L’enigma dell’ornamento. Appunti su alcune pagine di The Descent of Man (1871)

di Francesco Remotti*

Gli antropologi culturali, di solito, si guardano bene dal frequentare Charles Darwin. Persino quando gli antropologi si lanciavano nelle loro ricostruzioni degli stadi di sviluppo culturale o sociale dell’umanità – cioè nel periodo che d’abitudine viene chiamato, erroneamente, “evoluzionismo culturale” – è molto raro trovare nei loro scritti riferimenti al pensiero darwiniano. Nei decenni successivi Darwin non viene considerato dagli antropologi (oggi meno che mai) come un autore da cui apprendere qualcosa o con cui discutere: come se Darwin rappresentasse una compagnia troppo pericolosa o come se, in ogni caso, il grande «iato» tra scienze della natura e scienze della cultura, proclamato da Alfred Kroeber, fosse un dato insuperabile e – proprio come voleva Kroeber nel 1917 – convenisse agli antropologi culturali continuare il proprio cammino su un lato di questo «abisso», infischiandosene di ciò che fanno i naturalisti sull’altro lato (Kroeber 1974: 92). Eppure Darwin ha molto da insegnare agli antropologi culturali, se non altro a proposito del suo lungo giro attorno al mondo e quindi del rapporto tra viaggio e pensiero, tra teorizzazione ed esperienza, tra mucchio e ordine (Remotti 2009, cap. I). Ciò che si vuole proporre in questo scritto riguarda però un’altra tematica, praticamente coincidente con ciò che gli esseri umani fanno del loro corpo a fini estetici. Ciò che si vuole proporre è comunque null’altro che un invito a leggere alcune pagine di The Descent of Man and Selection in Relation to Sex, che Darwin pubblicò nel 1871, lo stesso anno di edizione – sarà bene ricordare – di Primitive Culture di Edward B. Tylor e di Systems of Consanguinity and Affinity of the Human Family di Lewis H. Morgan: un invito che prende la forma, modesta, provvisoria e preliminare, di semplici appunti.

(1) Una delle caratteristiche più evidenti delle riflessioni antropologiche di Darwin in The Descent of Man è la tensione tra due approcci diversi: da un lato l’intento di collocare l’essere umano nel contesto più generale della natura, rimarcando la continuità e la somiglianza con gli altri mammiferi, e dall’altro il suo essere quasi costretto a rilevare la peculiarità della condizione umana. Così, se da un lato Darwin afferma che l’uomo è costruito sullo stesso tipo o modello generale d’ogni altro mammifero, dall’altro egli non può fare a meno di constatare che, per esempio, per quanto riguarda i suoi individui, la specie umana è contrassegnata da una maturazione molto lenta. Inoltre, se si pone l’essere umano a confronto con gli altri primati, non può non colpire la nudità della sua pelle (Darwin 1983: 34-35, 46).

(2) Darwin ritorna più volte sulla caratteristica della nudità dell’essere umano e lo fa ponendo in relazione questo carattere con due tematiche, in apparenza almeno, assai diverse, se non addirittura divergenti: (A) il carattere inerme dell’uomo e (B) il rilievo fondamentale che nell’uomo assume l’ornamento. Cominciamo con il primo tema (A).

(3) Anche agli occhi di Darwin, l’essere umano appare caratterizzato da mancanze e da penurie, ovvero da ciò che in altri autori verrebbe definito in termini di “incompletezza” biologica (da Johann Gottfried Herder nel ‘700 a Clifford Geertz nel ‘900, per es.). Darwin si dimostra infatti disponibile a prendere in attenta considerazione le tesi del duca di Argyll (George Douglas Campbell, l’autore di Primeval Man del 1869), secondo cui «l’uomo è una delle creature più prive di aiuto e di difesa del mondo» (Darwin 1983: 89). Più precisamente, il duca di Argyll sostiene – come riferisce Darwin – che «la struttura umana si è distaccata da quella dei bruti, evolvendosi verso una maggiore debolezza e gracilità fisica». In questo quadro, «lo stato nudo e privo di protezione del corpo» andrebbe ad aggiungersi ad altre «mancanze», come «l’assenza di grandi denti o artigli per la difesa, la piccola forza e velocità dell’uomo e il suo scarso potere di scoprire il cibo o di sfuggire il pericolo con il fiuto», nonché l’incapacità di arrampicarsi velocemente sugli alberi per sottrarsi ai predatori.

(4) È importante rilevare, nella tesi del duca di Argyll, come la gracilità e la debolezza divengano maggiori nell’essere umano quanto più procede la sua evoluzione. Ma gracilità e debolezza fisica non decretano la scomparsa di questa specie e neppure determinano una diminuzione del suo ruolo nel contesto più ampio della lotta per la vita: curiosamente, la debolezza fisica o organica non si trasforma in una debolezza generale della specie umana. Questa indubbia «penuria di mezzi naturali» si traduce infatti, agli occhi di Darwin, in un «immenso vantaggio», in quanto costringe l’uomo a puntare selettivamente su alcune qualità che maggiormente lo contraddistinguono (Darwin 1983: 90). Darwin fa capire che se l’uomo fosse stato un essere di «grandi dimensioni, forza e ferocia», non avrebbe avuto bisogno di sviluppare le qualità che hanno poi determinato il suo successo (1983: 89).

(5) Vi è dunque un nesso, per Darwin, tra la «penuria» biologica dell’uomo e il suo successo altrettanto biologico. Anche se consideriamo i gruppi umani più arretrati – quelli che Darwin aveva incontrato nel suo lungo giro attorno al mondo (per es., gli abitanti della Terra del Fuoco) – non v’è dubbio che «l’uomo […] è pur sempre l’animale più potente che sia mai apparso sulla terra»: egli si è infatti esteso in tutte le regioni del globo e le altre forme di vita altamente organizzate hanno dovuto cedere di fronte a lui (Darwin 1983: 75). Il nesso tra la debolezza organica e la forza organizzativa, tra la penuria e il successo, tra la mancanza e la conquista, tra il rischio di soccombere e il predominio acquisito nella «lotta per la vita» è dato, per Darwin, dalla compresenza di tre fattori: (a) sviluppo di «facoltà intellettuali», (b) incidenza di «costumi sociali», (c) particolarità della «struttura fisica».

(6) Le facoltà intellettuali – ovvero i «poteri intellettivi superiori», grazie ai quali l’essere umano si procura mezzi e strumenti aggiuntivi (Darwin 1983: 90) – si esplicano in primo luogo nel «linguaggio articolato» e in una serie di altre invenzioni, come armi, strumenti, trappole (mediante cui difendersi, cacciare, procacciarsi il cibo) e, soprattutto, nella scoperta del fuoco, «probabilmente la maggiore mai compiuta dall’uomo», grazie alla quale ha saputo rendere digeribili certi cibi e rendere innocue radici ed erbe velenose (1983: 75). Queste stesse facoltà intellettuali sono così elencate: capacità di osservazione, memoria, curiosità, immaginazione, ragione.

(7) Per quanto riguarda il secondo fattore, la socialità, essa prende forma attraverso la «simpatia» e «l’amore» verso i propri compagni, sviluppando così solidarietà e reciproco aiuto (Darwin 1983: 90).

(8) Anche quando si tratta di precisare gli aspetti della struttura fisica (terzo fattore) che maggiormente hanno determinato il successo dell’uomo, Darwin non può fare a meno di porne in luce i risvolti sociali e tecnologici. È soprattutto «l’uso di una mano perfetta» ciò che consente all’uomo di dare luogo alla stupefacente industria litica, con conseguente «divisione del lavoro», che caratterizza anche le fasi più primitive della storia dell’umanità, una mano perfetta che però si sarebbe rivelata svantaggiosa per arrampicarsi sugli alberi (Darwin 1983: 76). Darwin poi insiste su un carattere della struttura fisica dell’uomo, che lo mette a parte rispetto agli altri animali, ossia la posizione eretta: «solo l’uomo è divenuto un bipede» (1983: 78). Non solo, ma lo stesso uso della mano «perfetta» che, unitamente all’intelletto, ha garantito «la sua attuale posizione di dominio nel mondo», deve moltissimo all’acquisizione del bipedismo. Darwin introduce così un tema importantissimo, quello cioè della “liberazione” delle mani e dell’intera parte superiore del corpo dai compiti della deambulazione, tema poi ampiamente ripreso da André Leroi-Gourhan (1977), il quale proprio per questo si spingerà ad affermare che l’uomo è cominciato dai piedi (lo sviluppo cerebrale verrà dopo). Avere le mani e le braccia «libere» è dunque un enorme «vantaggio» per l’uomo.

(9) Un qualunque antropologo culturale, che prenda in considerazione la sinergia tra i tre fattori individuati da Darwin per spiegare il successo biologico dell’uomo (sviluppo di «facoltà intellettuali», incidenza di «costumi sociali», particolarità della «struttura fisica»), non avrebbe esitazione alcuna a introdurre la nozione di “cultura”. Quando Darwin evoca l’acquisizione della stazione eretta, descrive le condizioni più significative grazie alle quali gli antenati degli esseri umani sono divenuti animali culturali. Detto in altri termini, è la cultura il nesso tra la penuria dell’uomo e il suo successo; è la cultura che spiega il paradosso dell’essere umano: un animale molto debole e indifeso, che è però divenuto l’animale più potente, decretando il proprio predominio nel mondo. È la sempre maggiore incidenza della cultura nell’organizzazione della specie umana ciò che spiega anche il suo progressivo indebolimento sul piano organico. Darwin non parla però di cultura in senso antropologico, e quando usa il termine, il significato è soltanto quello tradizionale: la cultura degli uomini colti, che si differenziano dai barbari, dalle persone incolte (1983: 119). Come mai questa mancanza terminologica?

(10) La domanda nasce dal fatto che – come già si è detto – The Descent of Man viene pubblicato nello stesso anno (1871) e dallo stesso editore (Murray di Londra) presso cui esce Primitive Culture di Tylor, libro fondante dell’antropologia culturale anche perché inizia con la più famosa definizione di cultura in ambito antropologico: «La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società» (Tylor 1970: 7). La contemporaneità dei due libri spiega perché Darwin non abbia potuto avvantaggiarsi della chiara ed esplicita definizione di Tylor, il quale però già utilizzava il concetto di cultura – nel suo significato antropologico (per esempio, nell’espressione «cultura umana» [Human Culture]) – in un libro precedente, Researches into Early History of Mankind and Development of Civilization del 1865, consultato e citato da Darwin in The Descent of Man. Ma proprio come appare dall’espressione ora riferita, il concetto tyloriano di cultura aveva un’applicazione esclusivamente antropologica, indicando attività e sviluppi non biologici dell’attività umana. Del resto, Tylor aveva esplicitamente ricavato il suo concetto di cultura dalla tradizione di pensiero tedesca e dall’etnologia tedesca dell’800 (in particolare da Gustav Klemm), per la quale “cultura” (Kultur) non aveva alcuna implicazione di ordine biologico ed alcuna applicazione al di là della storia umana (come è attestato dall’espressione “storia culturale” [Kultur-Geschichte]). Pur nella sua innovativa valenza antropologica ed etnografica, “cultura” non poteva che essere un concetto estraneo alla cassetta degli attrezzi darwiniana.

(11) Darwin non poteva, infatti, accettare l’idea che la specie umana costituisse un dominio a sé nell’ambito più vasto della natura: “cultura” (nella versione tedesca e poi tyloriana) avrebbe rappresentato una negazione di quei legami e di quelle continuità con le altre specie animali, da cui Darwin non poteva certo recedere. Si sarebbe dovuto aspettare praticamente un secolo per vedere il concetto di cultura sottoposto a un’estensione in senso zoologico e paleoantropologico: saranno infatti gli etologi (John Bonner per esempio e in Italia Danilo Mainardi) a utilizzare il concetto di cultura per la descrizione e l’analisi di diversi aspetti del comportamento animale e saranno i paleoantropologi a rendersi conto e a suggerire che la stessa evoluzione biologica che ha condotto all’uomo attuale è avvenuta sotto l’insegna della cultura (Remotti 2011, cap. II). Persino le neuroscienze, oggi, non possono fare a meno del concetto di cultura per capire come funziona il cervello umano. Tutto questo per dire che nelle argomentazioni di Darwin, relative alle caratteristiche degli esseri umani e in particolare al paradosso dell’umanità (la sua penuria e il suo successo), il concetto di cultura potrebbe inserirsi in maniera appropriata e convincente, purché naturalmente esso non sia considerato come un patrimonio esclusivo dell’umanità, bensì come una risorsa già presente in natura (ovvero nelle altre specie), a cui gli antenati dell’uomo hanno potuto accedere nelle loro trasformazioni evolutive.

(12) In altri termini, si potrebbe legittimamente pensare che Darwin sarebbe disponibile a far suo il concetto di cultura, purché esso venga inteso come una potenzialità zoologica, prima ancora che antropologica, ovvero che la cultura ha preceduto e non seguito l’umanità. In una sorta di divertissement intellettuale saremmo quasi in grado di fare andare d’accordo Charles Darwin da una parte e Clifford Geertz dall’altra: a Darwin, rappresentante della biologia, a cui la maggior parte dei biologi intende tuttora rimanere fedele, si potrebbe chiedere di accettare un concetto che proviene dagli antropologi culturali (in primis da Tylor) e a Geertz, il quale ha scritto pagine tuttora illuminanti sul ruolo della cultura nel processo di ominazione, si potrebbe chiedere di accettare esplicitamente l’origine zoologica della cultura. Non sarebbe male che proprio sulla cultura – sul suo ruolo, sulla sua funzione, sulle sue implicazioni – si realizzasse un reale incontro tra biologi e antropologi culturali, ossia quel superamento dello «iato» che invece Kroeber concepiva come un dato ineliminabile. Ciò che qui proponiamo non è la stessa cosa prospettata da Luigi L. Cavalli Sforza, il quale intende dimostrare agli antropologi culturali come essi dovrebbero studiare “scientificamente” la cultura: una lezioncina da chi pretende di saperne di più, senza rendersi conto che la cultura è qualcosa di più disorientante dei suoi benefici, della sua utilità e della sua capacità di adattamento (Cavalli Sforza 2004: 12, 77-78) – come avremo modo di vedere in seguito.

(13) Detto in altri termini ancora, non potrebbe forse proprio essere la cultura il fattore che, lungi dal creare lo iato o l’abisso, avvicina l’uomo e le altre specie animali? Non nel senso di ridurre la cultura umana a meccanismi pre- o extra-culturali, per esempio di ordine genetico, come succede nella sociobiologia, ma nel senso di riconoscere anche ad altri animali la caratteristica di esseri culturali. È importante tenere presente, sotto questo profilo, la doppia mossa di Darwin. Se da un lato, infatti, egli individua ciò che maggiormente contraddistingue la condizione umana (i tre fattori di cui abbiamo parlato al punto 5), e che potrebbero essere facilmente raggruppati, sotto diverso titolo, nella categoria più ampia della cultura, dall’altro egli si preoccupa di ristabilire legami di continuità: «Il mio scopo in questo capitolo [cap. 3] è di dimostrare che non vi è alcuna differenza fondamentale tra l’uomo e i mammiferi superiori per quanto concerne le loro facoltà mentali» (Darwin 1983: 92). Più in particolare, allorché egli tratta della ragione, concepita come la facoltà della mente umana che si trova «al vertice», è interessante vedere come Darwin si atteggia. Essendo il suo obiettivo quello di non creare iato, ma continuità, Darwin aveva di fronte a sé due possibilità: o quella di abbassare la facoltà umana a quella animale oppure quella di innalzare la facoltà animale verso quella umana. Darwin sceglie la seconda strada aiutato da alcuni dati osservativi: (a) poche persone negherebbero la presenza negli animali di qualche capacità raziocinante; (b) infatti «si possono continuamente vedere animali esitare, decidere e risolvere»; (c) «è un fatto significativo che più le abitudini di un particolare animale sono studiate da un naturalista, più questi attribuisce importanza alla ragione e meno quindi agli istinti rozzi» (1983: 101).

(14) Sono osservazioni estremamente preziose, in quanto inducono a pensare che l’attribuzione di istinti rozzi e quindi di automatismi agli animali sia in gran parte funzione della nostra scarsa conoscenza del loro comportamento e del prevalere di un paradigma dicotomico, secondo il quale la ragione spetta agli esseri umani e l’istinto agli animali. Non solo, ma altrettanto significativo è il modo con cui Darwin segnala la presenza del comportamento razionale (negli animali come nell’uomo): «esitare, decidere e risolvere», dove sono evidenti il pensiero, la valutazione delle alternative possibili, e la scelta o decisione che sfocia in una risoluzione. Il nucleo della razionalità umana e animale è individuato nella “scelta”, che infatti ritorna in un elenco successivo di facoltà condivise (1983: 105). La scelta – il contrario dell’automatismo – è ciò che consente a Darwin di umanizzare gli animali (di innalzarli verso la condizione umana), anziché di abbassare gli uomini al livello degli animali. La scelta inoltre viene posta alla base della dimensione culturale, anche in ambito zoologico (Remotti 2011). Altro dato significativo: per corroborare questa sua linea interpretativa, Darwin si riferisce al lavoro di Lewis H. Morgan – il fondatore dell’antropologia americana – sul comportamento dei castori (Morgan 1868). Una domanda per concludere queste considerazioni: quanti approcci che si vogliono “scientifici”, tesi a spiegare l’incidenza della dimensione culturale, si risolvono di fatto in un non riconoscimento della fase della scelta e della sua inestirpabile arbitrarietà?

(15) Le pagine di The Descent of Man che abbiamo deciso di esaminare ci riservano ulteriori spunti di grande interesse antropologico. Essi provengono dall’osservazione iniziale sulla nudità tipica dell’uomo. Come abbiamo visto, Darwin inserisce questa osservazione in due tematiche distinte: (A) il carattere inerme dell’uomo e (B) l’importanza cruciale dell’ornamento. È su questa seconda tematica che dobbiamo ora soffermarci.

(16) Partiamo dal linguaggio, e in particolare dal linguaggio articolato, che secondo Darwin è una facoltà del tutto peculiare dell’uomo (Darwin 1983: 111). Esso non è un istinto e infatti ha da essere appreso: anzi, «è un’arte come fare la birra o fare il pane» (1983: 112). Subito dopo Darwin ricorre però al canto degli uccelli. Anche qui abbiamo a che fare con suoni che sono emessi non istintivamente, ma per apprendimento. L’analogia tra il linguaggio degli uomini e il canto degli uccelli viene stabilita sottolineando che in un caso e nell’altro vi è una base o «tendenza istintiva», che spinge i piccoli verso l’emissione di suoni, «mentre nessun bambino ha una tendenza istintiva a fare la birra, a cuocere il pane o a scrivere». Ma la tendenza istintiva è soltanto una base necessaria e non sufficiente: per imparare a parlare o a cantare ci vuole esercizio, apprendimento, acquisizione di tecniche particolari da parte dei piccoli e insegnamento da parte degli adulti. Non solo, ma le osservazioni di Darwin pongono in luce una connessione molto significativa: ciò che viene appreso, nel linguaggio articolato dell’uomo, così come nel canto degli uccelli, non è una lingua o un canto universale, ma lingue o dialetti particolari. Le osservazioni condotte sui canarini del Tirolo – da parte di Daines Barrington, un naturalista del ‘700, qui riportate da Darwin – dimostrano che gli adulti trasmettono ai loro piccoli varianti locali, simili a «dialetti provinciali».

(17) Oltre a quest’illuminante connessione tra apprendimento e particolarità di ciò che viene appreso, le analisi di Darwin spingono poi verso una seconda connessione, che ci consente di approdare al tema dell’ornamento. Egli riporta le osservazioni dei linguisti del tempo per quanto riguarda «la costruzione perfettamente regolare e magnificamente complessa dei linguaggi di molte nazioni barbare» (Darwin 1983: 117). Beninteso, pure qui Darwin intravede il rischio di trasformare questo argomento in una prova del carattere eccezionale dell’essere umano, della sua inconfondibile capacità creativa, se non addirittura dell’origine divina di questi linguaggi. In maniera molto opportuna, egli avverte l’improponibilità di considerare come superiori quelle lingue che si presentano più complesse, simmetriche e regolari rispetto alle lingue irregolari, abbreviate e imbastardite, frutto di contatti tra popoli diversi. E tuttavia, dopo avere considerato la varietà delle lingue umane e dei canti degli uccelli, egli non può esimersi dall’affrontare il tema del «senso del bello» (1983: 117). Suoni, forme, colori possono produrre un piacere estetico, che ritroviamo tanto negli esseri umani quanto negli animali: «quando ammiriamo un uccello maschio che dispiega con cura le sue meravigliose piume […] è impossibile dubitare che la femmina ammiri la bellezza del suo compagno» (1983: 118). «Il gusto del bello» – ribadisce Darwin – «non è carattere particolare della mente umana». Tra gli animali, tuttavia, o meglio «per la gran maggioranza degli animali […], il senso del bello, per quanto possiamo giudicare, è limitato all’attrazione del sesso opposto» (1983: 118 – corsivi nostri). Il senso del bello rientrerebbe dunque nel paradigma della selezione sessuale. Ma perché mai le esitazioni che abbiamo segnalato? E per quanto riguarda gli esseri umani vale la stessa limitazione?

(18) Poco oltre, allorché Darwin sostiene che il «senso della bellezza», insieme all’immaginazione, alla meraviglia, alla curiosità, all’imitazione, all’amore dell’eccitazione e della novità (tutte facoltà utili per il «progressivo avanzamento» dell’uomo) determinano «capricciosi cambiamenti di costume e di mode», non può non rilevare che anche gli animali inferiori si dimostrano «ugualmente capricciosi nei loro affetti, avversioni e senso della bellezza» e che per giunta «vi è anche ragione di sospettare che amino la novità per se stessa» (Darwin 1983: 119). Ancora una volta, Darwin propende per una continuità animali/uomini, che prende la forma di un avvicinamento dei primi ai secondi, piuttosto che dei secondi ai primi: le qualità che sembrano essere peculiari degli esseri umani risultano rinvenibili anche negli animali “inferiori”. In ogni caso, sembra alquanto difficile ricondurre le diverse manifestazioni del piacere estetico, quale ritroviamo nelle varie società, a cominciare da quelle più primitive, al paradigma della selezione sessuale. A leggere le opere di Edward Tylor e di John Lubbock, Darwin dichiara di rimanere «profondamente colpito» dal «piacere che tutti [gli esseri umani] provano nel danzare, nella rozza musica, nel recitare, dipingere, tatuare ed altri modi di decorarsi» (1983: 204).

(19) È l’ornamento ciò che alla fine attrae maggiormente l’attenzione di Darwin. Riferendosi allo «studio completo ed eccellente» condotto da un «viaggiatore italiano», il Prof. Paolo Mantegazza (Rio della Plata, viaggi e studi del 1867), Darwin sottolinea che «i selvaggi pongono molta cura nel loro aspetto personale» e che essi «amano molto ornarsi» (1983: 606). Nell’adornarsi l’uomo prova un intenso piacere, per quanto misera e povera sia la sua condizione sociale ed economica; non solo, ma per l’ornamento è disposto a investire gran parte dei suoi averi e del suo lavoro. Infine, come sottolinea Alexander von Humboldt, nel decorare con pitture il proprio corpo nudo gli esseri umani manifestano «l’immaginazione più fertile e il capriccio più mutevole», tanto quanto nel rivestirlo di indumenti. I tatuaggi da un capo all’altro del mondo, le scarificazioni del continente africano, le modificazioni del cranio sia nel vecchio che nel nuovo mondo, le elaborate acconciature dei capelli, lo strappo di ciglia e sopracciglia, l’avulsione dei denti, la loro limatura, l’attenzione rivolta soprattutto al volto, dove si provvede a perforare il setto nasale, i lobi auricolari, le labbra inferiori o superiori così da inserirvi oggetti ornamentali sono alcuni degli interventi estetici su cui Darwin si sofferma, così da concludere: «quasi nessuna parte del corpo suscettibile di essere modificata artificialmente viene rispettata» (Darwin 1983: 608). E poi, ciò che colpisce Darwin è il tema del dolore a cui gli esseri umani si sottopongono per questi interventi estetici, molti dei quali non sono istantanei, ma richiedono un lavoro che si protrae per anni: «le sofferenze causate da queste mutilazioni devono essere notevolissime»; il che significa che «la convinzione della loro necessità deve essere ben radicata».

(20) Ma di quale necessità si tratta? I vari casi d’interventi estetici sul corpo sono riportati da Darwin nel paragrafo intitolato Influenze della bellezza sui matrimoni del genere umano (1983: 605 segg.); più in generale, si tratta del cap. 19, Caratteri sessuali secondari dell’uomo. È abbastanza agevole rilevare tuttavia che paragrafo e capitolo sono contenitori alquanto inerti: scarsi e poco approfonditi sono i nessi che Darwin cerca di ipotizzare tra questi tipi di fenomeni (gli interventi estetici sul corpo riscontrati un po’ in tutte le società umane) e le sue teorie più generali. Forse è abbastanza significativo rilevare due ammissioni di Darwin in questo stesso capitolo. In base alla prima egli dichiara che la teoria della selezione sessuale risulta molto più applicabile alle fasi più remote della storia dell’umanità, che non alle epoche successive, dove, invece di istinti e di passioni, predominano la ragione e la capacità di previsione, potremmo anche aggiungere la scelta e la progettazione (Darwin 1983: 637). La seconda ammissione è la seguente: «Le ipotesi qui avanzate sul ruolo svolto dalla selezione sessuale nella storia dell’uomo mancano di precisione scientifica» (1983: 638).

(21) Tutta l’argomentazione relativa agli interventi estetici sul corpo finisce col ruotare attorno all’idea dell’irrinunciabilità dell’ornamento. Persino le «mutilazioni», ovvero quegli interventi che provocano la maggiore sofferenza, sono ricondotte a questo tema: «l’ornamento, la vanità e l’ammirazione degli altri sembrano costituire il motivo principale di tali pratiche» (Darwin 1983: 609). Il tema dell’ornamento assume così una sua autonomia scientifica: anziché essere spiegato, esso spiega; è un explanans, non un explanandum. Del resto, lo stesso Darwin, nella prima parte del libro, a proposito della nudità della pelle nell’organismo umano, si era espresso significativamente in questi termini: «l’opinione che mi sembra più probabile è che l’uomo […] sia divenuto privo di peli per scopi ornamentali» (Darwin 1983: 84 – corsivo nostro). Ma poi, questa, non è forse anche l’opinione che così spesso viene data da parte degli “indigeni”, rozzi o civili che siano? Un capo africano, richiesto di spiegare perché mai la moglie portasse degli strani ornamenti infilati nel labbro inferiore, rispose stupito: «Per bellezza!» (Darwin 1983: 608).

(22) La ricerca della bellezza s’impone come uno dei temi più significativi dell’antropologia presente in The Descent of Man, tema che pare articolarsi su due piani: quello dell’universalità dell’esigenza e quello della particolarità delle realizzazioni. Ricercare la bellezza del corpo attraverso ornamenti d’ogni tipo è una costante che Darwin attesta e che, beninteso, l’antropologia culturale non ha fatto che confermare. Ma questa esigenza così universale si realizza inevitabilmente attraverso concezioni particolari della bellezza e dell’umanità. «Certamente non è vero» – conclude Darwin – «che nella mente dell’uomo esiste una concezione universale di bellezza rispetto al corpo umano» ed è anzi «molto notevole la differenza che esiste nella concezione della bellezza fra una razza e l’altra» (1983: 616, 613): noi diremmo “tra una cultura e l’altra”. In un certo senso, la faccenda della bellezza è un po’ come quella del linguaggio esaminata da Darwin nella prima parte del suo lavoro: tutti gli esseri umani hanno una “tendenza istintiva” (questa era la sua espressione) a emettere suoni articolati; ma poi essi danno luogo a lingue che spesso sono tra loro incomprensibili. Tutti gli esseri umani ricercano la bellezza, ma i modelli di bellezza che inventano e realizzano sono spesso molto divergenti.

(23) Per Darwin – in ciò seguendo Alexander Humboldt e Paolo Mantegazza – i modelli di bellezza, pur divergenti tra loro, non farebbero altro che adottare suggerimenti presenti in natura, ovvero le diverse culture selezionerebbero alcuni aspetti del corpo umano, e ammirandone le peculiarità, si limiterebbero a «esagerare» questi caratteri (Darwin 1983: 614-615). Se si esaminano i diversi tipi d’interventi estetici sul corpo, è facile constatare che vi sono anche interventi che – a parte il dolore che comportano – potremmo definire disfunzionali o antifunzionali sul piano organico, nel senso che alterano o impediscono funzioni motorie, sessuali, digestive, fonatorie, respiratorie, ecc. (Remotti 2005: 368). Si potrebbe parlare a questo punto d’interventi “contro-naturali”, se con questi s’intende designare i tipi d’interventi mediante cui le culture si allontanano o persino entrano in contrasto con le condizioni naturali che indubbiamente caratterizzano gli esseri umani sotto il profilo biologico (Remotti 2008: 251). Occorre, infatti, riconoscere che le culture – nella loro ricerca dei modelli di bellezza e di umanità – possono addirittura dar luogo a soluzioni che vanno contro a processi, funzioni e bisogni “naturali”.

(24) Con le sue considerazioni sugli interventi estetici sul corpo, con la sua visione – sia pure ottocentesca – di «corpi modificati artificialmente» (Darwin 1983: 615), Darwin consegna un problema per il quale l’antropologia culturale (e non solo la biologia evoluzionistica) stenta a trovare una risposta. In Darwin però ci sono degli indizi, o degli spunti, da sfruttare. La pelle nuda, ancora una volta, può esserci utile, proprio in quanto – come abbiamo visto – viene abbinata da un lato al carattere inerme e carente dell’essere umano e dall’altro al tema dell’ornamento e della bellezza. La pelle nuda suggerisce che le due tematiche, entrambe darwiniane, non sono del tutto separate e divergenti. Anzi, la penuria dell’essere umano può essere collegata all’esigenza della bellezza, se si fa intervenire un tema certamente estraneo al paradigma darwiniano, quello secondo cui, proprio a causa delle sue carenze, l’essere umano ha da costruirsi culturalmente (Remotti 2011, cap. II). La “bellezza” è lì, come esigenza ineludibile del modellare. Se l’essere umano non può sottrarsi all’esigenza del modellamento, non può nemmeno sottrarsi alla ricerca della bellezza: comunque poi questa venga intesa. Una bellezza da inventare e da decidere, proprio come da inventare, reperire e scegliere sono i modelli di umanità.

Riferimenti bibliografici
Cavalli Sforza, Luigi L. 2004, L’evoluzione della cultura. Proposte concrete per studi futuri, Torino, Codice.
Darwin, Charles 1983, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, Roma, Newton Compton (ed. or. 1871: The Descent of Man and Selection in Relation to Sex, London, Murray).
Kroeber, Alfred L. 1974, La natura della cultura, Bologna, il Mulino (ed. or. 1917: “The Superorganic”, American Anthropologist, XIX, 2, pp. 163-213, poi in id., The Nature of Culture, Chicago, The University of Chicago Press, 1952, pp. 22-51).
Leroi-Gourhan, André 1977, Il gesto e la parola, Torino, Einaudi, 2 voll. (ed. or. 1964-1965: Le geste et la parole, Paris, Albin Michel).
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Remotti, Francesco 2005, “Interventi estetici sul corpo”, in F. Afferganm et al., Figure dell’umano. Le rappresentazioni dell’antropologia, Roma, Meltemi, pp. 335-369.
Remotti, Francesco 2008, Contro natura. Una lettera al Papa, Roma-Bari, Laterza.
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Remotti, Francesco 2011, Cultura. Dalla complessità all’impoverimento, Roma-Bari, Laterza.
Tylor, Edward B. 1970, cap. I, in Pietro Rossi (a cura di), Il concetto di cultura, Torino, Einaudi (ed. or. 1871: Primitive Culture, London, Murray).

* Francesco Remotti è ordinario di Antropologia Culturale all’Università di Torino. Svolge ricerche etnografiche presso i BaMande del Nord Kivu (Repubblica Democratica del Congo) e ricerche etnostoriche sui regni precoloniali dell’Africa equatoriale.