Vivere morendo e morire vivendo: 
il rilascio vitale e il suicidio

di Carlo Tamagnone

Il recente suicidio di Monicelli rilancia una serie d’interrogativi su questioni irrisolte e forse irrisolvibili in un paese fortemente influenzato dalla credenza. Secondo me il grande creativo si è tolto la vita perché non era più in grado di creare, perché la sua dignità e il suo modo di concepirsi erano irrimediabilmente compromessi. Il suo gesto è stato quindi un atto di dignità, la stessa dignità che egli aveva espresso vivendo e lavorando l’ha cercata morendo a “suo” modo. E tuttavia per molti la morte è qualcosa di non capito o da non voler capire, perciò si esecra il suicidio o lo si nomina nei modi più stupidi (decisione estrema, scelta tragica e così via). Il suicidio in realtà è un rifiuto di una vita non-degna in nome di una degnità diventata impossibile: non è affatto rifiuto della vita, ma omaggio ad un concetto di qualità contro quello di quantità di vissuto. Émile Durkheim in un suo famoso saggio del 1897 intitolato Il suicidio ne aveva prodotta un’analisi da un punto di vista sociologico come frutto di una disfunzione individuo/società. Egli aveva individuato tre tipi di suicidio: egoistico, altruistico, anomico [1]. Quello di Monicelli potrebbe forse essere classificato come anomico [2] sulla base del suo disprezzo per la deriva culturale del paese nell’ultimo quindicennio: quest’opinione egli l’aveva espressa ripetutamente in pubblico e in privato, ma è un’interpretazione riduttiva in quanto considera solo il rapporto sociologico io/altri e non quello esistenziale io/me. Come ci ricorda ancora recentemente Gerald Edelman «Il cervello parla a se stesso» [3], esiste infatti una dimensione del pensiero che si cortocircuita, mettendo tra parentesi il mondo: è la funzione mentale che ho chiamato esistenzialità.
L’esistenzialità è una realtà del mentale in cui cessano di essere attivi i modelli di esistenza che il mondo ci propone, tradizionali o alla moda; essa non è più riferita al “vivere con gli altri”, ma al “vivere con se stesso”. Rispetto al “noi” può avere ancora senso vivere, non rispetto a “me”. Ciò vale spesso per il frustrato emarginato, ma può valere anche all’apice degli onori e del successo, come fu di Cesare Pavese che raggiunta la gloria letteraria nel 1950 la fece finita. Ciò significa che il suicidio non nasce dai parametri del vivere in generale, ma da quelli dell’esistere nella propria singolarità, irriducibile a modelli. È un colloquiare interiore che ti dice qual è “per te” un modo di vivere dignitoso; è il cervello che parla a se stesso e con se stesso si confronta, dicendoti alla fine se “il tuo posto” è tra i vivi o tra i morti. È su questo terreno che emerge un “vale la pena” o “non vale la pena” vivere, in rapporto a un valore intrinseco che mette tra parentesi il mondo esterno. Ciò richiama la sostanziale differenza tra personalità e individualità. La persona è la maschera che occulta ciò che racchiude, rivela “come io appaio agli altri”, mentre l’individualità è “ciò che io sono per me”. La personalità di Vittorio Gassman era quella estroversa che rivelava anche nei suoi personaggi, ma la sua individualità era quella del depresso introverso sempre in penoso colloquio con se stesso. Il sentire se la mia vita va o non-va, se è degna d’essere vissuta o no, non dipende da ciò che io sono per gli altri, ma da ciò che sono per me. Scegliere una morte che per molti è “assurda” è firmare il mio concetto di dignità, rivendicando una qualità sparata in faccia alla banalità della quantità nella stereotipata dicotomia vita/morte.
Il tema del suicidio mi permette ora di passare al tema della vita da un punto di vista strettamente biologico, poiché ogni organismo cresce e si forma “rilasciando vita”; il rilascio indica come la vita contemporaneamente produca morte. Tale meccanismo inizia già allo stato fetale con l’apoptosi: è sulla base del suicidio delle cellule diventate inutili o atrofiche che l’organismo auto-produce sviluppo, assicurandosi un futuro. I guai cominciano quando le cellule non lo fanno più, come ci ricorda Jean Claude Ameisen: «La maggior parte delle nostre malattie si rivelano legate a disfunzioni del suicidio cellulare» [4]. Dunque, c’è vita se qualcosa in noi muore per far sì che l’organismo prosegua la sua avventura: vivendo “rilasciamo” vita e contemporaneamente la proseguiamo. Dice ancora Ameisen: «Noi nasciamo, viviamo e moriamo secondo le regole di un gioco che si è perpetuato, modificato, raffinato da milioni, centinaia di milioni, miliardi di anni: il gioco della vita con la morte». L’affermazione è corretta ma equivoca, perché dà l’idea che vita e morte siano dicotomiche, in realtà esse sono “contigue” e “interlacciate”. Si vive perché si muore e si muore perché si vive. Senza morte nessuna vita è possibile. Perché una cellula diventa cancerosa? Perché non fa più apoptosi! Essa tende a diventare immortale, onnipotente e onnipresente a spese delle sue simili. Essa rifiuta la morte e per questo diventa seminatrice di morte.
In un suo famoso saggio del 1977 Jankélévitch dà della morte un quadro affascinante ma falso, per lui la morte è una “tragedia metaempirica” e un “mistero”, che deve mettere in moto un certo tipo di reazione che ci porti “oltre la morte”. Egli resta legato a una visione esistenzialistica puramente intellettualistica e venata di pessimismo, che gli fa dire: «Il mistero della nichilizzazione è dunque paradossalmente la nostra speranza, benché non sia affatto una “ragione” per sperare» [5]. Ma la morte non è metaempirica né misteriosa, semplicemente è “biologica” e i meccanismi della vita implicano che per continuare ad essere tale deve produrre morte. Una pianta produce e disperde mille semi perché solo così si assicura discendenza, sapendo che solo l’1% di essi ha qualche possibilità di affacciarsi alla vita. Dunque produce 990 semi destinati alla morte e solo 10 che, a caso, hanno qualche probabilità di sopravvivere e generare un’altra pianta. Alla fine solo 1 o 2 di essi riusciranno a germogliare facendo nascere una piantina, ma la morte avrà trionfato per 998 di essi: morti reali, non virtuali! Ciò vale anche per numerose specie animali in certi ecosistemi: le uova sono sistematicamente predate o i piccoli diventano il manicaretto di predatori che attendono golosamente il momento della schiusa. Ciò in un ecosistema; ma anche ognuno di noi è un minisistema di vita + morte “ad esaurimento” processuale. L’apoptosi scolpisce la “configurazione” del bambino, ma esso muore per lasciar posto all’adolescente, che morirà per far posto al giovane e così di seguito. Vivendo si muore per diventare “altro”.
Ognuno di noi “è-stato-per-poter-
diventare” e noi abbiamo continuato a rilasciare parte di noi per continuare a sussistere come tali. Una morte violenta non è altro che un rilascio “concentrato”, l’evoluzione se ne infischia dell’a-poco-a-poco o del tutt’insieme, l’importante è che tutto ciò che esiste lo sia con rilascio, poiché solo così il “nuovo” può trovare i suoi spazi. Già un adolescente comincia ad essere un “rilasciante” e non solo perché in lui cellule si suicidano e altre muoiono per altre cause, il suo cervello ha già raggiunto una struttura quasi definitiva e da tale definitività, o completezza neurale, deve iniziare il degrado neuronale in favore dello sviluppo dendritico e sinaptico. Il mutamento evolutivo in ognuno di noi porta i segni del – e del +, somaticamente è sempre un meno, mentalmente non sempre lo è. Noi siamo macchine biologiche che invecchiano e perdono colpi come quelle meccaniche. Una macchina-uomo di 50 anni varrà più o meno il 50% di quella che era a 15, ma anche un trentenne è molto meno di un ventenne e un novantenne è un carcassone al 10% di funzionalità vitale e al 90% di disfunzionalità e morte potenziale.E tuttavia il degrado intellettuale non è direttamente proporzionale al degrado fisico, si rilascia funzionalità ma si può acquistare specificità e profondità. Il cervello invecchiando diventa più essenziale e più complesso, ma sullo sfondo resta un trionfo della morte cellulare. Il cervello però ha le sue risorse segrete, come macchina-nella-macchina può lavorare anche per conto proprio, non è detto che pensieri e sentimenti s’inaridiscano come la pelle che si copre di rughe e come gli organi che si scassano. Quel che si deve anche capire è che il cervello lavora in modo stocastico e che è un sistema a funzionamento “di sussidiarietà”; vi sono persone che hanno avuto lesionate regioni del cervello le cui funzioni si sono trasferite ad altre regioni. Se normalmente una certa funzione è localizzata in una parte del cervello non vuol dire che non possa esserlo in un’altra. Ciò che muore qui può essere ricostruito più in là. Il cervello è una struttura evolutiva e soprattutto plastica, quindi precaria; “localizzazioni inderogabili” a parte, molto è trasferibile e sussidiabile.
Dai 15 anni d’età inizia l’invecchiamento perché molti neuroni incominciano a morire, ma quelli che restano si arricchiscono di dendriti e sinapsi. Meno neuroni, quindi, ma più complessi nelle strutture al contorno. Questi sopravvissuti aumentano la propria funzionalità e “funzionando” stimolano, almeno in piccola parte, la nascita di nuovi neuroni, comunque in numero molto minore dei morti. D’altra parte il numero di neuroni e il volume del cervello non significano nulla: un perfetto imbecille può avere un cervello di 2000 cm3 mentre quello di Einstein era di soli 1007 cm3. Anche in biologia ciò che conta può essere la “qualità” e non solo la “quantità”, ma ciò è essenzialmente perché, a differenza di altri animali sociali, siamo caratterizzati da una spiccata individualità. Essa è ciò che ci qualifica come esseri con alta capacità di godere e soffrire, desiderare e temere, spesso per cose e fatti differenti e in modo molto differente. Per esempio, quando soffriamo uccidiamo neuroni, affatichiamo organi, deprimiamo il sistema immunitario, forse favoriamo anche la nascita di cellule degenerate che non sanno più suicidarsi. Quando godiamo in modo naturale invece tutto si tonifica, il piacere produce salute e vitalità, probabilmente riducendo il rilascio.
Un animale che “sente” la realtà diveniente, sia esogena sia endogena, in maniere così particolari e spesso strane, che ha un “suo” modo di gioire e soffrire, diventa ciò che è formando il proprio “nucleo d’essere” talvolta fuori dalle logiche biologiche. Per esempio, il piacere reiterato può rendere stupidi e involuti e la sofferenza far evolvere. La sofferenza accelera il rilascio e ci avvicina alla morte, ma la vita che ci rimane “si riqualifica”; chi ha la fortuna di non soffrire probabilmente avrà più quantità di vita, ma probabilmente meno qualità. Chi ha sofferto molto è “esistenzialmente” diverso e forse “più in là” del semplice essere Homo sapiens costruito in un certo modo. Non è una questione d’intelligenza, ma di sensibilità: è la sensibilità individuale che ci scolpisce esistenzialmente e che ci fa essere un “io” e un “tu” e non solo un “noi”, ciò che fa di ogni persona un rilasciante morituro dotato di qualità. È in base a tale unicità esistenziale che una mente specifica e non generica giudica ciò che “vale la pena” e ciò che “non vale la pena”. L’importante non è solo il vivere, ma il “come” si vive ed anche talvolta poter scegliere … il come si muore.Resta però in sospeso una domanda. Siamo proprio sicuri che un suicida scelga il “suo” modo di morire e che questo non sia invece un doloroso ripiego? In altre parole, se il suicida anziché morire in solitudine e con la violenza potesse farlo circondato dai suoi cari, addormentandosi dolcemente in un ultimo sonno, non sceglierebbe questa soluzione? La violenza suicidaria è una scelta o non piuttosto una dolorosa ultima ratio in difesa della propria dignità? La decisione di dar corso a un atto violento, per liberarsi di una vita non degna di essere vissuta, sarebbe evitabile se in una società civile venisse permessa una “dolce morte”, non solitaria, ma circondata dall’amore dato e ricevuto di altre persone? La risposta è scontata: l’eutanasia sarebbe un’opzione civile contro la barbarie teocratica. Ma quante persone dovranno ancora violentare se stesse prima che si apra finalmente un orizzonte di civiltà che sostituisca il concetto di qualità a quello di quantità di vita, quello di individualità a quello di generalità? Ai posteri la risposta, continuando nel frattempo a sopportare la barbarie.

Note
[1] Il principio-base di Durkheim è sociologico e parte dall’assunto che la società plasma gli individui: l’individualità non esiste e se emerge è patologica. Anche nel suicidio l’agente è la società: essa “crea le condizioni” che spingono l’individuo a togliersi la vita, in tre modi principali. Il s. egoistico si motiva con una pulsione individualistica che rende il soggetto incoerente col gruppo per estraneità o emarginazione. Il s. altruistico, al contrario, è il frutto di una forte interiorizzazione dei codici comportamentali per cui rinunciare alla vita è un obbligo in nome di un “valore” (la vedova indiana che si lascia bruciare col marito morto e il capitano di una nave che affonda con essa). Il s. anomico (anomia = mancanza di regole) nasce in frangenti sociali turbativi della scala di valori in corso e il soggetto percepisce un “vuoto” o uno “strappo” intollerabili e inconciliabili col proprio esistere. (Émile Durkheim, Il suicidio, Torino, UTET 1977, pp. 192-451).
[2] Ivi, pp. 293-314.
[3] G. Edelman, Seconda natura, Raffaello Cortina, Milano 2006, p. 28.
[4] J.C. Ameisen, Al cuore della vita, Feltrinelli, Milano 1999, p. 15.
[5] V. Jankélévitch, La morte, Einaudi, Torino 2009, p. 458.