La figura di Ipazia nella riflessione di Toland

di Federica Turriziani Colonna

 

Nello scritto su Ipazia, filosofa, matematica e astronoma vissuta fra il IV e il V secolo, il filosofo irlandese Toland coagula il frutto di una riflessione e di un interesse rivolti, ad un tempo, al ruolo della donna nelle società, all’intelligenza declinata al femminile e spesa nella scienza, e alla polemica anticlericale fatta bandiera di una fede deista e panteista. Il matematico Teone, padre di Ipazia, educò sua figlia «non solamente in tutto quanto riguardasse il suo sesso, ma la spinse anche allo studio delle scienze più astruse, le quali sono considerate occupazione tipicamente maschile» (pag. 16). Della possibilità che le donne sviluppino un’intelligenza almeno pari, quando non persino superiore, a quella degli uomini, Toland non ha alcun dubbio, come scrive anche altrove, nelle Lettere a Serena; e se la condizione femminile è tale da risultare, in effetti, una subordinazione, ciò accade soltanto perché «l’esclusione delle donne dalla cultura è effetto di un’abitudine inveterata o deriva piuttosto da un progetto esplicito degli uomini» (cit. pag. 9). L’interesse di Toland è sincero, e quasi fuori tempo, nella misura in cui egli precorre e vive, prima che altri, lo spirito che porterà — ammesso che ciò sia davvero accaduto — all’emancipazione della donna nella società occidentale.

 In rapporto alla femminilità, è interessante notare come di Ipazia gli storici narrino aneddoti come quello che la vorrebbe bella ma vergine, sebbene sposa di Isidoro. Tutto ciò è plausibile, ma a Toland non interessa. A noi sì, però: nell’antichità class ica, qual è veicolata dalla mitologia, la parthenìa è una costante che si accompagna ad una sensualità pericolosa. Le sirene sono vergini dalla natura ibrida, creature seducenti confinate a vivere lontano dalla società, per la quale rappresentano un pericolo; se Afrodite è la dea che presiede al matrimonio, la cui istituzione rappresenta la struttura su cui si ergono le società, le sirene costituiscono nel mondo greco pre-cristiano un elemento destabilizzante che conviene addomesticare, lasciando che eserciti liberamente — in modo quasi ferino — il proprio fascino lontano dalle convenzioni sociali. La natura ibrida delle sirene è simbolo dell’opposizione natura-cultura; e se il mon­do dell’uomo prevede ordine e controllo delle unioni per mezzo del matrimonio, fuori di esso, allo stato di natura, le unioni risultano illegittime — ma ci sono! — e allora le sirene sono vergini, nel senso pagano del termine. La parthenìa non risulta congruente alla verginità, né con questo termine può essere tradotta: l’una descrive le unioni illegittime in un mondo estraneo alla nozione di peccato, l’altra assurge a valore prescrittivo raccomandabile a chiunque non abbia contratto matrimonio in un mondo che, invece, il peccato l’ha inventato. La verginità di Ipazia rappresenta un elemento di forte suggestione nella letteratura a lei dedicata; lo storico Toland rinuncia ad indagare sul fatto, ma è bene tenere a mente che non si tratta di una nozione univoca, e che è assolutamente plausibile che o gli storici ecclesiastici — che costituiscono le uniche fonti cui ci si possa affidare per ricostruire il mito di Ipazia — abbiano giocato sulla verginità al fine di veicolare l’immagine di una donna pura e moralmente retta, o — questa è la proposta — la verginità di Ipazia non va intesa in senso cristiano come astensione dalla pratica sessuale. 

Già, perché la scienziata alessandrina ricopriva un ruolo fondamentale nella società dell’epoca: era a capo della scuola platonica, stimatissima e raffinata intellettuale che magistrati e politici si premuravano di consultare con assiduità. E proprio tale posizione sembra aver infastidito, nell’opinione di Toland, il vescovo Cirillo che la fece assassinare in modo atroce da una schiera di fanatici monaci. 

 Ipazia morì per mano cattolica, sebbene le ragioni dell’omicidio risultino tali da dipendere da un gioco di equilibrio interno alla gestione politica nella città di Alessandria, in cui il prefetto imperiale Oreste vedeva diminuito il pro­prio potere, che  scivolava abusivamente nelle mani del vescovo. Ciò che preme a Toland è di biasimare la classe politica che concede troppo al clero, spesso pregno di fanatismo; tuttavia, è bene ricordare, per onestà intellettuale, che Toland non era ateo, anzi, fu proprio lui a coniare il termine panteismo. Da radicale e massone qual era, solidale con lo spirito del suo tempo, il filosofo irlandese non rifuggiva da una certa religiosità, che lo portava a professare la fede in un essere supremo, molto simile al dio di Giordano Bruno — di cui Toland fu traduttore in Inghilterra — e simile anche ad un certo spirito cristiano, di una cristianità volta a riscoprire i principi di condotta morale quali erano stati insegnati da Cristo; non è un caso che il nostro filosofo fosse vicino a sètte minoritarie ed ereticali tipicamente antitrinitarie. Pretendere che l’anticlericalismo di Toland sia anche ateismo nel senso in cui noi lo intendiamo, sarebbe fare violenza ad un’attitudine genuinamente polemica ma autenticamente religiosa; è allora più ragionevole godere delle pagine che seguono, con cui si chiude lo scritto dedicato ad Ipazia, nelle quali si imbelletta, con vena ironica e sfacciatamente polemica, il ritratto di ciò che è santo. Non guasterà ricordare che Cirillo, mandante dell’omicidio, assassino dalle mani pulite, fu a sua volta reso santo e festeggiato nel calendario liturgico ogni 27 giugno. 

 I due paragrafi di seguito sono la riproduzione, su gentile concessione dell’editore, dei capitoli XXI e XXII di J. Toland, Ipazia, a cura di F. Turriziani Colonna, Clinamen, Firenze 2010.

XXI.

Così terminò la vita di Ipazia, la cui memoria durerà per sempre e il cui omicidio accadde nel quarto anno dell’episcopato di Cirillo, quando Onorio era per la quinta volta console e Teodosio per la sesta, nel mese di marzo, durante il periodo della Quaresima, nell’anno 415. Quell’azione — riferisce Socrate — recò un’infamia non lieve non solo su Cirillo, ma anche sull’intera Chiesa d’Alessandria; così lotte e massacri sono abbastanza temuti dall’istituzione cristiana. Non c’è niente di più sicuro, niente di più vero; ma a quel tempo rimase molto poco del Cristianesimo autentico, tranne che esso consisteva in una nuda denominazione di pratiche religiose; tanto che, quando ho deciso di addossarmi il guaio di raccontarvi queste cose, non ho fatto altro che pensare che non fosse un compito difficile mostrare che né le dottrine né le distinzioni allora in voga fossero mai state insegnate da Cristo o dai suoi Apostoli e che le cerimonie richieste ai fedeli e praticate fossero del tutto sconosciute a quelli. No no!: non erano cristiani quelli che uccisero Ipazia, né gli uomini del clero cristiano devono ora essere attaccati al posto di coloro che furono davvero protagonisti di quell’omicidio, ma solo quelli che assomigliano a cristiani; che hanno sostituito tradizioni precarie, finzioni scolastiche e un dominio usurpato, alla salutare istituzione del sacro Gesù. Fozio è molto adirato con Filostorgio, che stigmatizza come uomo empio, in quanto questi ritiene che a fare a pezzi Ipazia furono coloro che sostenevano la omousia, ovvero i Trinitariani seguaci di Atanasio; ma non è un uomo impudente, o anche peggio, chi osa negare questo?, quando nessuno parteggiava di più per la omousia che Cirillo e i suoi seguaci. Quest’unica verità delle vicende in questione richiede di essere sottolineata, cioè che per me la differenza fra omoiousia ed omousia non ha alcun valore, se comparata con il profondo significato della Bibbia, dove i due termini peraltro non compaiono. Allo stesso tempo non sarà inopportuno ascoltare ciò che ha da dire Goffredo a tal riguardo: osserva — dice — il veleno ariano di Filostorgio contro coloro che sostengono l’omousia, cioè i cattolici, come se l’omicidio di Ipazia fosse un crimine operato dai Cattolici, e non dalla populace, sempre così indiscreta. Così molto si può trarre da questo passo, e cioè che Ipazia stessa non fu cattolica. O mirabile Goffredo! Nulla da dire riguardo al veleno ariano di cui parli, nel quale non sono coinvolto neanche minimamente; e neppure sulla colpa del popolo, che ho già sufficientemente chiarito sopra, e nemmeno della bella distinzione fra la populace e i Cattolici, come se la massa dei Cattolici non fosse populace; la tua conclusione che Ipazia non fu cattolica è davvero molto acuta, quando in realtà ella non era proprio cristiana: essendo stato infatti suo padre un filosofo pagano, ed ella stessa moglie di un altro filosofo pagano, senza che si possa anche solo lontanamente pensare che ella avesse altre persuasioni. Così, una ridicola lettera, che si vuole scritta da lei a Cirillo sulla Pasqua, è una manifesta contraffazione; poiché ella morì martire sotto Teodosio, e inoltre ventuno anni prima dell’esilio di Nestorio, che è stato menzionato in quella lettera con l’epiteto di empio. 

XXII.

E adesso che il nome di Cirillo me lo fa tornare in mente, non è una beffa insopportabile nei confronti di Dio e degli uomini riverire una persona così ambiziosa, così turbolenta, così perfida e così crudele facendolo Santo? — perché la storia mostra che proprio questo fu il suo carattere. Ma in tutta onestà questo stesso titolo di santo non di rado è stato conferito in modo infelice: perché la maggior parte dei santi dopo Costantino, e soprattutto quando la canonizzazione divenne di moda, corrispondono a tre tipologie di persone, e fra questi solo una minima parte merita davvero venerazione. In primo luogo, sono stati fatti santi quegli uomini che hanno promosso la grandeur della Chie­sa con tutti i propri sforzi, specialmente con i propri scritti; i quali scritti, invece di impiegarli per istruire i propri concittadini, li hanno prostituiti per magnificare l’autorità spirituale con l’esito del degrado e dell’abbrutimento dei loro spiriti. La seconda tipologia degli uomini che sono stati onorati con la santificazione è costituita da prìncipi o da altri uomini ricchi e potenti, e tuttavia viziosi e tirannici, che donarono ampi possedimenti e che lasciarono il potere temporale nelle mani della Chiesa; o che, per incapacità, per sottomissione, con la spada e con la proscrizione, castigarono la temerarietà di tali azioni come fossero troppo scomode per metterne in questione i decreti. La terza tipologia è costituita da visionari estremamente viscidi, che si vantano dei propri entusiasmi deliranti e delle proprie estasi; oppure essi si impongono sull’ignorante attraverso mortificazioni formali, falsamente reputate atti di devozione, e vengono ricompensati con questo premio immaginario, da coloro che disprezzano la loro austerità, ma in tal modo fanno anche molta fortuna. Non c’è da meravigliarsi, allora, che l’epiteto di santo, dal significato così vicino a quello di pietà ed innocenza, fu così palesemente avvicinato al vizio e all’empietà, in cui prevale inoltre un diluvio di ignoranza, superstizione e tirannia, che hanno sommerso quasi per intero il mondo cristiano. Tutte le persecuzioni che misero in atto erano mezzi molto potenti che utilizzavano per reprimere ogni sforzo fosse fatto per rinnovare la virtù e la cultura. Da quello spirito anticristiano deriva Ipazia, alla quale il clero non poté perdonare che fosse bella, eppure casta; molto più colta di loro, tanto da non essere sopportata dal popolo; ed ebbe presso il magistrato civile stima maggiore di quanta ne godessero quelli, e il clero dell’epoca aveva bisogno di guidare, o condurre, il magistrato, come la propria bestia da soma.

Da L’ATEO 5/2010