La morte a Napoli è una farsa

di Calogero Martorana

«Quanto mi dispiace di questa morte. Ero tanto simpatico, nel fiore degli anni». È il giudizio che l’avarissimo barone Peletti, alias Totò, dà della propria morte quando crede di essersi ritrovato all’inferno. Il film è «47 morto che parla» del 1950 e questa frase costituisce la summa del rapporto fra napoletani e morte. Un rapporto nient’affatto drammatico o sofferto oppure austero. No. La superstizione della morte per i partenopei è soave come l’avanspettacolo decurtisiano, quasi ilare, farsesca.
Ne «Il sindaco del rione Sanità», Eduardo racconta al personaggio impersonato da Pietro Carloni che suo figlio di 8 anni gli aveva chiesto se le proprietà sarebbero passate a sé solo dopo la morte del genitore; ma invece di rispondere a quella malcelata fretta, Eduardo-Antonio Barracano gli aveva subito fatto una donazione in vita … Quale altro cinismo così cattivo da diventare privo di cattiveria ci può essere in questa immagine? Nulla di nuovo aveva scoperto, nel primo Novecento, la psicanalista Melanie Klein accusando i bambini di cinismo e di ferocia: a Napoli i bambini sono esattamente così fin dai miti della sirena Partenope.
L’iconoclastia napoletana invade pure il linguaggio. Fino al 1700 le inumazioni erano fatte in nicchie a forma di sedia con sotto un vaso (le «cantarelle») su cui il cadavere si disponeva seduto allo scopo di «asciugare» per colatura. Da questa usanza s’è generata la colorita offesa «Puoz sculà» (che tu possa colare) che auspica appunto quella scomoda e poco dignitosa morte. Ma è un’offesa, pure questa, priva del necessario carattere esacerbato; anzi, Puoz sculà ha una sfumatura benevola che spesso ne fa strumento di presa in giro, tutt’al più d’insofferenza, come per dire «Ma va’ al diavolo». E sono comunissime le espressioni di «giuramento» altrettanto desacralizzanti quali «Adda murì sòreme» (dovesse morire mia sorella – se non ho detto la verità), «’Ngopp a l’anema ‘e papà» (giuro – sull’anima di papà), «Nun aggia vedé i figlie mije» (dovessi non più rivedere i miei figli – se questa cosa non è vera), ecc. Il tema della morte muta a strumento di rinforzo, e non di sottrazione, alle cose della vita. Potremmo perfino azzardare che la morte a Napoli non esista, tanto rimane vincolata alla vita, tanta è la nouance tra ciò che è e ciò che non è più.
I morti di Napoli non sono mai «morti» definitivamente: non abbandonano amici e parenti, rimangono per aria, nei sogni, nei «segni», negli speciali riti di affetto e di ricordo di cui Napoli è magister. I morti si nascondono sotto i tappeti, sotto le sedie, sotto i mobili (Eduardo, «Le voci di dentro», 1948). Le anime mantengono pervicacemente i contatti coi corpi e, spesso attraverso i sogni, chiedono ai vivi l’atto semplice di pregare per loro. Ma pure questo meccanismo teologico, anziché rimanere paludato nell’austerità d’ordinanza, dirompe nel campo del casereccio; a Napoli si dice che con le preghiere le anime trovano «refrisco», refrigerio: immagine impertinente che precipita la materia spirituale a tema microclimatologico, e allora il rapporto col divino entra in cucina, associando l’anima a un cibo (capitombolo del «cibo per l’anima») che necessita di frigidaire per non (de)perire.
E cosa offre l’anima in cambio di questa «rinfrescata»? Ancora oggi i napoletani si recano nei cimiteri sotterranei della città, «adottano» un teschio e ne fanno oggetto di cure e preghiere. Ma non è devozione, non è culto dei morti, non è religiosità: quelle cure e quelle preghiere chiedono (estorcono?) all’anima corrispettivi decisamente concreti: i malati immaginari chiedono guarigioni, gli sfaccendati lavoro, le zitelle matrimonio, e tutti chiedono una ragionevole vincita al Lotto. Il motore principale della scelta dei numeri da giocare al Lotto sono i sogni, specialmente quelli che turbano, che «significano», ossia con protagonisti parenti e amici defunti a cui rivolgere accorate preghiere tese al proprio benessere terreno – sia esso salute o conto in banca.
Sono preghiere anche quelle del geniale «rosario dei femminielli» scena-clou della maestosa opera che è «La gatta cenerentola». Il potere deflagrante dell’irriverenza uccide la religiosità senza fare prigionieri. «Ma a quale mistero stiamo, al terzo o al quarto?», chiede uno dei salmodianti femminielli (omosessuali) all’altro; e questi: «Oiné, i teng i cazz che m’abballano pe’ capa … Saccio ‘o mistero!?» (Ehi, io ho i cazzi che mi ballano in testa – preoccupazioni tumultuose – che ne so del numero del mistero?). Come non apprezzare l’atmosfera iconoclasta che pure nel momento alto di un rosario trova il modo per deridere le credenze e le certezze inculcate dalla religione? «Salve Regina – e chi ‘o ssape chi è sta reggina – si è nobile ‘o signorina – o si è figlia ‘e mappina». È ancora irriverenza chiamare «figlia ’e mappina» (figlia di donna infima) la Madonna? O è pure questo semplicemente teatro, messa in scena di un pensiero che rifiuta l’Al di là coi suoi incomprensibili meccanismi e fantasiosi «abitanti»?
Nella commedia del 1955 «Mia famiglia», Eduardo riflette sulla gioia di aver avuto un figlio maschio e dichiara «Mi sentii un dio, e pensai immediatamente: non muoio più, non posso morire più». È una metafora, d’accordo, ma riprende pure il tema predominante della tanatologia partenopea, che è l’annullamento dell’assoluto, la sua riduzione a evento negoziabile: la morte come nemico non invincibile, la morte soggetta alle decisioni, alle priorità degl’uomini. Ancor’oggi la scaramanzia – pseudonimo di religiosità – esige che si esprima l’auruncio «a cient’ann» (fra 100 anni) ogni volta che si è costretti a nominare eventi futuri cui potrebbe non partecipare da viva la persona a cui ci si riferisce: la barriera psicologica «100» significa sopravanzare gli dèi e decidere al loro posto, solo per l’averlo augurato, di sopravvivere fino a quell’età. E non è certo sopravvivenza nell’Al di là! Il napoletano vuole la sopravvivenza esattamente nell’Al di qua; qui e adesso; vuole sopravvivere nel corpo, non solo nello spirito; vuole non morire mai. Morire solo per aspettare una improbabilissima resurrezione seduce poco il disincantato popolo napoletano.
I napoletani, quindi, non elaborano il «lutto»? Certo che sì. Cinici e farseschi quanto si vuole, ma non insensibili. Il periodo del «cordoglio», che nell’accezione antropologica riguarda la riparazione dopo la rottura del lutto (termine che non a caso proviene dall’arcaico lugere, rompere), è in genere affidato a vere e proprie «tecniche di pianto» di cui le «lamentatrici professioniste» (quasi sempre le anziane) rappresentano un indiscusso paradigma. Costoro in qualche caso sono anche retribuite per inscenare il pianto pubblico dovuto alla salma, firmando così l’assoluto dominio dei contenuti materiali e laicissimi di questi eventi.
Il tema del lamento, ancora, non è religiosità ma atto magico che serve ad agevolare l’allontanamento della salma da sé. Fino alla sepoltura, il cadavere viene pervaso dai lamenti, abbracciato fisicamente, compianto in maniera plateale. Se ne sciorinano doti e gesta, se ne esaltano qualità e pregi, in una iperbole grottesca e barocca. Dato significativo: nelle parole delle lamentazioni sono assenti le figure che più ci si aspetterebbe: Gesù, madonne, santi. Anzi, peggio: a quelle figure semmai il lamento riserva critiche e proteste per aver lasciato morire il congiunto. Le parole sono organizzate in un copione: si inizia sempre con un ricordo benevolo e agiografico del defunto, anche nei casi di recidiva penale in vita; seguono i riferimenti al suo lavoro e ai bei tempi andati. Infine, la descrizione vittimistica dei sopravvissuti: la sposa inconsolabile, i figli orfani, la mamma affranta. Il tutto accompagnato da una mimica molto precisa, fatta di gesti autolesionisti come strapparsi i capelli, schiaffeggiarsi, graffiarsi, ecc.
Quanto mai significativa la chiosa: «Non ho più niente da dirti, vienimi in sogno a dirmi se sei contento di tutto quello che ti abbiamo fatto». Ancora: il morto non è del tutto morto; rimane «nella disponibilità» di amici e parenti, benché sotto forma di sogno. E quel morto è così «vivo» da poter successivamente esprimere un giudizio sul rito funebre di cui lo hanno fatto oggetto. Il corteo funebre che «accompagna» la salma nell’ultimo miglio è pure a Napoli quasi sempre feudo della Chiesa cattolica (benché non per baciapilismo clericale ma sempre più spesso per mero default culturale), e presenta delle caratteristiche ancora una volta farsesche. Oggi il feretro è posto in uno dei moderni macchinoni che hanno quasi totalmente sostituito i carri coi cavalli; il napoletano medio rimpiange quei carri, diventati man mano sempre più costosi e fuori luogo, ma ancora eccitanti nel ricordo popolare tanto erano kitsch e architettonicamente arditi. Quella dei carri era un’epoca in cui si sbeffeggiava «la Livella» e invece si declamava l’importanza del morto attraverso l’aggiunta di coppie equine e di addobbi alla carrozza, fino ad assurgere a vette inconciliabili con il buongusto e con la struttura viaria della città (nei casi di altolocati boss di quartiere, si vedevano carri maestosi tirati da sei, sette, otto coppie di stalloni e seguiti da un corteo più affollato della Al-Masjid al-Haram). Oggi le macchine funebri sono un po’ tutte eguali, per cui forse il discrimine fra il solito morto e l’importante salma è delegato al solo numero degli affranti.
Il corteo segue regole non scritte ma precise. Subito dietro il feretro ci sono i parenti più prossimi (coniugi, figli, genitori) tutti sul punto di afflosciarsi e quindi sorretti da qualcuno nel gravoso compito di piangere, strillare o salmodiare a seconda del tasso di civismo goduto. Nelle seconde fila si attestano gli amici intimi e poi quelli così così, ugualmente affranti e disperati, ma che già possono rinunciare al sostegno di terzi per continuare a processare. Ancora dietro ci sono i coinquilini e il vicinato, stavolta molto meno addolorati e solo appena appena compassati. Dietro di loro comincia un popolo eterogeneo fatto di conoscenti vaghi, di quelli che riconosci per strada ma manco saluti, di semplici curiosi e di persone morbose che vogliono condividere più la forma che la sostanza dell’evento. E difatti, man mano che ci si allontana dal macchinone laggiù, il lutto transustanzia nella quotidianità: la gente marcia più spigliatamente e discute del più e del meno, quasi tutti si distraggono, non pochi si guardano attorno come se fossero turisti che ammirano la città da un bus, e qualcuno perfino ride e fa battute curando di schernirsi solo un po’.
Il teatro farsesco continua al Cimitero di Poggioreale che, se già era un museo a cielo aperto per le opere che contiene e i nomi illustri che ospita (da Totò a Scarpetta, da Taranto a Caruso, da Benedetto Croce a Salvatore Di Giacomo), è diventato sempre più una sorta di villa comunale di 50 ettari in cui passeggiare e incontrarsi. Su queste tombe la gente arriva «in visita» sempre meno col nero d’ordinanza. E parla con quelle foto e quelle lapidi, raccontando accidenti e cose liete, mentre rassetta tutt’intorno, cambia il corredo vegetale, lucida pomi d’ottone, scopa, accende lumini e spolvera tumuli e tombe. Di solito, presto si creano veri e propri «salotti» tra vicini di tomba, e presto tutte le attenzioni e le discussioni traslano dai morti ai vivi; e pure il tema evolve: se inizialmente era monocorde su come, perché e quanto ingiustamente defunse l’«inquilino», poi s’inoltra nei costi esorbitanti di garofani e crisantemi, per approdare magari a vere e proprie nascenti amicizie complete di inviti reciproci e promesse di rivedersi.
Maramao, perché sei morto? – Pane e vin non ti mancava, – l’insalata era nell’orto – e una casa avevi tu. Questa nota filastrocca ha radici proprio nel territorio napoletano (pare derivi da un episodio legato al condottiero napoletano Fabrizio Maramaldo, 1530) ed è di indubbia matrice pagana. La morte sottrae al defunto nient’altro che cose ben concrete quali il vino, l’insalata e la casa; il rammarico non è per nulla spirituale, si concentra su perdite molto terrene. «Tutto ‘o lassate è perz» (tutto ciò che si lascia è perduto), recita un popolare aforisma che ben riafferma il concetto paganissimo dell’abbandono materiale.
Del resto, l’intera genesi del rapporto fra Partenope e la Nera Signora è pagana: le anime compagne (i teschi senza poteri che aspettano una visita dei vivi), la Vergine del Carmine, i labirinti tufacei del cimitero delle Fontanelle e delle 366 fosse, la peste, il colera, sono solo alcune delle note di una partitura, che a Napoli diventano forme di culto e di cultura della morte, un intreccio di necrofilia e superstizione.
Di tutti e tre i luoghi ultramondani, il Purgatorio è il più popolare; e non a caso, giacché proprio il Purgatorio è il luogo meno definitivo dei tre, quello più vicino alla Terra, quello in cui le anime non hanno ancora avuto la sentenza definitiva e possono sussistere, ancorché espiando, comunque non troppo lontane dai vivi. Come dice Marino Niola («Il purgatorio a Napoli», ed. Gli Argonauti), il culto delle anime purganti (in dialetto «l’aneme ‘ro priatorio») ricorda il Nekromanteion, il luogo alla foce dell’Acheronte (in Epiro) che conduce al mondo dei morti e da cui si possono ricavare divinazioni e guarigioni. Lo stesso patrono san Gennaro, l’icona assoluta di Napoli assieme a sfogliatelle e immondizia, checché se ne dica non è altro che un teschio, un’anima qui detta «pezzentella», poveraccia, di quelle che non godono delle preghiere (ma Lui s’è rifatto alla grande) e non hanno avuto sepoltura (condizione curiosa, che di santi e venerabili si possano adorare e mercificare frattaglie e ossa ma a cui non si elargisce canonica sepoltura).
Concludere questa rapida scorsa del senso apotropaico della morte con l’espressione «Vir Napule e po’ muor» (vedi Napoli e poi muori) è troppo facile. Ma in fondo in fondo anche impedirsi di defungere non prima di aver visitato la città di Pulcinella significa dominare la morte, sottometterla ai propri tempi ed esigenze, ridicolizzarla. Quanta e quale differenza dalla percezione pomposa, drammaturgica e finta che sta a cuore al cristianesimo!