche quella dei cattolici di Mumbai, che si sono sentiti offesi dalle sue dichiarazioni a proposito di un Cristo che versava acqua nella chiesa di Velankanni e lo hanno denunciato in base alla blasphemy law del 1860 che colpisce coloro che agiscono “con atti deliberati e malevoli per ferire il sentimento religioso altrui” [16].

C’è decisamente ancora del lavoro da fare. Di sicuro questo “altro ateismo” indiano è da frequentare con attenzione, non fosse che per i suoi 65 gruppi di atei/razionalisti/umanisti riuniti nella “Federation of Indian Rationalist Associations” (presieduta da un altro grande debunker di miracoli, Narendra Nayak) e per siti molto ricchi ed utili come Nirmukta, che significa “del tutto liberato”.

Note

[1] Queste riflessioni devono moltissimo a un libro disponibile gratuitamente sulla Rete e a un articolo che si può leggere sul sito dell’UAAR, rispettivamente: Dr. Ramendra (in collaboration with Dr. Kawaljeet), Rationalism, Humanism and Atheism in Twentieth Century Indian Thought, Buddhiwadi Foundation, Patna 2007 e, Ramkrishna Bhattacharya, Il materialismo in India. Uno sguardo sinottico (traduzione di Federica Turriziani Colonna). Fra gli altri testi utilizzati, cito almeno Giuseppe Tucci, Storia della filosofia indiana, Laterza, Bari-Roma 2005 (prima ed. 1957), Radhakrishnan, La filosofia indiana. Dal Veda al Buddismo, trad. it. Einaudi, Torino 1974 (orig. 1923) e David Smith, Induism and Modernity, Blackwell Publishing, Malden-Oxford-Berlin 2003. Non utilizzato invece un volume che è doveroso segnalare per chi voglia approfondire: Indian Atheists, Hephaestus Book 2011, che pare aver raccolto testi e materiale vario soprattutto dal Web di e su figure come Nehru, Amartya Sen, Arundhati Roy, Basava Premanad e parecchi altri.

[2] Mentre per quanto riguarda il divino creatore il Rg-Veda stesso occasionalmente esprime delle riserve: «Da che questa creazione? … forse si è formata da sé, o forse no. Colui che la guarda dall’alto, dal sommo dei cieli, egli solo lo sa – o forse non sa», versi riportati anche da Amartya Sen in L’altra India (trad. it. Mondadori, Milano 2005).

[3] Vedi l’articolo di Bhattacharya citato nella nota 1. L’opinione corrente, tuttora più diffusa nelle fonti disponibili in Rete, è invece che il Lokayata già esistesse addirittura alla metà del primo millennio a.e.v.; per Bhattacharya si tratta, par di capire, di un fraintendimento, di proiezione a ritroso, sulla base di occasionali riflessioni materialiste, di un sistema molto più tardo. Chi scrive non ha la minima idea di come si possa valutare la questione.

[4] A partire almeno dalla “lotta non violenta” (satyagraha) promossa nel 1927 da Bhimrao Ramji Ambedkar (sul quale vedi oltre nel testo) ci si imbatte ciclicamente in autodafé di opere sanscrite colpevoli di aver pesato per secoli sulla vita di milioni di esseri umani non meno delle “nostre” Sacre Scritture: obiettivo d’elezione gli Insegnamenti di Manu (Manusmrti), un testo sanscrito composto fra II sec. a.e.v. e II sec. e.v. in cui è sistematizzata la ben più antica dottrina nota come varna-vyavastha, ossia l’ordinamento divino della società da cui viene derivato il sistema delle caste. Nel 1953 roghi del Manusmrti furono organizzati dal movimento capeggiato da Periyar Ramasami, nel 1978 dalla “Indian Secular Society” di A.B. Shah e Hamid Dalwai, mentre nel 1978 fu la volta dell’ “Arjak Sangh” (Partito dei Lavoratori Manuali) di Ramswaroop Verma (1923-1998), un importante leader socialista-rivoluzionario, che ha scritto anche un libretto in hindi il cui titolo suona “Il Manusmrti, una vergogna nazionale”.

[5] Uguaglianza fra le caste ma anche all’interno delle caste fra uomo e donna: le istanze femministe sono ben presenti nelle opere e negli scritti di molti razionalisti atei indiani del Novecento, che sottolineano come la casta brahmina abbia imposto un regime maschilista molto rigido, laddove nelle caste basse, quelle produttive, da tempo si era praticata una relativa parità.

[6] Dalit è un sinonimo di paria ora più diffuso per indicare in genere tutti coloro che sono esclusi dalle quattro varnas (caste), cioè Brahmini (in origine sacerdoti, sapienti), Kshatriya (guerrieri), Vaishya (commercianti), Shudra (lavoratori e servitori). In questa forma pura il sistema non è facilmente riconoscibile nella pratica perché già le sole quattro caste sono differenziate su base locale in migliaia di sottogruppi detti jati, e qualcosa di simile succede anche per i “fuori casta”. Questi ultimi fino ai primi decenni del XX sec. erano vistosamente discriminati anche nella quotidianità in quanto “contaminanti”: Ambedkar ricorda ad esempio che da ragazzo a scuola non poteva toccare il contenitore comune dell’acqua e che quindi per bere doveva aspettare che un inserviente gli versasse l’acqua in bocca!

[7] Ambedkar pensava al buddismo, in cui credé di riconoscere una visione del mondo atea e razionale e su cui scrisse anche una monografia (The Buddha and his Dhamma), convertendosi però solo nel 1956, due mesi prima di morire (dopo essere intervenuto il 15 novembre 1956 alla World Buddhist Conference con una relazione dal significativo titolo “Buddha e Marx”!), in concomitanza con una effettiva conversione di massa da parte della casta Mahar del Maharastra.

[8] Abbastanza rilevante e accompagnato da contrasti violenti il caso degli oltre mille paria che si convertirono pubblicamente all’Islam nel 1981 a Meenakshipuram, nello Stato del Tamilnadu.

[9] Vedi R. Carcano, A. Orioli, Uscire dal gregge, Luca Sossella Editore, Roma 2008, p. 264.

[10] Può essere utile ricordare che Gandhi non era un brahmino di nascita, ma un vaishya bamia, cioè membro di una casta sì superiore, ma dedita al commercio, non alla politica e al governo, che per il varna-vyavastha dovrebbe essere esclusiva dei brahmini.

[11] Ramendra 2007 (vedi nota 1), cap. 5. Gli scritti di Gora (che proveniva da famiglia brahmina ortodossa), fra cui An Atheist with Gandhi, sono disponibili sul prezioso sito che prende il nome dal suo libro più celebre, Positive Atheism (1975): www.positiveatheism.org (visto che siamo su “L’Ateo”, piace segnalare anche che Gora pubblicò dal 1969 la rivista “The Atheist”). Anche Ramswaroop Verma (vedi supra n. 4) criticò duramente Gandhi per la sua accettazione a livello filosofico del varna-vyvastha e così fa Ramendra nel libretto Why I am not a Hindu, Buddhiwadi Foundation, Patna 2011.

[12] Va comunque detto che, stando a commenti pubblicati sul sito www.defence.pk, nella ultima (o penultima) legislatura diversi ministri hanno richiesto di compiere il giuramento ufficiale nella forma che non prevede la formula “In the name of God”.

[13] Ad esempio è stato così nel censimento del 2011, per cui i non credenti indiani, che è ragionevole stimare in svariati milioni (J. Overdorf in “Global Post” del 1-6-2011 parla di un 6% su una popolazione di un miliardo e 173 milioni), saranno statisticamente compresi fra gli “Altri”, insieme agli appartenenti a religioni di estrema minoranza e a culti tribali: vedi Ultimissime del 2 luglio 2012 sul sito UAAR.

[14] Molto importanti i suoi articoli “Religion and Philosophy in India”, “The Religion of Mahatma Gandhi” e “The Humanism of Jawaharlal Nehru”: inutile dire che alla scelta di Nehru andava la preferenza di Narain, il quale comunque ammirava la statura etica di Gandhi.

[15] Shah mostra un atteggiamento neo-positivista, fiducioso non solo nel metodo scientifico ma anche nella tecnologia, dalla quale gli pare che in definitiva si siano ottenuti beni in misura molto superiore ai mali (magari, se fosse vissuto fino al 1984, dopo la sciagura di Bhopal avrebbe dovuto riconsiderare il problema del rapporto fra tecnologia e produzione capitalistica …).

[16] Vedi in Rete il rendiconto di Joanna Sudgen in IndiaRealTime del 15 maggio 2012.

 

 

Fabrizio Gonnelli, classe 1962, è un filologo classico che si è occupato a lungo di editoria, scolastica e non (ma anche di diverse, forse troppe, altre cose).