Signori dell’improbabile

di Telmo Pievani

 

Il cammino della storia dunque non è quello di una palla da biliardo, che una volta partita segue una certa traiettoria, ma somiglia al cammino di una nuvola, a quello di chi va bighellonando per le strade, e qui è sviato da un’ombra, là da un gruppo di persone o da uno strano taglio di facciate, e giunge infine in un luogo che non conosceva e dove non desiderava andare.

(Robert Musil, L’uomo senza qualità, 1930, pp. 2349-350)

 

La scoperta della finitudine e della radicale contingenza della storia evolutiva sfida alcuni adattamenti cognitivi primari della specie umana. È doppiamente difficile da pensare: non solo siamo finiti, non solo siamo sospesi fra due abissi del tempo dove noi non esistiamo, ma le cose potevano andare diversamente. Non vi era alcuna necessità che arrivassimo fin qui e che fossimo proprio noi a innalzare il vessillo dell’intelligenza cosciente, anziché un velociraptor o un verme priapulide.

Il sistema interprete del nostro emisfero sinistro impone un senso e un ordine al flusso delle informazioni, cerca gli invarianti e le coerenze, costruisce buone “narrazioni” piene di senso a cui credere, mettendo ordine anche dove non c’è [Girotto, Pievani, Vallortigara, 2008]. Se quelle narrazioni piene di finalità si sgretolano per via scientifica, di fronte alla non necessità della nostra presenza probabilmente sentiamo di dover fare qualcosa. Preferiamo ricostruire un senso fittizio che restituisca razionalità alla storia che conosciamo ed esorcizzi l’apparente insensatezza del dato empirico facendoci sentire parte di un disegno, malgrado tutto. Ci sono “sensi” della storia, quelli finalistici, che sono facili da pensare e ci piacciono da pensare, al punto da sovrapporli alla realtà; ci sono “sensi” della storia, come la contingenza, che per quanto evidenti sono difficili da pensare e non ci piacciono da pensare.

Eppure si tratta di difficoltà cognitive e di precursori naturali che varrebbe la pena di sfidare, mettendo contro di essi altre competenze naturali umane. Essere consapevoli di come si sono evolute le nostre preferenze cognitive per alcuni “sensi” a discapito di altri potrebbe offrire quanto meno un’occasione per maneggiarli in modo più razionale o per disubbidire ad essi quando necessario. Possiamo insomma svelare le anomalie presenti nelle grandi narrazioni che l’emisfero sinistro cerca di imporre all’evoluzione. Possiamo spingerci a immaginare quanto sarebbe più emancipante un’alternativa ben fondata: quella di chi accetta la contingenza della nostra presenza, cogliendone il fascino e il messaggio morale. È un’altra possibilità per interpretare quella finitudine, per onorare il participio di specie che ci siamo autoattribuiti, per dare un “senso” sì a questa storia, ma senza subordinarlo a deleghe verso entità esterne.

In tal senso le grandi domande dell’esistenza umana non sono appannaggio esclusivo della teologia e possono oggi avere una risposta in accordo con le scoperte evoluzionistiche: “veniamo da” un’affascinante e contingente storia naturale che avrebbe potuto condurre a un esito molto diverso; andiamo “verso dove” le nostre possibilità biologiche e culturali sapranno condurci. È profondamente scorretto che l’idea dell’indifferenza dell’Universo verso le nostre sorti – come presupposto di libertà e al contempo di responsabilità verso se stessi e verso la natura – venga automaticamente tacciata di essere una minaccia per la dignità umana o di rappresentare finanche un messaggio di disperazione e di solitudine senza fine che non soddisferebbe nemmeno la ragione.

A proposito di dignità umana, Steven Weinberg, premio Nobel nel 1979 per la scoperta della teoria unificata delle interazioni deboli ed elettromagnetiche, insofferente verso ogni tentativo di insinuare questioni teologiche nella scienza, scrisse: «Quanto più l’Universo ci appare comprensibile, tanto più ci appare senza scopo. Ma se non c’è conforto nei risultati della nostra ricerca, c’è almeno qualche consolazione nella ricerca stessa. Gli uomini e le donne non si accontentano di consolarsi con miti di dèi e di giganti o di restringere il loro pensiero alle faccende della vita quotidiana; costruiscono anche telescopi e satelliti e acceleratori, e siedono alla scrivania per ore interminabili nel tentativo di decifrare il senso dei dati raccolti. Lo sforzo di capire l’Universo è tra le pochissime cose che innalzano la vita umana al di sopra del livello di una farsa, conferendole un po’ della dignità della tragedia» [Weinberg, 1977, p. 170].

La consolazione è nella ricerca stessa. Nella ricerca scientifica e nella ricerca tecnologica, quella che vituperiamo in certe nostre filosofie e usiamo nelle vicissitudini quotidiane. Come anche in un dipinto, o in una sinfonia, di per se stesse, in quanto superbe abilità umane dotate, ciascuna, di una propria specificità. Il superamento degli animismi, secondo un altro premio Nobel, Jacques Monod, corrisponde a un drammatico, vigoroso risveglio: «L’uomo deve infine destarsi dal suo sogno millenario per scoprire la sua completa solitudine, la sua assoluta stranezza. Egli ora sa che, come uno zingaro, si trova ai margini dell’Universo in cui deve vivere. Un Universo sordo alla sua musica, indifferente alle sue speranze, alle sue sofferenze, ai suoi crimini» [Monod, 1970, p. 165]. Un Universo che non ci stava aspettando e dunque ci lascia margini di libertà sul futuro e ci suggerisce di onorare al meglio il frammento di tempo che ci è dato.

I vantaggi che trarremo da un’adeguata considerazione della filosofia della contingenza sono innumerevoli e talvolta sorprendenti. Il messaggio radicale dell’unicità storica, tanto per cominciare, comporta una certa diffidenza nei confronti di “scienze” sistematiche dello sviluppo storico e di filosofie totalizzanti della storia, naturale ed umana. Nell’incertezza e nell’ambivalenza della nostra condizione scopriamo infatti che non vi era alcuna inesorabile necessità storica inscritta nel peculiare corso di eventi che si è realizzato: il presente non è una chiave di lettura retrospettiva necessitante del passato, al quale viene tolta la valenza di giustificazione del presente. Possiamo fare a meno di grandi racconti edificanti, la cui struttura – come ha scritto magistralmente Paolo Rossi – mostra in ultima analisi “uno schema di tipo teleologico” e sostituirli con una molteplicità di storie. Presumere di possedere la “logica profonda della storia” – sia essa una verità terrena o una rivelazione ultramondana – è stata la premessa di ogni pensiero totalitario [Rossi, 2008]. La contingenza funge da efficace antidoto contro i semi di qualsiasi ambizione totalizzante.

Col suo sospetto verso le predizioni futurologiche e le presunzioni di dominare il senso della storia, essa suggerisce di rifuggire la dicotomia fra la disillusione cinica e distruttiva, da una parte (i tanti profeti di sventura, le previsioni onniscienti di “destini”, la fine della storia) e dall’altra le speranze eccessive, le escatologie laiche e salvifiche, i tanti paradisi in Terra crollati sotto il loro stesso peso, la fiducia smisurata nella storia e nel potere performativo di chi è convinto di poter andare oltre gli attuali limiti biologici. Il controllo della storia rischia di rivelarsi tanto illusorio quanto la nostra ambizione di poter dominare i processi naturali su vasta scala e di addomesticarli per garantire uno sviluppo economico indefinito. Chi conosce la contingenza dovrebbe coltivare previsioni a breve termine, ipotesi ragionevoli per orientarsi nell’incertezza, cautele nei confronti delle possibili reazioni di sistemi complessi il cui funzionamento non conosciamo abbastanza, senza con ciò escludere l’elaborazione di principi etici e di valori che fungano da guida e da orizzonte di azione. «Dopo i tentativi mancati di chiudere la storia, essa imperterrita procede. Il futuro rimane quel che è sempre stato: uno spazio aperto di possibilità. Ma non è più da conquistare, non bisogna portare a compimento alcunché. L’uomo contemporaneo è chiamato a dominare il caso» [Natoli, 1999, p. 229].

Questa “etica del finito” e questa sobrietà di fondo nei confronti di ogni escatologia implicano per noi “diventati umani” – più che “esseri umani” una volta per tutte – che è possibile essere “autentici” rinunciando al proprio bisogno di certezza, di fondazione, di sicurezza, qualora riposto inopportunamente nella storia naturale o in surrogati moderni dello schema teleologico del progresso [Natoli, 2010]. Se la storia non è una palla di biliardo e approda in luoghi dove non avremmo pensato di trovarla, può esistere un’autenticità percorribile e non consolatoria, ancorché inquieta e impaziente, basata sull’umiltà evoluzionistica. L’uomo autentico è l’uomo che vive accettando la verità, anche se scomoda e disorientante – la verità fattuale della radicale contingenza della nostra presenza qui e dell’assenza di una redenzione per la storia – e la converte in occasione, in riscossa, in trasformazione. Contrariamente, dunque, a quello che scrive Vito Mancuso in La vita autentica, l’uomo autentico è l’uomo che in questa condizione di consapevolezza vive per la giustizia, per l’uguaglianza nei diritti (non perché siamo tutti uguali ma perché siamo tutti diversi), per il bene e la solidarietà, e proprio nel fare unilateralmente questa scelta rinuncia all’idea che l’essere naturale presupponga in quanto tale l’etica [Mancuso, 2009].

È, infatti, un non senso giustificare sul piano naturalistico perché scegliamo il bene e la giustizia anziché il male e la sopraffazione, giacché lì risiede proprio la specificità umana, la novità evolutiva (naturale e culturale) della comparsa della specie umana, capace di riflettere sulla propria storia, sui propri limiti, sui propri vincoli non invincibili. Dunque non è vero che senza una finalità insita nella natura non può esistere l’etica, semmai il contrario: è proprio perché non esiste una finalità in natura che l’etica assume il suo valore e la sua indipendenza, come “novità” evolutiva umana. La scelta etica quindi non mostra affatto che nell’essere vi sarebbe una “direzione”. L’etica non dimostra la “logica del mondo” finalizzata alla relazione armoniosa, tendente al superamento oltremondano della realtà, perché questa è un’inferenza del tutto infondata dal dover-essere all’essere, e viceversa. Un’inferenza che svilisce la peculiarità del parto naturalistico umano: un frammento di natura che avvia una prorompente evoluzione culturale e tecnologica, al punto da divenire in grado di modificare per via tecnologica la sua stessa identità biologica.

L’umanesimo evoluzionistico porta allora a rifiutare in primo luogo la fallacia naturalistica in negativo, cioè la natura intesa come pietra di paragone negativa, come principio negativo in chiaroscuro che porta alla ferocia, alla competizione, all’affermazione di sé, alla lotta per la sopravvivenza al di là del bene e del male. Da qui la solita caricatura negativa del darwinismo come “sopravvivenza del più forte” o assenza di relazione, quando in realtà la teoria darwiniana, conoscendola, è proprio l’inverso: una spiegazione ecologica e relazionale, che nel caso dell’evoluzione umana pone al centro i comportamenti prosociali. Ma la filosofia della contingenza suggerisce anche che, per scongiurare questo spauracchio negativo, non sia utile nemmeno ricorrere a una speculare e complementare fallacia naturalistica in positivo: la natura intesa tendenzialmente come relazione ordinante e armoniosa, da cui proverrebbero “valori” naturali, una tendenza verso un non meglio definito “spirito”, nient’altro che l’ordine naturale tradotto in ordine sociale come nella grande narrazione consolatoria della teologia naturale di William Paley.

La contingenza ci libera anche da questa dicotomia, perché mira alla singolarità innovativa, e improbabile, della specie umana e dei suoi comportamenti. Come esempio particolarmente istruttivo, ripensiamo a come John Rawls descriveva la transizione dal senso intuitivo della giustizia – radicato senz’altro nella storia naturale di un primate prosociale e nel suo innato senso dell’equità nella distribuzione dei beni sociali primari – ai due principi prioritari di libertà e di giustizia sociale, da radicare senza compromessi nella struttura fondamentale della società e delle sue istituzioni, e insieme frutto della mossa contrattualistica e dell’esperimento mentale razionale della “posizione o accordo originario” e del “velo di ignoranza”. È un patto (alquanto “innaturale” per certi aspetti) fra persone libere e razionali, immaginate ipoteticamente in una posizione iniziale di uguaglianza, senza pregiudizi circa le loro diversità e le contingenze materiali e psicologiche, dove si decidono e si fondano le libertà fondamentali e inalienabili, l’uguaglianza reale e democratica, il principio di differenza e di redistribuzione in un quadro di fraternità democratica [Rawls, 2001].

Di fronte all’eterno spettacolo “naturale” dell’ineguaglianza e del conflitto, l’ineguaglianza è giustificata solo se porta vantaggio ai meno avvantaggiati. È una transizione natural-culturale che conduce a un’evoluzione del tutto peculiare: il dovere natural-culturale dell’equità e della lealtà in un sistema sociale cooperativo basato sulla trasparenza e sulla reciprocità; il dovere di considerare gli altri come persone libere ed eguali, e di fare la propria parte in uno schema di cooperazione equo [Albasini, 2007]. In altre parole, la specie umana elabora un grande esperimento mentale di fratellanza democratica per fondare principi ragionevoli di giustizia e imporsi il dovere di considerare gli altri sempre come individui liberi ed eguali.

Come ogni altra grande conquista della nostra intelligenza simbolica, questo risultato è in parte fondato sui nostri precursori naturali prosociali, comportamentali e cognitivi, e in parte li contesta e li supera. È un processo di continuità e d’innovazione al contempo. Ma non solo, essa è in grado di cambiare la nicchia “ecologica”, sociale e naturale, che ci circonda e che a sua volta ci condizionerà. Le diversità individuali sono di per sé un fatto naturale e arbitrario, ma le società umane possono decidere di trattare queste diseguaglianze in modo differente (giusto o ingiusto) rispetto a come le tratta la natura. Detto in altri termini, si stipula insieme un patto originario che prevede il dovere umano, tipicamente umano, di lottare per una società migliore – che non significa necessariamente una fuga “utopica”, ma che i sistemi sociali e di sviluppo non sono da considerarsi immutabili, bensì in evoluzione essi stessi e modellabili dalle nostre scelte razionali – in cui i meno avvantaggiati dalle contingenze della nascita, sostiene Rawls, possano contare sul primato della loro dignità, sulla loro autonomia kantiana di individui liberi, su pari opportunità, diritti di cittadinanza e rispetto di sé come bene primario.

Non si tratta di due “magisteri non sovrapponibili” (il naturale e il politico-morale), perché i comportamenti normativi nascono comunque nella continuità di un ininterrotto processo naturale umano, che lascia in noi vincoli cognitivi e precursori naturali, idee che sono più facili o meno facili da pensare. Le due dimensioni sono sovrapposte e in interazione costante, ma la seconda gode di una sua autonomia esplicativa e non possiamo esaurirne la comprensione a partire dai dati naturali preesistenti. Vi è dunque una transizione continuativa (e nessun salto ontologico misterioso) fra un complesso di precursori naturali sostanzialmente ambigui (senso di giustizia e attitudini prosociali e cooperative, ma anche potenti attitudini prosociali ed egoistiche), intesi come dotazione adattativa ed exattativa dell’evoluzione umana, e l’elaborazione di principi normativi razionali e universali, frutto in Rawls di un “equilibrio riflessivo” fra una pluralità di ponderate posizioni argomentative, differenti e potenzialmente conflittuali.

Questi criteri ci permetteranno poi di giudicare empiricamente il grado di equità dei sistemi politici reali esistenti. Anche se questi principi (o altri) non dovessero mai trovare una realizzazione adeguata, avere un giudizio su che cosa sia una società giusta e su che cosa garantisca a ogni essere umano il rispetto di sé come bene primario è un altro fragile e inimitabile frutto della nostra contingenza evolutiva, che ci fa apprezzare pienamente e senza deleghe il punto in cui siamo arrivati e ci fa essere alquanto severi, come Rawls, nel valutare il nostro eventuale fallimento: «Se una società dei popoli ragionevolmente giusta i cui membri subordinano il potere di cui dispongono al raggiungimento di scopi ragionevoli non si dimostrasse possibile, e gli esseri umani si rivelassero per lo più amorali, se non incurabilmente cinici ed egoisti, saremmo costretti a chiederci, con Kant, che valore abbia per gli esseri umani vivere su questa Terra» [Rawls, 1999, p. 171]. Se invece riusciremo a meritarci questo piccolo posto cosmico, saremo come la saggia ginestra di Leopardi che spunta, nonostante tutto, nel deserto dell’amoralità e spande sulle ceneri laviche un profumo delizioso che per noi sarà quello della giustizia e di una finitudine solidale.

 

Riferimenti bibliografici

Albasini D. (2007), Leggere “Una teoria della giustizia” di Rawls, Ibis Edizioni, Como-Pavia.

Girotto V., Pievani T., Vallortigara G. (2008), Nati per credere, Codice Edizioni, Torino.

Mancuso V. (2009), La vita autentica, Raffaello Cortina, Milano.

Monod J. (1970), Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, tr. it. Mondadori, Milano 1970.

Natoli S. (1999), Progresso e catastrofe. Dinamiche della modernità, Marinotti Edizioni, Milano.

Natoli S. (2010), Il buon uso del mondo. Agire nell’età del rischio, Mondadori, Milano.

Rawls J. (1999), Il diritto dei popoli, tr. it. Edizioni di Comunità, Torino 2001.

Rawls J. (2001), Giustizia come equità. Una riformulazione, tr. it. Feltrinelli, Milano 2002.

Rossi P. (2008), Speranze, Il Mulino, Bologna.

Weinberg S. (1977), I primi tre minuti. L’affascinante storia dell’origine dell’universo, tr. it. Mondadori, Milano 1977.

 

 

Telmo Pievani insegna filosofia della scienza presso l’università Milano-Bicocca. Autore di numerose pubblicazioni – tra cui Creazione senza Dio (Torino 2006) e Nati per credere (con V. Girotto e G. Vallortigara, Torino 2008), dirige “Pikaia”, il portale italiano dell’evoluzione. (Il presente testo è tratto, con alcune modifiche, da La vita inaspettata. Il fascino di un’evoluzione che non ci aveva previsto, Raffaello Cortina Editore, Milano 2011).